Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Di quegli anni Aimo fece proprio un insegnamento fondamentale: «Se sapete cucinare ma non conoscete la materia prima, il vostro talento sarà sempre sprecato». Da qui l’importanza del prodotto, del saper fare la spesa, di come trovare l’eccellenza dell’ingrediente e di chi lo produceva, allevatori e coltivatori. «Lo accompagnai più volte a fare la spesa, al mattino, ai mercati generali. Ero un ragazzino “insospettabile” e, mentre lui discuteva con il macellaio i tagli da acquistare, io ne testavo in diretta la qualità». Sfiorava con le dita i tagli di cosce e carré «e se l’impressione era come di un velluto d’olio, dovevo dargli un cenno che andava bene». Se, invece, il ragazzino-scout sentiva la carne ruvida, grazie e arrivederci.
E la stessa cosa all’ortomercato: all’alba per le verdure «mi fece scoprire come alcuni rinfrescavano l’insalata che avevano sul banco da qualche giorno con l’acqua fresca per farla apparire brillante», ma in realtà la qualità, dopo tre giorni al massimo, era destinata a decadere, indipendentemente dalla doccia rigenerante. Tra le madeleine che Aimo conserverà per sempre nel cuore c’è un altro episodio che si divertiva a raccontare, in realtà specchio di quella Milano del dopoguerra dove si viveva di sudore, fatica, ma anche tanta generosità. Siamo alla notte di San Silvestro del 1946, la prima lontano dalla famiglia. Con l’amico Gialindo e qualche soldino in tasca, vedono sulla vetrina di una trattoria l’insegna del menù della serata, da leccarsi i baffi tra cotechino e lenticchie, cappelletti in brodo, cappone e agnello. Si accorgono che, in piccolo, c’era anche scritto che si poteva consumare il menù del giorno, quello a prezzo popolare: busecca (trippa alla milanese), fagioli borlotti e poco altro, ma entro le 22.30. Sfidano la sorte e trovano un tavolino libero.
Incontrano la sciura Maria, bella donna dalle forme generose e il tratto materno. «Ma voi siete quelli del salumiere?». Evidentemente si era sparsa la voce su questi due imberbi toscanelli che giravano raccomandati. Offre loro il pane (che allora si pagava a parte) e i due si pappano la busecca «fino a leccare il piatto». Al momento di pagare il conto versano sul tavolo i loro soldini appena sufficienti. La sciura Maria li blocca «Un mument». Loro diventano «color barbera dalla vergogna» temendo di aver fatto male i conti. Nel frattempo iniziano ad arrivare i primi clienti, quelli che il conto della serata se lo potevano permettere davvero. Loro si guardano intorno cercando di sparire alla vista.
Dopo qualche minuto, la padrona di casa arriva al tavolo «con due piatti faraonici», cappone con mostarda per Aimo e agnello con patate per Gialindo. Non era ancora il tempo di Scherzi a parte, loro balbettano: «Ma non sono nostri». La sciura manco li ascolta: «Poggiò le mani sulle nostre spalle, attirò l’attenzione battendo una posata contro un bicchiere e, parlando a tutta la sala, fu molto diretta “Signori, chi è che paga questi due piatti?”, “Noi”, risposero tutti». Anche questa era la Milano del miracolo economico prossimo a venire.
Oramai Aimo comincia a marciare di suo. Passa dal Carminati a Gioacchino; da lavapiatti a progressivo aiuto del cuoco di turno, non prima di essere arrivato all’alba per accendere il fuoco «con le cassette di legno della verdura, unte con un po’ d’olio perché bruciassero prima». Fu lì che imparò a fare quel brodo ricco di aromi e sostanza divenuto poi (anche) l’arma segreta per i suoi risotti.
Il 1955 è l’anno della svolta. I genitori erano amici di famiglia di Giovanna e Lorenzo Giuntoli, anche lei cuoca e lui carabiniere come loro. Avevano una figlia, Nadia, che Aimo aveva intravisto ancora in fasce, ma nel 1955 era diventata una bella ragazza, nel pieno di una adolescenza ricca di fascino e promesse. Mentre i genitori discutono del più e del meno, loro giocano a carte per ingannare il tempo. «Lei vinse a carte scoperte e io persi, ma pure la testa», per lei. Dopo poche settimane si presenta l’occasione che aveva sempre sognato. Un bar tabaccheria, nei pressi della stazione Centrale, in via Copernico, aveva la proprietaria poco motivata a preparare i quattro piatti per l’angolo cucina e il nostro Aimo esordisce come titolare. Chiama mamma Nunzia a dargli una mano e, ovviamente, dopo un poco, lei chiama la giovane Nadia ad affiancarla.
La scintilla della briscola di famiglia, per quei due giovani toscani in terra meneghina, diventa un legame indissolubile che li unirà poi per tutta la vita, non solo a livello familiare, ma pure professionale. «Ricordo ancora quando scrissi il mio primo menù», rivela a Carlo Spinelli, «mi sentivo una specie di Montanelli». «Avevo una Olivetti, carta carbone e battei così lentamente i tasti per l’emozione che impiegai un’ora per dodici copie». Nel 1962 il primo traguardo. In via Montecuccoli, allora periferia di una Milano in pieno sviluppo, con la strada ancora sterrata circondata da cantieri edili, rileva una vecchia osteria con gioco di bocce e pergolato. Aimo e la sua Nadia preparano le colazioni al mattino per gli operai, a pranzo si viaggia di schietta e semplice toscanità, come si usava allora anche tra le vie del centro e, in breve, da semplice bar trattoria diventa Trattoria di Aimo e Nadia sino al battesimo della maturità, «Il Luogo di Aimo e Nadia», messaggio neanche tanto subliminale a testimonianza che i palati sempre più fidelizzati andavano da questa bella coppia per gustarsi la loro cucina, con un estendersi della miglior materia prima a tutta la penisola, dalla calabrese cipolla di Tropea ai capperi di Pantelleria, il piemontese bue di Carrù, in una antologia tricolore per cui, già negli anni Ottanta, Aimo e Nadia hanno narrato, con i loro piatti, «la prima forma di territorialità consapevole della moderna ristorazione italiana».
La prima stella gommata (Michelin) nel 1981, la seconda nel 1984. Premiato dal sindaco Gabriele Albertini con l’Ambrogino d’Oro nel 2005. Erano anni in cui le «tifoserie golose» della Milano un po’ ghiottona e curiosa si dividevano tra i seguaci del «divin» Gualtiero Marchesi e il nostro Aimo. La miglior sintesi, probabilmente, è quella di Massimiliano Alajmo, da molti considerato l’erede naturale dello «zio» Aimo, come erano uso chiamarlo i suoi fedelissimi (copyright del sottoscritto). Tanto che gli dedicò un piatto «Al-Aimo» ideale gemellaggio reciproco. «Aimo celebrava la gastronomia come nutrimento essenziale», da qui la sua ricerca quasi maniacale della materia prima a tutto stivale, «Gualtiero come nutrimento mentale», con quei gemellaggi di «architettura edibile» sorta di rimandi alle creazioni artistiche di Jackson Pollock, con il «Dripping di pesce» o il riso oro e zafferano.
Con il nostro Aimo, invece, che ha fatto sognare generazioni con la sua zuppa etrusca o gli spaghetti al cipollotto. La stima è reciproca. Ad un evento Aimo cucinò per Gualtiero un risotto ai fiori di zucca e tartufo. Dopo l’inevitabile bis, Gualtiero chiamò Aimo e gli sussurrò in un orecchio: «Se ne mangio ancora non ne rimane più per gli altri».
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Nasce a Pistoia nel 1934 da papà Armando, carabiniere, e mamma Nunzia, ricercata cuoca presso la buona borghesia locale. È da lei che inizia ad «annusare» i profumi e i sapori della buona cucina. Quella semplice in cui anche i prodotti del cortile, galline e conigli, come dell’orto, a partire dai legumi, possano trasmettere emozioni con un imprinting che poi ti accompagnerà nella vita adulta. «Da loro imparai a riconoscere la qualità di un pollo», ovvero il colore del becco, indice dell’età del pennuto, così come dalla trama delle zampe e dall’usura delle unghie si poteva capire se aveva realmente razzolato nel cortile con una sana alimentazione.
Il secondo conflitto mondiale è appena terminato. Papà Armando torna dal fronte siciliano con lesioni alle braccia che gli impediscono di zappare quel poco che la famiglia ha sul campo fuori casa. Mamma Nunzia si ammala così da non poter più arrotondare le già scarse entrate familiari con le sue «consulenze culinarie». È difficile sbarcare il lunario. Anche perché nella loro ritirata le truppe tedesche hanno devastato le campagne compromettendo i raccolti. La dieta quotidiana vede il pane come un lusso riservato alla domenica. Sulla tavola mamma Nunzia prepara polenta, con un filo d’olio quando va bene. Festa grande quando si può insaporire il tutto con una fettina di buon lardo goloso.
Fortuna vuole che, a Milano, ci sia zio Silvio con una bancarella ambulante. Papà Armando prende il suo ragazzo e gli dice: «Vai a Milano e guadagnati il pane». Non i soldi, preciserà anni dopo il nostro Aimo, ma pane concreto, quello che in casa è merce rara. Siamo agli inizi del 1946. Aimo saluta mamma e papà e trova posto su di una panca di legno di un treno merci che trasporta bestiame. Dodici ore di lento sferragliare per arrivare nel Gran Milan. Qui c’è tutta una vita da reinventarsi, con dedizione ed impegno. Aimo sente che la sua vocazione, i sogni che vuole realizzare passano per la buona cucina, quella che lui ha maturato dall’esempio quotidiano respirato in casa, sente «di potersi raccontare» con l’idea di cucina che coltiva nell’anima di quel ragazzino che diventerà adulto. Seguono una serie di episodi, da lui poi raccontati a un coinvolto pubblico di Identità golose, decenni dopo, e ben descritti da Gabriele Zanatta. Storie che avrebbero ispirato il miglior Roberto Rossellini, tra i padri del neorealismo all’italiana.
All’inizio il giovane Aimo fa l’ambulante per zio Silvio, con la bicicletta che traina il carretto delle caldarroste. Niente di che, ma giusto per campare. Un giorno di trova sul sagrato della chiesa vicino a casa quando, improvvisamente, viene bloccato da due vigili che gli chiedono di esibire la licenza commerciale. Aimo molla la bicicletta e cerca rifugio nella vicina chiesa dove c’è l’amico frate Cecilio, quello che aveva fondato la mensa dei poveri dell’Opera di San Francesco. Niente da fare, il campanello suona muto. Gli uomini in divisa stanno per fargli il verbale con relativa multa quando arriva una coppia distinta che non solo gli acquista un bel sacchetto di caldarroste, ma anche liquida subito l’ammenda e relativo verbale. Solo più tardi scoprirà che si tratta di Carlo Dapporto e Wanda Osiris, la coppia regina del teatro italiano. Dopo qualche mese da ambulante, Aimo entra nella squadra de «Il» Carminati, a due passi dal Duomo, uno dei punti di riferimento della Milano che ritornava alla dolce vita tra aperitivi, cene e serate danzanti. Esordisce da lavapiatti. Un’esperienza che gli confermerà, ancora una volta, come per realizzare i propri sogni bisogna lavorare duro, con tenacia e sacrificio.
Anche qui Aimo Moroni non si smentisce mai nella sua profonda umanità. Decenni dopo quando veniva invitato da amici ristoratori nei vari locali, quando entrava in cucina andava per primo a salutare i giovani lavapiatti del posto ricordando che, anche lui, aveva esordito in tal modo. Una sorta di augurio, poi, a salire anche loro la gerarchia culinaria se accompagnata da merito e talento. Da Carminati, Aimo incontra il coetaneo Gialindo, toscano come lui, con cui stringe un’amicizia di solidarietà e sostegno reciproco. Con qualche mancetta che raggranellano dalla solidarietà degli amici camerieri, scoprono che un buon macellaio della periferia, tale Ercole Villa, ha un cartello esposto in vetrina che recita«Sottobanco, poche lire», una specie di messaggio subliminale, che imparano a tradurre in fretta. Si tratta degli scarti della lavorazione al dettaglio: la prima fettina ossidata del salame, l’osso del prosciutto diviso in due, il midollo, il peperone sott’olio dall’aspetto poco invitante, tutti avanzi che venivano volutamente messi «sottobanco», appunto, per una clientela che apprezzava l’emergente Ercole Villa, tra i primi a proporre la pregiata fassona piemontese in città.
Aimo e Gialindo sapevano anche che dovevano presentarsi quando nella macelleria non c’era nessuno, per evitare occhi indiscreti (e stupiti). Il buon Ercole li prese presto in simpatia «e spesso ci dava più di quanto noi potevamo permetterci», con le poche monetine in mano. Porgeva loro il pedrioeu, il cono di carta paglia, colmo di chicche golose, stringendoglielo tra le mani. Al loro sguardo stupito, il congedo conseguente «Lassate stà, andate, andate». Anche questa era la Milano dal couer in man, la Milano generosa con la sua vita quotidiana ricca anche di altri episodi che videro Aimo e Gialindo testimoni. Al Carminati, nel riordinare sala e cucina, vi era un’anziana signora che un giorno li prese in disparte: «Se avete voglia di fare una buona colazione, dovete andare in quella panetteria che vi dico e chiedere alla signora un po’ di quel pan là». Un messaggio in codice che ben presto impararono a tradurre nella realtà. L’esordio timidissimo, sussurrato: «Avete un po’ di quel pan là?». Lei li guarda, intuisce la mandante, va nel retrobottega e se ne esce con due bei pedrioeu colmi di pane secco e duro, quello avanzato che, in genere, veniva riciclato una volta grattugiato. Poi li guarda, l’occhio indagatore: «Quanti anni avete?». «Ventisei in due». «Se venite in un altro momento, ma non adesso che c’è gente, per voi ci sarà sempre del pane, ma non quel pan là». Pane fresco, commenterà poi il nostro Aimo.
Ma siamo solo all’inizio. Quella sorta di zia adottiva del Carminati, testandone l’onestà e l’impegno quotidiano di lavapiatti e non solo, li premia con un’altra soffiata. Era venuta a sapere che, finito a tarda ora il lavoro serale, se ne andavano a casa a piedi, dall’altra parte della città, non potendo permettersi il biglietto del tram, e correndo a gamba svelta, anche per combattere il freddo nella stagione invernale. «Andate in piazza Fontana e prendete la linea 15, dite al bigliettaio che siete rimasti senza soldi, ma che scenderete alla prima fermata». Anche qua l’ennesima Milano dal coeur in man. L’occhio dei ragazzi è tanto limpido quanto timido e il guardiano del mezzo li rincuora con tono paterno. «Tranquilli, sedetevi vicino a me, senza passare davanti agli altri passeggeri».
Ma è ora di passare di grado e i nostri due lavapiatti incontrano cuoco Cesare, il loro primo maestro. Nei momenti di pausa tra pranzo e cena vanno al banco della cucina di casa sua e si apre un mondo.
1. continua
Lo stile di Bob Noto si impone all’attenzione degli addetti ai lavori e non solo. Immancabile la domanda curiosa del giornalista teso a carpirne qualche segreto, di quel suo essere un artista fotografico diverso dagli altri. «Quindi lei, dopo ogni foto, il piatto se lo mangia…». «Si immagini se facesse la stessa cosa un fotografo di moda, dopo aver ritratto Naomi Campbell».
Oramai le foto di Bob Noto facevano la differenza e il sempre più autorevole ferramenta prestato alle reflex culinarie venne coinvolto in svariate collaborazioni, a iniziare con libri quali Cracco, sapori in movimento, ma anche Grandi chef di Spagna e via via svariate riviste di settore. Di un locale, del suo cuoco ambasciatore, del personale di contorno, non perdeva di coglierne i mille aspetti, anche magari fuori dagli orari di lavoro e molte sue foto, straordinarie quelle in bianco e nero, rappresentantano un talento e una sensibilità fuori dal comune. Era una Treccani golosa in cui il nostro foto-gourmet, che si aggirava curioso con Antonella, moglie e compagna di emozioni, e il loro fedelissimo meticcio Rocky, cui non veniva mai negata la ciotolina sotto il tavolo per respirare al meglio, pure lui, le atmosfere stellari.
Quello che continua a sorprendere, nell’approfondire la figura di Bob Noto, era la sua ecletticità, accompagnata al carattere di una persona di rara generosità e modestia. Con un passato da attore e cantante, seppe riposizionarsi come grafico, con opere e intuizioni che hanno lasciato traccia profonda. Apre le danze Felice Modica, siciliano di Noto, produttore del meglio della sua terra, vino e olio. Vuole cambiare passo, dare una veste grafica ai suoi prodotti che vada oltre la banalità del copia incolla tipografico. Si rivolge per un consiglio all’amico Paolo Marchi: «Ma stai bene attento, se non gli sei simpatico ti manda a quel paese». Modica illustra al «ferramenta» le caratteristiche del suo Insolia, un ancora semisconosciuto bianco orgoglio dell’isola. Bob coniuga qualità e leggenda e gli manda una bozza battezzata «Lupara», ovvero una lupa che ulula alla luna. Al primo colpo d’occhio rimane tra lo stupito e il divertito. «Era una sfida», quella lupara, «accettarla fu come correre a 100 all’ora su di una lama di rasoio» ma, come hanno sempre suggerito gli strateghi del marketing, «quando vuoi far conoscere un prodotto, devi per prima cosa colpire la curiosità di chi gli passa davanti, incuriosirlo e fermarlo ad approfondire poi tutto il resto». E la cosa funziona: dopo lo stappo e la degustazione al calice ululereste anche voi alla luna per la piacevolissima scoperta.
I due non si conosceranno mai di persona, continuano con un rispettoso e cordiale «lei» nei loro rapporti di fruttuosa collaborazione. Modica è riconoscente al suo creativo, nuovo amico torinese e, quindi, si dichiara pronto a corrispondere quanto dovuto. «Mi mandi qualche bottiglia del suo olio, quello vostro siciliano è speciale». «Nell’era cibernetica», commenta divertito il nostro produttore, «avevamo rispolverato l’antica arte del baratto». E olio sia.
Un altro capitolo tutto da scoprire è quello con i tristellati fratelli Massimiliano e Raffaele Alajmo de «Le Calandre», nel Padovano. Con loro, Bob Noto condivideva un rapporto molto divertente. Suo il copyright del logo tristellato, nato da un disegno che ironizzava sulla «J» del cognome e il naso di Massimiliano. Ma l’episodio collocato negli annali a futura memoria è un altro. Nel 2010 la sala calandrosa viene completamente ridisegnata quale miglior accompagnamento alla filosofia dei piatti che escono dalla creatività di chef Massimiliano: semplicità e sostanza. Spariscono cristallerie e tovaglie, si lasciano liberi i tavoli realizzati dal fusto di un albero secolare. Ebbene, come si presenta il nostro torinese cittadino del mondo? «Lo abbiamo visto entrare con un bel completo nero, ma senza camicia, a torso nudo pudicamente celato da una vivace cravatta rossa». Chissà come avrebbe commentato questo fuori onda lo scrupoloso monsignor Della Casa, meglio noto come autore dell’immortale Galateo, certamente si sarebbe fatto una risata dietro le quinte.
In tema di guasconeria, Bob Noto era un abile regista. Assieme agli amici Giorgio Grigliatti e Giacolino Gillardi avevano fondato «vaLanga», una specie di «spectre gastronomica» che si avventurava a esplorare stellati come trattorie per coglierne il meglio e, se meritato, regalavano un adesivo dagli inconfondibili tratti, ovviamente frutto dell’estro grafico di Bob nostro, che si poteva affiggere all’entrata del locale assieme a loghi di ben altre e conosciute guide golose.
Del Bob goliarda ci sono mille altri episodi. Come quando si riunivano gli amici di sempre e i nuovi cooptati in goliardiche spedizioni comodamente seduti in corriera. «Si muoveva con lo spirito adolescenziale di un liceale in gita. Teneva banco raccontando barzellette, cambiando spartito in men che non si dica, così come direttore d’orchestra nell’intonare vari canti», più o meno innocenti. Ma il fuori spartito era ben altro. «Con lui c’era da aver paura nel cadere nella braccia di Morfeo», specialmente dopo aver celebrato i brindisi finali. «Si fingeva in pausa nei momenti in cui tutti sonnecchiavano. Era lì che tirava fuori la sua macchina fotografica e scattava a ripetizione» come Rino Barillari, il più famoso reporter della Dolce vita romana.
Nel 2009, con un palmares di tal fatta, si presenta finalmente l’occasione di una prima mostra personale delle sue foto. Non parliamo di Brera e dintorni, ma di «Antiruggine», altra pensata fuori spartito, voluta da quel geniaccio di violoncellista di Mario Brunello in quel di Castelfranco Veneto, la città del Giorgione, nel Trevigiano. Un altro modo, per raccontarsi in diretta, senza filtri, a un pubblico più addestrato a percepire le armonie dei Bach e Beethoven che il sobbollire lento di un’orchestra di pentole.
Venuto a mancare poco più che sessantenne, nel 2017, il nostro Bob ha lasciato un ricordo nel cuore dei moltissimi che hanno avuto l’onore di conoscerlo e di poterne condividere anche solo pochi momenti con una persona che sprizzava amore per la vita, ma sempre con quel dovuto «non so che» che fa la vera differenza tra i giganti e i presunti tali. Una sintesi per tutte è quella di Paolo Marchi: «Non si prendeva troppo sul serio e sapeva ridere di sé, dall’alto di un’autentica competenza», abbinata «a, un saper vivere sottotraccia senza sbrodolarsi addosso continue lodi». Su queste basi la nascita del Premio Bob Noto, da un’idea di Luca Iaccarino, Stefano Cavallitto e Matteo Baronetto. La mission è quella di premiare «I cuochi impavidi della cucina d’avanguardia», di anno in anno focalizzata su una delle tante caratteristiche che hanno reso il nostro Bob personaggio fuori dagli schemi. Ha inaugurato l’albo doro, nel 2021, lo spagnolo Luis Andoni per «l’irriverenza». L’anno dopo i fratelli Alajmo per «l’ironia». Nel 2023 l’olandese René Redzepi, per «la creatività». Nel 2024 si torna in patria con Mariella Organi, moglie del bravissimo Moreno Cedroni alla Madonnina del pescatore di Senigallia, premiata per «l’empatia» perché, se il talento in cucina ha il suo peso, è l’accoglienza in sala a dare quel tocco in più che supporta qualità e sostanza di un locale. Quest’anno è andato ad Alain Passard, «cuoco che incarna perfettamente l’importanza che hanno sensibilità, perseveranza, talento e visione», recita la motivazione. Viene consegnata loro una statuetta del nostro, in un elegantissimo completo blu e una fetta di prosciutto a mo’ di pochette. A Bob Noto è stato dedicato un bel libro, nel 2023, dall’editore Maretti dove, accanto a una antologia fotografica del meglio dei suoi scatti, vi è una ricca antologia di testimonianze di chi lo ha conosciuto così come, nel 2024, un film documentario, fortemente voluto dalla famiglia Lavazza, dove il bravo regista Francesco Catarinolo ha saputo creare un originale collage di vari capitoli di vita del nostro Bob.





