Il presidente dell’associazione di categoria Pierfrancesco Angeleri : «L’industria che sviluppa applicazioni gestionali può valere fino a 2 punti di Pil: con gli sgravi fiscali attraiamo miliardi di investimenti stranieri anche nel Mezzogiorno».
Il presidente dell’associazione di categoria Pierfrancesco Angeleri : «L’industria che sviluppa applicazioni gestionali può valere fino a 2 punti di Pil: con gli sgravi fiscali attraiamo miliardi di investimenti stranieri anche nel Mezzogiorno».«Le potenzialità di crescita dell’industria dei software in Italia sono enormi, parliamo di una forchetta tra 1 e 2 punti di Pil entro i prossimi 5 anni, ma è altrettanto evidente che per liberare queste energie inespresse è necessario che si verifichino determinate condizioni e che tutti gli attori coinvolti, dalla politica al mondo delle imprese, acquisiscano consapevolezza dell’opportunità per il Paese». Pierfrancesco Angeleri, il presidente di Assosoftware, l’associazione di Confindustria che raggruppa i produttori italiani di software, parla sull’abbrivio di numeri in costante miglioramento negli ultimi anni. Inutile nasconderselo, l’emergenza Covid ha accelerato il processo di adozione e implementazione di tecnologie digitali e software gestionali. E nonostante altri fattori esogeni abbiano remato contro, dal rincaro del costo dell’energia fino ad arrivare all’inflazione e all’aumento dei tassi d’interesse, il settore continua a crescere a ritmi elevati. Gli studi più recenti dicono che nel 2022 il mondo dei software ha impiegato oltre 137.000 persone per un giro d’affari di 56,3 miliardi di euro, quasi il 10% in più rispetto all’anno prima. Spicca il comparto dei gestionali che da solo genera un fatturato di 22,4 miliardi di euro. Presidente, lei parla di grandi potenzialità di crescita per il mondo dei software in Italia, cosa manca?«Probabilmente c’è un difetto di mentalità e quindi di visione. Dobbiamo, per esempio, pensare al mondo dei software non solo in un’ottica di mercato interno, ma anche come polo di attrazione degli investimenti che arrivano dall’estero. Prendiamo l’esempio indiano. Nuova Delhi è riuscita a creare uno dei maggiori mercati dell’elettronica-informatica al mondo grazie a bassi costi e grandi competenze». Ecco forse sono i bassi costi a fare la differenza. «Ma credo sia un gap facilmente colmabile attraverso politiche mirate di sgravi contributivi e previdenziali che valorizzino gli insediamenti in territori meravigliosi ma ancora “acerbi” come quelli del nostro Mezzogiorno. Guardo in questo caso all’Irlanda e alle opportunità che si potrebbero aprire in Sicilia, Puglia ecc. Per darle un ordine di grandezza, parliamo di un’industria che in India dà lavoro a più di 5 milioni di persone contro i 140.000 occupati italiani». Lei parla di mancanza di visione e quindi di attenzione. Quell’attenzione che invece adesso sembra essere spasmodica sugli investimenti nei semiconduttori. Perché questa differenza?«Perché non ci si è ancora davvero resi conto di cosa stiamo perdendo. Delle potenzialità inespresse in un settore che peraltro non necessita di grandissimi investimenti iniziali. Per aprire una fabbrica di chip servono tantissimi fondi, mentre far partire una fabbrica di persone, di sviluppatori è molto più semplice». Il governo vi ascolta?«Stiamo avendo diversi incontri istituzionali da cui abbiamo ricevuto riscontri importanti. Grazie al Mimit adesso i software rientrano tra le eccellenze del made in Italy e questo comporta tutta una serie di conseguenze positive». Torniamo al mercato interno. Quanto pesa la peculiarità del tessuto industriale italiano composto al 95% da pmi?«Noi crediamo possa rappresentare un’opportunità. Abbiamo sviluppato un osservatorio con il Politecnico di Milano, siamo ormai al quarto anno, e i risultati parlano chiaro: le aziende più digitalizzate sono quelle che crescono di più. Un trend che nei prossimi anni, con l’arrivo dell’Ia, è destinato ad ampliarsi». Qualche numero?«Le piccole e medie imprese che utilizzano software gestionali hanno tassi di crescita superiori al 10%, le altre si fermano al 5%. Non solo. Dallo studio emerge che una parte consistente del mondo delle pmi si trova in uno stadio appena embrionale di questo processo, circa il 30% del totale». E voi come associazione di categoria cosa state facendo?«Da una parte informiamo. Stiamo cercando di far passare il messaggio che il processo di digitalizzazione quasi sempre garantisce di raddoppiare il fatturato. Dall’altra dialoghiamo con l’esecutivo. Va riconosciuto, infatti, al governo Meloni di aver esteso gli sgravi fiscali all’interno del piano Transizione 5.0 anche alle aziende che adottano software gestionali avanzati e del resto è nei fatti che il processo di digitalizzazione comporti anche una significativa riduzione dei consumi energetici». In Italia c’è anche un gap formativo?«Noi siamo convinti della qualità delle nostre università, il vero problema è il collegamento con il mondo del lavoro. Prenda gli Its, le scuole di eccellenza post diploma ad alta specializzazione tecnologica, che sono fondamentali da questo punto di vista. Ecco, la maggior parte delle volte le aziende del nostro settore assumono persone che hanno delle buone competenze di base ma necessitano di un percorso che varia da 6 mesi a un anno per poter essere produttive. In Germania invece questo lasso temporale non esiste o è molto più breve».Perché?«C’è una differenza di esperienze lavorative sul campo e un gap culturale di base». Consigli per chi è alla ricerca di un impiego. Quali sono le figure più richieste?«Le figure principali sono tre. L’analista che individua le esigenze specifiche di un’azienda, lo sviluppatore che parte da queste esigenze per sviluppare il codice e creare quindi un software ad hoc rispetto alle necessità del committente e infine il tester che “prova” il codice nella quotidianità della vita aziendale. La seconda e la terza figura sono sicuramente quelle dove facciamo più fatica».
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