2018-09-05
L’Onu: raggiunta una tregua a Tripoli. E il Califfato cerca di fare proseliti
Dopo una giornata di scontri, le Nazioni unite annunciano l'accordo tra le milizie per il cessate il fuoco. Colpito centro di detenzione: 1.800 migranti in fuga. Pericolo «foreign fighter» di rientro da Iraq e Siria.Il governo scommette sulla pace. Summit ristretto per l'emergenza libica guidato da Giuseppe Conte: la linea è sostenere fino all'ultimo l'esecutivo tripolino. Sul tavolo la possibile nuova ondata di sbarchi.Vladimir Putin si fa beffe dell'alt di Donald Trump e scatena i bombardieri sulla Siria. Mosca, appoggiata dall'Iran, picchia duro su Idlib. Venerdì trilaterale con la Turchia. Emmanuel Macron cerca gloria in Nord Africa ma in patria fallisce. Un secondo ministro si dimette, mentre i consensi del presidente sono persino più bassi di quelli di Hollande nello stesso periodo.Lo speciale contiene quattro articoli.In Libia è aumentato il conto delle vittime delle violenze riesplose nei giorni scorsi: sono ormai 50, oltre a 138 feriti. Secondo la missione Unsmil dell'Onu, che aveva invocato un immediato cessate il fuoco, tra i morti ci sono 25 civili. Gli scontri a fuoco erano ripresi nella mattinata di ieri nella periferia meridionale di Tripoli, poco prima che si aprisse il tavolo convocato dalle Nazioni unite per tentare una mediazione. L'incontro era stato proposto allo scopo di «rispondere alle richieste delle delle varie parti, compreso il governo di accordo nazionale riconosciuto a livello internazionale». Il luogo del vertice non era stato reso subito pubblico per ragioni di sicurezza. Al termine dei colloqui, è stato annunciato il raggiungimento di un accordo per una tregua stra le milizie sotto l'egida dell'inviato speciale in Libia, il libanese Ghassan Salamé. L'intesa mira a «mettere fine a tutte le ostilità, proteggere i civili, salvaguardare la proprietà pubblica e privata». Dovrebbe anche essere riaperto l'aeroporto di Mitiga. Tra i luoghi teatro degli scontri armati c'è stato persino un centro per sfollati, che ospita 900 senzatetto, oltre che a un centro di detenzione dal quale sarebbero fuggiti circa 1.800 migranti.È stata smentita la notizia dello scoppio di un grande incendio nella sede dell'ambasciata americana, evacuata nel 2014, che è situata lungo il percorso verso l'aeroporto, l'infrastruttura, chiusa all'inizio degli scontri, al cui controllo puntavano i ribelli (e già presa di mira quattro anni fa). «Le ambulanze», ha riferito il portavoce della Protezione civile libica, «non sono riuscite a recarsi in quella zona malgrado le richieste di aiuto degli abitanti». In realtà, ha precisato in un tweet la rappresentanza diplomatica Usa, le fiamme hanno interessato un serbatoio di combustibile adiacente al muro di cinta dell'edificio.Cresce la preoccupazione per la sorte dei circa 430 italiani presenti nell'area. Il sito Alwasat riferisce le parole di un portavoce dell'Eni, che parla di «attività che per il momento si stanno svolgendo normalmente», anche se domenica erano state evacuate una decina di tecnici e parte del personale diplomatico dell'ambasciata, sfiorata da un colpo di mortaio. D'altra parte, l'ambasciatore Giuseppe Perrone, che non si troverebbe più in Libia, è inviso all'uomo forte di Tobruk, il generale Khalifa Haftar, che sarebbe, se non il regista, il principale beneficiario dei disordini che stanno ulteriormente indebolendo il fragile equilibrio su cui poggiava l'esecutivo guidato da Fayez Al Serraj. Il quale, dopo aver proclamato lo stato d'emergenza, si è visto costretto a richiedere l'intervento della Forza antiterrorismo stanziata a Misurata, dove si trovano anche uomini e dotazioni dell'esercito italiano: circa 400 militari, 130 mezzi di terra, alcune unità navali attraccate nel porto della capitale e basi aeree al largo della costa libica. Tutto il necessario per la missione Mare sicuro, che era stata concordata dall'ex premier Paolo Gentiloni e da Serraj per contrastare i trafficanti di esseri umani, i contrabbandieri e i terroristi. L'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, Federica Mogherini, ha parlato con Salamé, comunicandogli il «pieno sostegno da parte dell'Ue» per «una soluzione a lungo termine» che si basi non sull'impiego della forza (escluso pure dal governo italiano), bensì su un «processo politico». Sempre dal fronte delle istituzioni europee sono arrivati i moniti del presidente del Parlamento di Starburgo, Antonio Tajani, che biasimando la longa manus francese sui disordini, ha dichiarato: «Gli Stati membri devono smettere di promuovere le proprie agende nazionali, danneggiando tutti i cittadini europei». In effetti, mentre negli ultimi due mesi le importazioni di petrolio dalla Libia verso l'Italia sono letteralmente crollate, la compagnia transalpina Total sta rafforzando la propria presenza attraverso una serie di partecipazioni nelle società operanti nel turbolento Stato nordafricano.Rita Katz di Site, che monitora la presenza degli islamici radicalizzati sul web, all'Ansa ha spiegato che mentre l'anno scorso «l'Isis non esisteva più in Libia», nel 2018 si sono già svolte circa 12 missioni suicide, poiché «alcuni dei combattenti di Iraq e Siria sono stati in grado di tornare». E ora potrebbero approfittare del caos per imbarcarsi alla volta dell'Europa. La geometria delle forze in campo, d'altronde, è complessa. Quello che sta avendo luogo non è soltanto uno scontro tra Serraj, sostenuto dall'Italia e il suo principale concorrente, Haftar, che gode del favore della Francia. La Libia è un Paese tribale e le milizie (molte delle quali vicine al fondamentalismo islamico) si contendono pezzi di territorio e traffici illeciti ma redditizi. Tra questi gruppi spiccano la Settima brigata di Abdel Rahim Al Kani e la brigata Al Samoud, del miliziano Salah Badi. A rinfocolare la mai sopita guerra civile ha contribuito l'insistenza del presidente francese Emmanuel Macron per celebrare elezioni democratiche a dicembre. Traguardo cui il Paese non è pronto, perché tutti hanno ancora interesse a trarre vantaggio dal precario status quo.Alessandro Rico<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lonu-raggiunta-una-tregua-a-tripoli-e-il-califfato-cerca-di-fare-proseliti-2601971051.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-governo-scommette-sulla-pace" data-post-id="2601971051" data-published-at="1758198226" data-use-pagination="False"> Il governo scommette sulla pace Gli scontri in Libia tra le milizie ribelli e la possibile nuova ondata di migranti in viaggio verso le nostre coste preoccupano il governo gialloblù. Il conflitto, che ora sembra aver ricevuto una battuta d'arresto dopo il cessate il fuoco, ha però messo in seria difficoltà il pattugliamento dei flussi migratori. C'è il timore dell'arrivo di nuovi jihadisti, dopo che nella giornata di lunedì sono evasi circa 1.800 detenuti dalle carceri libiche. Ieri il presidente del Consiglio è tornato a Palazzo Chigi. Dopo aver saltato il primo cdm di lunedì, Giuseppe Conte ha condotto un vertice con il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi e quello dell'Interno Matteo Salvini. Insieme a loro il capo di gabinetto del Viminale Matteo Piantedosi. Sul tavolo anche il riassetto dei nostri apparati di sicurezza, con la sostituzione di Alberto Manenti alla direzione dell'Aise e di Alessandro Pansa al Dis, decisioni che verranno prese con tutta probabilità nei consigli dei ministri dei prossimi giorni. Il governo dovrà anche mettere mano al ricambio nelle forze armate, un incastro di difficile soluzione su cui ci vuole ancora del tempo. Il pallino sulla Libia è in mano alla Farnesina. Moavero Milanesi ieri ha espresso vicinanza al governo di Fayez al Serraj, tenendosi informato per tutta la giornata sull'evolversi degli scontri a Tripoli dove la Settima Brigata, guidata dai fratelli Kani, aveva preso il controllo totale della strada per l'aeroporto internazionale. Secondo quanto raccolto dal sito Analisidifesa, le unità del governo di Fayez al Serraj sono riuscite però a mantenere le linee difensive verso il centro storico. Anzi sarebbero passate al contrattacco in diverse zone. «La situazione, comunque, continua a essere fluida e per il momento non c'è una parte che prevalga sull'altra in maniera incisiva». L'Italia quindi scommette sul fatto che il governo attuale non cada sotto i colpi della brigata originaria di Tarhuna, una sessantina di chilometri a Sud Est di Tripoli, che ha lanciato l'assalto contro la capitale sfidando l'autorità del governo di unità nazionale. Fino allo scorso aprile era schierata con Serraj. Ora invece accusa di corruzione le milizie di Tripoli. Il nostro governo scommette sulla futura mediazione tra la Settima Brigata e Serraj, grazie all'Onu. Per questo la Farnesina ha diramato una nota nella giornata di ieri, dove ribadisce «il pieno sostegno italiano alle legittime istituzioni libiche e al piano di azione delle Nazioni unite. L'Italia invita tutte le parti ad una soluzione pacifica e negoziata». Non solo. Moavero Milanesi si è intrattenuto a lungo al telefono con il rappresentante speciale del segretario generale Onu per la Libia, Ghassan Salamè, «nel corso della quale ha appreso la sua valutazione sui recenti eventi e sulle azioni da lui intraprese per superare le tensioni e l'attuale fase di instabilità». La linea politica è risultata al momento vincente, confermata dal cessate il fuoco raggiunto ieri in tarda serata dopo l'incontro organizzato proprio dall'Onu. Il rischio che una nuova ondata di migranti possa raggiungere le nostre coste non è però stata ancora sventata. Nel frattempo ieri Salvini ha incontrato l'ex primo ministro britannico Tony Blair: «Positivo e lungo incontro con l'ex premier britannico su immigrazione, Brexit, politiche energetiche. Ho proposto una conferenza su sviluppo e investimenti per l'Africa». Tra i due si sarebbe parlato soprattutto della Tap, il gasdotto che correrà dall'Azerbaijan alla Puglia. Blair lavora come consulente per il Trans Adriatic Pipeline dal 2014, per il progetto che è la punta di diamante dell'Azerbaigian di Ilham Aliyev. Alessandro Da Rold <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lonu-raggiunta-una-tregua-a-tripoli-e-il-califfato-cerca-di-fare-proseliti-2601971051.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="putin-si-fa-beffe-dellalt-di-trump-e-scatena-i-bombardieri-sulla-siria" data-post-id="2601971051" data-published-at="1758198226" data-use-pagination="False"> Putin si fa beffe dell’alt di Trump e scatena i bombardieri sulla Siria Gli aerei da guerra russi, insieme a quelli del regime di Bashar al Assad, hanno messo a segno ieri circa 50 raid nel triangolo Idlib-al-Ghab-Latakia, nel Nord Ovest della Siria. È ripartita così, tre settimane dopo gli ultimi bombardamenti dell'aviazione russa, l'offensiva militare programmata da Mosca e Damasco, con il sostegno di Teheran, sulla provincia di Idlib, l'ultima roccaforte dei ribelli che si oppongono al governo di Assad. L'attacco arriva dopo il vano monito lanciato poche ore prima dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump: «Il presidente siriano Bashar al Assad», aveva scritto Trump su Twitter la scorsa notte, «non deve attaccare sconsideratamente la provincia di Idlib. I russi e gli iraniani farebbero un grave errore umanitario partecipando a questa potenziale tragedia umana. Centinaia di migliaia di persone potrebbero essere uccise. Non lasciare che succeda!». Un appello non raccolto da Vladimir Putin: gli aerei di Mosca hanno infatti martellato in particolare alcune aree sotto il controllo dei miliziani jihadisti del Fronte di Hayat Tahrir al-Sham, l'ex Fronte Al Nusra, legato ad Al Qaeda, come la città di Jisr al-Shughur ma anche zone controllate da gruppi ribelli sostenuti dalla Turchia, nella città di Ariha. Sarebbero nove le vittime dei bombardamenti, secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, gruppo vicino ai ribelli con sede nel Regno Unito. Damasco sta ammassando al confine della provincia le truppe di terra, il che lascia immaginare che siamo vicini all'attacco finale. Liberare la provincia di Idlib significa far tornare la Siria occidentale sotto il totale controllo totale di Assad. Preoccupazione in Turchia: Erdogan è fermamente contrario ad una offensiva su larga scala, che potrebbe provocare una nuova ondata di profughi verso i suoi confini. Ankara ha chiesto a Mosca di colpire in maniera mirata i ribelli qaedisti del Fronte di Hayat Tahrir al-Sham. All'altolà di Trump ha risposto il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, secondo il quale «non prestare attenzione al potenziale molto pericoloso e negativo dell'intera situazione in Siria non è un approccio completo ed esauriente. La situazione a Idlib rimane fonte di particolare preoccupazione a Mosca come a Damasco, ad Ankara come a Teheran», ha aggiunto Peskov, «perché ospita un nido del terrorismo. Lanciare semplicemente moniti senza prestare attenzione al potenziale negativo e di grande pericolo per tutta la situazione in Siria è un approccio incompleto e non globale. I terroristi a Idlib si sono radicati e sono una minaccia per le basi russe in Siria. La situazione a Idlib», ha precisato il portavoce di Putin, «sarà una questione prioritaria al trilaterale Mosca-Ankara-Teheran previsto per il prossimo 7 settembre nella capitale iraniana». Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha affermato che «a Idlib sono in corso sforzi per espellere i terroristi minimizzando i costi umanitari». Zarif ha incontrato, tra gli altri, il presidente siriano Bashar al Assad, il collega Walid al Muallem e il primo ministro Imad Khamis. Sull'altro fronte diplomatico, ieri il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, ha incontrato l'incaricato speciale della Casa Bianca per la Siria, James Jeffrey, con l'obiettivo di «evitare catastrofi umanitarie». L'inviato delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura, ha chiesto di «evitare qualsiasi mossa che possa essere usata come scusa per boicottare o ritardare gli sforzi alla ricerca di una soluzione politica». Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lonu-raggiunta-una-tregua-a-tripoli-e-il-califfato-cerca-di-fare-proseliti-2601971051.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="macron-cerca-gloria-in-nord-africa-ma-in-patria-fallisce" data-post-id="2601971051" data-published-at="1758198226" data-use-pagination="False"> Macron cerca gloria in Nord Africa ma in patria fallisce È una fine d'estate uggiosa, quella di Emmanuel Macron, che piace sempre meno ai francesi. I sondaggi non gli danno scampo. Lo ha confermato quello realizzato da Ifop-Fiducial per Paris Match e Sud Radio: solo il 31% dei francesi apprezza il proprio presidente. Dopo lo stesso periodo di governo, persino il detestato François Hollande era al 32%. Le ragioni di questo autunno anticipato sulla Macronie (come chiamano la Francia del giovane presidente) sono molteplici. In principio fu l'affaire Benalla, che la presidenza della Repubblica e il governo hanno tentato di minimizzare ad ogni costo, ma che per molti francesi, è stata una dolorosa constatazione del fatto che anche la «politica nuova» di Macron, è inquinata da scandali e stanze segrete. Poi, quando sembrava che stesse tornando il sereno, un altro fulmine si è abbattuto: le dimissioni del popolarissimo ministro dell'Ecologia Nicolas Hulot, che l'interessato ha annunciato in diretta radio senza nemmeno avvisare il presidente della Repubblica né il primo ministro. Ne è seguita una settimana di grande agitazione, alimentata anche da un altro scivolone del governo: la probabile marcia indietro sull'avvio del prelievo alla fonte delle tasse, previsto inizialmente per il 1° gennaio 2019. Il quotidiano Le Parisien ha pubblicato una nota riservata della direzione generale delle finanze pubbliche che aveva registrato numerosissme anomalie di calcolo, nelle simulazioni compiute in questi mesi con numerose imprese. Macron ha deciso di temporeggiare ed eventualmente di fare entrare in vigore il prelievo alla fonte più in là. Ma mentre la Francia attendeva di conoscere il nome del nuovo ministro dell'Ecologia e di sapere come avrebbe dovuto pagare le tasse, il team Macron ha segnato un altro autogol, annunciando la nomina all'incarico di console generale di Francia a Los Angeles di Philippe Bessons. Uno scrittore che, tra le sue opere annovera Un personnage de roman, un romanzo dedicato proprio a Emmanuel Macron. Ieri è stato finalmente comunicato il nome del nuovo ministro dell'Ecologia che sarà François de Rugy. Si tratta dell'attuale presidente dell'Assemblée Nationale, la Camera francese. Sempre ieri però si è dimessa un'altra figura molto popolare del governo: Laura Flessel, ex campionessa olimpica di scherma e, fino a ieri, ministro dello Sport (dietro le dimissioni ci sarebbe un presunto caso di evasione fiscale che penderebbe sul capo dell'ex membro del governo). Come spesso accade ai politici quando hanno problemi in patria, la cosa migliore è di spostare l'attenzione dell'opinione pubblica sull'estero. Forse è per questo che Macron ha parlato recentemente di Sahel e Libia. Nessun grande annuncio riportato dalla stampa ma segnali piuttosto chiari diretti anche a Roma. Il 29 agosto scorso, si è tenuta la conferenza degli ambasciatori francesi, il presidente e il suo ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, hanno toccato nei loro interventi due temi che sono fonte di attriti con l'Italia. Sulla Libia, Macron ha affermato che senza una stabilizzazione del Paese «sarà impossibile stabilizzare il Sahel in maniera duratura». È interessante notare come il presidente francese abbia ricordato l'impegno della Francia nella lotta «contro i traffici e le reti di trafficanti di esseri umani insieme all'Unione Africana e all'Organizzazione internazionale per le migrazioni». Nessun accenno all'Italia. Come se il Belpaese non avesse fatto nulla in questi ambiti. Macron ha poi ribadito la propria convinzione: “credo profondamente alla restaurazione della sovranità libica e all'unità del Paese. È una parte essenziale della stabilizzazione della regione e quindi della lotta contro i terroristi e i trafficanti. In questo senso, i prossimi mesi saranno decisivi. Sarà necessaria la nostra mobilitazione per evitare ogni tentazione di divisione, perché questo Paese è diventato il teatro di tutte le influenze e di tutti gli interessi esterni. Il nostro ruolo, per la nostra sicurezza e per quella della regione è di riuscire a far avanzare l'accordo di Parigi tra le quattro parti coinvolte, deciso lo scorso maggio». Davanti alla stessa conferenza degli ambasciatori francesi è intervenuto poi il capo della diplomazia transalpina. Parlando dell'Ue, il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian è stato tutt'altro che diplomatico nei confronti di Roma. «Potrei menzionare anche l'Italia e l'Europa centrale e orientale. Ogni Stato membro è libero di eleggere i dirigenti che preferisce ma la nostra visione dell'Unione Europea, come primo circolo di alleanze e di valori, non è compatibile con governi che non ne rispettano i principi fondamentali. Non si sentono in alcun modo legati dalla solidarietà comunitaria e hanno, in fondo, un approccio utilitaristico dell'Unione, nella quale sceglieranno solo ciò che li interessa, in primo luogo la redistribuzione dei soldi. Noi non siamo pronti a pagare per questa Europa». Le Drian che, va ricordato, è stato anche ministro della Difesa sotto la presidenza di François Hollande, non ha mancato di parlare della Libia ed è stato ancora più chiaro di Emmanuel Macron. Come noto la Francia vuole che in Libia si voti il prima possibile, per questo «sostiene finanziariamente la preparazione delle elezioni». Poi ha dichiarato qualcosa che potrebbe suonare come una excusatio non petita. «Certo che non è tutto risolto. Ma ormai c'è un piano, uno scenario per l'uscita dalla crisi. Lo ripeto: questo piano non è diretto contro qualcuno, è nell'interesse di tutti. Interessa sia agli europei che ai vicini della Libia».Matteo Ghisalberti
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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