
Dirigenti contro la norma sulle responsabilità in caso di studenti infetti. E reclamano: «Quando arrivano le nuove postazioni?».«Chiediamo prima della riapertura di rivedere la responsabilità penale dei dirigenti scolastici in caso di contagio da Covid». Lo dice Antonello Giannelli, presidente dell'Anp (Associazione nazionale presidi) precisando che non si tratta di uno scudo penale «perché quello fa riferimento a soggetti che hanno commesso reati, e i presidi non sono delinquenti o malfattori», ma si tratta della sicurezza degli insegnanti e dei lavoratori in tempo di coronavirus. Una presa di posizione inevitabile perché non poteva certo piacere ai presidi lo scaricabarile di responsabilità del Protocollo per la ripresa della scuola presentato in pompa magna dal ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina e definito dai sindacati un «documento storico». Giannelli ne ha parlato in occasione della presentazione del vademecum per i presidi, stilato dall'Anp, dove si mettono in fila le cose da fare: acquisto di mascherine e come usarle, monitoraggio su spazi, docenti e bidelli che mancano all'appello, scelta degli orari (e dei varchi) di ingresso e uscita, pulizia quotidiana di aule, androni e bagni, come integrare la didattica in presenza e a distanza (limitata per superiori ma anche per elementari e medie in caso di lockdown nazionali o locali), nomina del medico competente e individuazione dell'aula stazionamento Covid-19 per isolare casi sospetti. E mentre il governo alza il livello d'allarme viene da chiedersi non tanto se il 14 settembre riapriranno gli edifici scolastici ma quanto resteranno aperti. Ieri infatti, la Azzolina su Facebook ha rassicurato tutti: «Siamo al lavoro da mesi per il rientro a scuola di tutte le studentesse e di tutti gli studenti. È una priorità assoluta del governo perché è una priorità di tutto il Paese. Dal primo settembre le scuole apriranno per chi è rimasto più indietro. Dal 14 riprenderanno ufficialmente le lezioni. Ora servono responsabilità e consapevolezza da parte di tutti» ha sottolineato la ministra che ha aggiunto: «Dobbiamo rispettare le norme di sicurezza ogni giorno. Dobbiamo tutelare la nostra salute e quella degli altri. È importante farlo per non disperdere i sacrifici di questi mesi. Le scuole non vanno solo riaperte, dobbiamo fare in modo che poi non richiudano. E serve la collaborazione di tutti». Sicuramente quella delle famiglie che, come prevede il decreto, dovranno misurare la temperatura ai figli ogni mattina prima di mandarli a scuola. Ma intanto Giannelli precisa: «Se ci sarà un caso positivo all'interno di una scuola bisognerà valutare la chiusura dell'istituto solo di concerto con l'autorità sanitaria, cioè la Asl, e dopo avere valutato le circostanze. Non ci possono essere regole generali né ci si può affidare esclusivamente a parametri numerici». Nel vademecum Anp, c'è l'indicazione di predisporre un locale interno a ogni istituto scolastico per l'accoglienza degli eventuali casi sintomatici di coronavirus o sospetti. Ma soprattutto quello che lascia perplessi i presidi è la tempistica con cui il governo sta procedendo alla organizzazione per la riapertura dei plessi scolastici, basti vedere il caso dei 2,5 milioni di banchi monoposto. «Chiediamo al commissario Arcuri che venga pubblicato il prima possibile il calendario di consegna dei banchi monoposto che noi aspettavamo per il 12 settembre, ma che sicuramente non arriveranno. L'inizio del nuovo anno scolastico si avvicina e non è possibile che i presidi vengano a saperlo il giorno prima: per organizzare tutto serve un minimo di anticipo». Insomma i dirigenti scolastici non hanno alcuna notizia ufficiale e sono in attesa della riunione del Comitato tecnico scientifico in programma domani. I dirigenti chiedono di conoscere con urgenza il calendario di consegna dei banchi monoposto anche se, dopo il dietrofront del Cts sul distanziamento e se le aule non sono sufficienti (un 5% di alunni, circa 400.000, sono ancora senza) dovrà bastare la semplice mascherina chirurgica. Però, per il dirigente Anp, «è impensabile che la mascherina sia l'unica arma di difesa dal contagio, perché sappiamo benissimo quanto sia faticoso, per gli alunni e per il personale, indossarla per ore». La mascherina, va ricordato, è obbligatoria dai 6 anni e può essere abbassata in classe se ci sono le distanze assicurate, ma rimessa quando gli studenti si alzano dai banchi. E chi non rispetta le regole? Il vademecum spiega che va rivisto il regolamento di disciplina degli studenti. Alcuni istituti lo hanno già fatto prevedendo sanzioni disciplinari e interventi sul voto in condotta. Del resto all'uso della mascherina è affidato il destino non solo di 8 milioni di studenti, «ma un insieme di circa 30 milioni di persone, interi nuclei familiari con genitori e nonni, ed è evidente che con l'aumento della promiscuità tra gli individui cresce anche il rischio di contagio». Insomma quando manca meno di un mese all'apertura della scuola, i presidi sono abbastanza arrabbiati e in attesa di risposte mentre la Azzolina ricorda che sul sito del ministero c'è una sezione in cui sono raccolte tutte le informazioni, i documenti, le risposte alle domande principali che illustrano le modalità di rientro.
Il signor Yehia Elgaml, padre di Ramy (Ansa)
A un anno dal tragico incidente, il genitore chiede che non venga dato l’Ambrogino d’oro al Nucleo operativo radiomobile impegnato nell’inseguimento del ragazzo. Silvia Sardone: «Basta con i processi mediatici nei loro confronti, hanno agito bene».
È passato ormai un anno da quando Ramy Elgaml ha trovato la morte mentre scappava, su uno scooter guidato dal suo amico Fares Bouzidi (poi condannato a due anni e otto mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale), inseguito dai carabinieri. La storia è nota: la notte del 24 novembre scorso, in zona corso Como, i due ragazzi non si fermano all’«alt» delle forze dell’ordine che avevano preparato un posto di blocco per verificare l’uso di alcolici nella zona della movida milanese. Ne nasce così un inseguimento di otto chilometri che terminerà solamente in via Ripamonti con lo schianto dello scooter, la morte del ragazzo e i carabinieri che finiscono nei guai, prima con l’accusa di omicidio stradale in concorso e poi con quelle di falso e depistaggio. Un anno di polemiche e di lotte giudiziarie, con la richiesta di sempre nuove perizie che sembrano pensate più per «incastrare» le forze dell’ordine che per scoprire la verità di quel 24 novembre.
I governi ricordino che il benessere è collegato all’aumento dell’energia utilizzata.
Quattro dritte ai politici per una sana politica energetica.
1 Più energia usiamo, maggiore è il nostro benessere.
Questo è cruciale comprenderlo. Qualunque cosa noi facciamo, senza eccezioni, usiamo energia. Coltivare vegetali, allevare animali, trasportare, conservare e preparare il cibo, curare la nostra salute, costruire le dimore dove abitiamo, riscaldarle d’inverno e rinfrescarle d’estate, spostarci da un posto all’altro, studiare fisica o violino, tutto richiede l’uso di energia. Se il nostro benessere consiste nella disponibilità di nutrirci, stare in salute, vivere in ambienti climatizzati, poterci spostare, realizzare le nostre inclinazioni, allora il nostro benessere dipende dalla disponibilità di energia abbondante e a buon mercato.
Stéphane Séjourné (Getty)
La Commissione vuole vincolare i fondi di Pechino all’uso di fornitori e lavoratori europei: «È la stessa agenda di Donald Trump». Obiettivo: evitare che il Dragone investa nascondendo il suo know how, come accade in Spagna.
Mai più un caso Saragozza. Sembra che quanto successo nella città spagnola, capoluogo dell’Aragona, rappresenti una sorta di spartiacque nella strategia masochistica europea verso la Cina. Il suicidio chiamato Green deal che sta sottomettendo Bruxelles a Pechino sia nella filiera di prodotto sia nella catena delle conoscenze tecnologiche si è concretizzato a pieno con il progetto per la realizzazione della nuova fabbrica di batterie per auto elettriche, che Stellantis in collaborazione con la cinese Catl costruirà in Spagna.
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Il vertice ospitato da Luiz Inácio Lula da Silva nel caldo soffocante di Belém si chiude con impegni generici. Respinti i tentativi del commissario Wopke Hoekstra di forzare la mano per imporre più vincoli.
Dopo due settimane di acquazzoni, impianti di aria condizionata assenti e infuocati dibattiti sull’uso della cravatta, ha chiuso i battenti sabato scorso il caravanserraglio della Cop30. Il presidente del Brasile Luiz Inácio da Silva detto Lula ha voluto che l’adunata di 50.000 convenuti si tenesse nella poco ridente località di Belém, alle porte della foresta amazzonica, a un passo dall’Equatore. Si tratta di una città con 18.000 posti letto alberghieri mal contati, dove le piogge torrenziali sono la norma e dove il caldo umido è soffocante. Doveva essere un messaggio ai delegati: il mondo si scalda, provate l’esperienza. Insomma, le premesse non erano buone. E infatti la montagnola ha partorito uno squittìo, più che un topolino.





