True
2025-11-08
La parabola di Aimo Moroni parte dal pollaio
Nadia e Aimo Moroni
Nasce a Pistoia nel 1934 da papà Armando, carabiniere, e mamma Nunzia, ricercata cuoca presso la buona borghesia locale. È da lei che inizia ad «annusare» i profumi e i sapori della buona cucina. Quella semplice in cui anche i prodotti del cortile, galline e conigli, come dell’orto, a partire dai legumi, possano trasmettere emozioni con un imprinting che poi ti accompagnerà nella vita adulta. «Da loro imparai a riconoscere la qualità di un pollo», ovvero il colore del becco, indice dell’età del pennuto, così come dalla trama delle zampe e dall’usura delle unghie si poteva capire se aveva realmente razzolato nel cortile con una sana alimentazione.
Il secondo conflitto mondiale è appena terminato. Papà Armando torna dal fronte siciliano con lesioni alle braccia che gli impediscono di zappare quel poco che la famiglia ha sul campo fuori casa. Mamma Nunzia si ammala così da non poter più arrotondare le già scarse entrate familiari con le sue «consulenze culinarie». È difficile sbarcare il lunario. Anche perché nella loro ritirata le truppe tedesche hanno devastato le campagne compromettendo i raccolti. La dieta quotidiana vede il pane come un lusso riservato alla domenica. Sulla tavola mamma Nunzia prepara polenta, con un filo d’olio quando va bene. Festa grande quando si può insaporire il tutto con una fettina di buon lardo goloso.
Fortuna vuole che, a Milano, ci sia zio Silvio con una bancarella ambulante. Papà Armando prende il suo ragazzo e gli dice: «Vai a Milano e guadagnati il pane». Non i soldi, preciserà anni dopo il nostro Aimo, ma pane concreto, quello che in casa è merce rara. Siamo agli inizi del 1946. Aimo saluta mamma e papà e trova posto su di una panca di legno di un treno merci che trasporta bestiame. Dodici ore di lento sferragliare per arrivare nel Gran Milan. Qui c’è tutta una vita da reinventarsi, con dedizione ed impegno. Aimo sente che la sua vocazione, i sogni che vuole realizzare passano per la buona cucina, quella che lui ha maturato dall’esempio quotidiano respirato in casa, sente «di potersi raccontare» con l’idea di cucina che coltiva nell’anima di quel ragazzino che diventerà adulto. Seguono una serie di episodi, da lui poi raccontati a un coinvolto pubblico di Identità golose, decenni dopo, e ben descritti da Gabriele Zanatta. Storie che avrebbero ispirato il miglior Roberto Rossellini, tra i padri del neorealismo all’italiana.
All’inizio il giovane Aimo fa l’ambulante per zio Silvio, con la bicicletta che traina il carretto delle caldarroste. Niente di che, ma giusto per campare. Un giorno di trova sul sagrato della chiesa vicino a casa quando, improvvisamente, viene bloccato da due vigili che gli chiedono di esibire la licenza commerciale. Aimo molla la bicicletta e cerca rifugio nella vicina chiesa dove c’è l’amico frate Cecilio, quello che aveva fondato la mensa dei poveri dell’Opera di San Francesco. Niente da fare, il campanello suona muto. Gli uomini in divisa stanno per fargli il verbale con relativa multa quando arriva una coppia distinta che non solo gli acquista un bel sacchetto di caldarroste, ma anche liquida subito l’ammenda e relativo verbale. Solo più tardi scoprirà che si tratta di Carlo Dapporto e Wanda Osiris, la coppia regina del teatro italiano. Dopo qualche mese da ambulante, Aimo entra nella squadra de «Il» Carminati, a due passi dal Duomo, uno dei punti di riferimento della Milano che ritornava alla dolce vita tra aperitivi, cene e serate danzanti. Esordisce da lavapiatti. Un’esperienza che gli confermerà, ancora una volta, come per realizzare i propri sogni bisogna lavorare duro, con tenacia e sacrificio.
Anche qui Aimo Moroni non si smentisce mai nella sua profonda umanità. Decenni dopo quando veniva invitato da amici ristoratori nei vari locali, quando entrava in cucina andava per primo a salutare i giovani lavapiatti del posto ricordando che, anche lui, aveva esordito in tal modo. Una sorta di augurio, poi, a salire anche loro la gerarchia culinaria se accompagnata da merito e talento. Da Carminati, Aimo incontra il coetaneo Gialindo, toscano come lui, con cui stringe un’amicizia di solidarietà e sostegno reciproco. Con qualche mancetta che raggranellano dalla solidarietà degli amici camerieri, scoprono che un buon macellaio della periferia, tale Ercole Villa, ha un cartello esposto in vetrina che recita«Sottobanco, poche lire», una specie di messaggio subliminale, che imparano a tradurre in fretta. Si tratta degli scarti della lavorazione al dettaglio: la prima fettina ossidata del salame, l’osso del prosciutto diviso in due, il midollo, il peperone sott’olio dall’aspetto poco invitante, tutti avanzi che venivano volutamente messi «sottobanco», appunto, per una clientela che apprezzava l’emergente Ercole Villa, tra i primi a proporre la pregiata fassona piemontese in città.
Aimo e Gialindo sapevano anche che dovevano presentarsi quando nella macelleria non c’era nessuno, per evitare occhi indiscreti (e stupiti). Il buon Ercole li prese presto in simpatia «e spesso ci dava più di quanto noi potevamo permetterci», con le poche monetine in mano. Porgeva loro il pedrioeu, il cono di carta paglia, colmo di chicche golose, stringendoglielo tra le mani. Al loro sguardo stupito, il congedo conseguente «Lassate stà, andate, andate». Anche questa era la Milano dal couer in man, la Milano generosa con la sua vita quotidiana ricca anche di altri episodi che videro Aimo e Gialindo testimoni. Al Carminati, nel riordinare sala e cucina, vi era un’anziana signora che un giorno li prese in disparte: «Se avete voglia di fare una buona colazione, dovete andare in quella panetteria che vi dico e chiedere alla signora un po’ di quel pan là». Un messaggio in codice che ben presto impararono a tradurre nella realtà. L’esordio timidissimo, sussurrato: «Avete un po’ di quel pan là?». Lei li guarda, intuisce la mandante, va nel retrobottega e se ne esce con due bei pedrioeu colmi di pane secco e duro, quello avanzato che, in genere, veniva riciclato una volta grattugiato. Poi li guarda, l’occhio indagatore: «Quanti anni avete?». «Ventisei in due». «Se venite in un altro momento, ma non adesso che c’è gente, per voi ci sarà sempre del pane, ma non quel pan là». Pane fresco, commenterà poi il nostro Aimo.
Ma siamo solo all’inizio. Quella sorta di zia adottiva del Carminati, testandone l’onestà e l’impegno quotidiano di lavapiatti e non solo, li premia con un’altra soffiata. Era venuta a sapere che, finito a tarda ora il lavoro serale, se ne andavano a casa a piedi, dall’altra parte della città, non potendo permettersi il biglietto del tram, e correndo a gamba svelta, anche per combattere il freddo nella stagione invernale. «Andate in piazza Fontana e prendete la linea 15, dite al bigliettaio che siete rimasti senza soldi, ma che scenderete alla prima fermata». Anche qua l’ennesima Milano dal coeur in man. L’occhio dei ragazzi è tanto limpido quanto timido e il guardiano del mezzo li rincuora con tono paterno. «Tranquilli, sedetevi vicino a me, senza passare davanti agli altri passeggeri».
Ma è ora di passare di grado e i nostri due lavapiatti incontrano cuoco Cesare, il loro primo maestro. Nei momenti di pausa tra pranzo e cena vanno al banco della cucina di casa sua e si apre un mondo.
1. continua
Continua a leggereRiduci
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.Nasce a Pistoia nel 1934 da papà Armando, carabiniere, e mamma Nunzia, ricercata cuoca presso la buona borghesia locale. È da lei che inizia ad «annusare» i profumi e i sapori della buona cucina. Quella semplice in cui anche i prodotti del cortile, galline e conigli, come dell’orto, a partire dai legumi, possano trasmettere emozioni con un imprinting che poi ti accompagnerà nella vita adulta. «Da loro imparai a riconoscere la qualità di un pollo», ovvero il colore del becco, indice dell’età del pennuto, così come dalla trama delle zampe e dall’usura delle unghie si poteva capire se aveva realmente razzolato nel cortile con una sana alimentazione.Il secondo conflitto mondiale è appena terminato. Papà Armando torna dal fronte siciliano con lesioni alle braccia che gli impediscono di zappare quel poco che la famiglia ha sul campo fuori casa. Mamma Nunzia si ammala così da non poter più arrotondare le già scarse entrate familiari con le sue «consulenze culinarie». È difficile sbarcare il lunario. Anche perché nella loro ritirata le truppe tedesche hanno devastato le campagne compromettendo i raccolti. La dieta quotidiana vede il pane come un lusso riservato alla domenica. Sulla tavola mamma Nunzia prepara polenta, con un filo d’olio quando va bene. Festa grande quando si può insaporire il tutto con una fettina di buon lardo goloso.Fortuna vuole che, a Milano, ci sia zio Silvio con una bancarella ambulante. Papà Armando prende il suo ragazzo e gli dice: «Vai a Milano e guadagnati il pane». Non i soldi, preciserà anni dopo il nostro Aimo, ma pane concreto, quello che in casa è merce rara. Siamo agli inizi del 1946. Aimo saluta mamma e papà e trova posto su di una panca di legno di un treno merci che trasporta bestiame. Dodici ore di lento sferragliare per arrivare nel Gran Milan. Qui c’è tutta una vita da reinventarsi, con dedizione ed impegno. Aimo sente che la sua vocazione, i sogni che vuole realizzare passano per la buona cucina, quella che lui ha maturato dall’esempio quotidiano respirato in casa, sente «di potersi raccontare» con l’idea di cucina che coltiva nell’anima di quel ragazzino che diventerà adulto. Seguono una serie di episodi, da lui poi raccontati a un coinvolto pubblico di Identità golose, decenni dopo, e ben descritti da Gabriele Zanatta. Storie che avrebbero ispirato il miglior Roberto Rossellini, tra i padri del neorealismo all’italiana.All’inizio il giovane Aimo fa l’ambulante per zio Silvio, con la bicicletta che traina il carretto delle caldarroste. Niente di che, ma giusto per campare. Un giorno di trova sul sagrato della chiesa vicino a casa quando, improvvisamente, viene bloccato da due vigili che gli chiedono di esibire la licenza commerciale. Aimo molla la bicicletta e cerca rifugio nella vicina chiesa dove c’è l’amico frate Cecilio, quello che aveva fondato la mensa dei poveri dell’Opera di San Francesco. Niente da fare, il campanello suona muto. Gli uomini in divisa stanno per fargli il verbale con relativa multa quando arriva una coppia distinta che non solo gli acquista un bel sacchetto di caldarroste, ma anche liquida subito l’ammenda e relativo verbale. Solo più tardi scoprirà che si tratta di Carlo Dapporto e Wanda Osiris, la coppia regina del teatro italiano. Dopo qualche mese da ambulante, Aimo entra nella squadra de «Il» Carminati, a due passi dal Duomo, uno dei punti di riferimento della Milano che ritornava alla dolce vita tra aperitivi, cene e serate danzanti. Esordisce da lavapiatti. Un’esperienza che gli confermerà, ancora una volta, come per realizzare i propri sogni bisogna lavorare duro, con tenacia e sacrificio.Anche qui Aimo Moroni non si smentisce mai nella sua profonda umanità. Decenni dopo quando veniva invitato da amici ristoratori nei vari locali, quando entrava in cucina andava per primo a salutare i giovani lavapiatti del posto ricordando che, anche lui, aveva esordito in tal modo. Una sorta di augurio, poi, a salire anche loro la gerarchia culinaria se accompagnata da merito e talento. Da Carminati, Aimo incontra il coetaneo Gialindo, toscano come lui, con cui stringe un’amicizia di solidarietà e sostegno reciproco. Con qualche mancetta che raggranellano dalla solidarietà degli amici camerieri, scoprono che un buon macellaio della periferia, tale Ercole Villa, ha un cartello esposto in vetrina che recita«Sottobanco, poche lire», una specie di messaggio subliminale, che imparano a tradurre in fretta. Si tratta degli scarti della lavorazione al dettaglio: la prima fettina ossidata del salame, l’osso del prosciutto diviso in due, il midollo, il peperone sott’olio dall’aspetto poco invitante, tutti avanzi che venivano volutamente messi «sottobanco», appunto, per una clientela che apprezzava l’emergente Ercole Villa, tra i primi a proporre la pregiata fassona piemontese in città.Aimo e Gialindo sapevano anche che dovevano presentarsi quando nella macelleria non c’era nessuno, per evitare occhi indiscreti (e stupiti). Il buon Ercole li prese presto in simpatia «e spesso ci dava più di quanto noi potevamo permetterci», con le poche monetine in mano. Porgeva loro il pedrioeu, il cono di carta paglia, colmo di chicche golose, stringendoglielo tra le mani. Al loro sguardo stupito, il congedo conseguente «Lassate stà, andate, andate». Anche questa era la Milano dal couer in man, la Milano generosa con la sua vita quotidiana ricca anche di altri episodi che videro Aimo e Gialindo testimoni. Al Carminati, nel riordinare sala e cucina, vi era un’anziana signora che un giorno li prese in disparte: «Se avete voglia di fare una buona colazione, dovete andare in quella panetteria che vi dico e chiedere alla signora un po’ di quel pan là». Un messaggio in codice che ben presto impararono a tradurre nella realtà. L’esordio timidissimo, sussurrato: «Avete un po’ di quel pan là?». Lei li guarda, intuisce la mandante, va nel retrobottega e se ne esce con due bei pedrioeu colmi di pane secco e duro, quello avanzato che, in genere, veniva riciclato una volta grattugiato. Poi li guarda, l’occhio indagatore: «Quanti anni avete?». «Ventisei in due». «Se venite in un altro momento, ma non adesso che c’è gente, per voi ci sarà sempre del pane, ma non quel pan là». Pane fresco, commenterà poi il nostro Aimo.Ma siamo solo all’inizio. Quella sorta di zia adottiva del Carminati, testandone l’onestà e l’impegno quotidiano di lavapiatti e non solo, li premia con un’altra soffiata. Era venuta a sapere che, finito a tarda ora il lavoro serale, se ne andavano a casa a piedi, dall’altra parte della città, non potendo permettersi il biglietto del tram, e correndo a gamba svelta, anche per combattere il freddo nella stagione invernale. «Andate in piazza Fontana e prendete la linea 15, dite al bigliettaio che siete rimasti senza soldi, ma che scenderete alla prima fermata». Anche qua l’ennesima Milano dal coeur in man. L’occhio dei ragazzi è tanto limpido quanto timido e il guardiano del mezzo li rincuora con tono paterno. «Tranquilli, sedetevi vicino a me, senza passare davanti agli altri passeggeri».Ma è ora di passare di grado e i nostri due lavapiatti incontrano cuoco Cesare, il loro primo maestro. Nei momenti di pausa tra pranzo e cena vanno al banco della cucina di casa sua e si apre un mondo.1. continua
(Getty Images)
Lo so che vi ho già raccontato l’incredibile sentenza di cui sono vittima in quanto direttore di Panorama, ma passato il giorno e la sorpresa per la condanna, mi rendo conto che le querele minacciano la libertà di stampa più di quanto possa fare la politica o un editore. Può un sostantivo valere 80.000 euro? Può il diritto di critica verso operazioni dichiaratamente politiche essere negato con sanzioni pecuniarie? È evidente che nessuno degli attori dell’azione giudiziaria ha avuto un danno reputazionale, perché non è stato accusato di alcun orrendo delitto e ha potuto continuare a operare liberamente come prima e forse più di prima. E allo stesso tempo è lampante la sproporzione fra una critica e il risarcimento disposto in favore di chi non era neppure chiamato in causa, perché il suo nome non compariva sulla copertina del settimanale. Di questo passo, se io critico le aziende farmaceutiche per le procedure poco trasparenti sui vaccini, legittimo tutte le imprese del mondo che si occupano di sieri a fare causa, come ad esempio ha fatto una Ong tedesca, il cui rappresentante neppure parla l’italiano.
Tanto per farvi comprendere quanto sia assurdo ciò che è capitato, pensate che per ingiusta detenzione lo Stato riconosce a un innocente messo in galera 235,82 euro per ogni giorno passato dietro le sbarre. Una parola ritenuta fuori posto come «pirata» e perciò giudicata diffamatoria, pur se espressa una sola volta in una edizione, è stata invece sanzionata con 10.000 euro a testa in favore dei querelanti, più spese legali, con il risultato che il risarcimento assomma a oltre 80.000 euro, ovvero molto di più di quanto può incassare un povero cristo che si è visto mettere in prigione per un anno, avendo la vita e la reputazione rovinata prima di essere riconosciuto innocente.
Per incassare 80.000 euro Panorama deve vendere 30.000 copie in più rispetto a quelle che settimanalmente vengono acquistate all’edicola. Ed è abbastanza facile capire che bastano alcune sentenze come quella emessa dal tribunale per mandare in fallimento una testata. I giornali vivono di ciò che vendono, non dei soldi che incassano dalle querele. Anche quando viene data loro ragione, nessuno li risarcisce per la denuncia temeraria. Se va bene si vedono riconosciute le spese legali, che a volte non riescono a coprire l’intera parcella degli avvocati.
È questa la vera minaccia alla libertà di stampa, questo il bavaglio che si cerca di imporre a chi canta fuori dal coro. Il risultato è che gran parte dei giornali annacqua notizie e giudizi decidendo spesso di non pubblicare quelli scomodi. Sapete quante volte mi è capitato di sentirmi dire da colleghi che lavorano in altre testate: beati voi che potete scrivere liberamente, senza avere i limiti imposti dagli editori, dalle relazioni politiche e pure dalle minacce delle sentenze? Molte. Però non so in che cosa consista la nostra beatitudine, forse nell’incoscienza di non volerci fare imporre la mordacchia. Sta di fatto che per noi vale una regola semplice: pubblichiamo tutto, anche quello che gli altri preferiscono nascondere. E diciamo ciò che pensiamo, senza imbarazzi e senza censure. È successo con i vaccini e con il green pass e di recente con le frasi del consigliere di Sergio Mattarella che auspicava un «provvidenziale scossone» per cambiare la situazione politica. Succederà ancora. Perché come La Verità anche Panorama è un vascello corsaro, che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome e non si fa fermare da chi vorrebbe impedirci di scriverle.
Continua a leggereRiduci
Matteo Salvini e Galeazzo Bignami (Ansa)
Scende in campo in prima persona il leader della Lega, Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti: «Solidarietà a Panorama e al direttore Maurizio Belpietro», sottolinea Salvini, «condannati per aver detto la verità sulle Ong. La libertà di stampa e di opinione sono sacre e non possono essere imbavagliate: faremo tutto il possibile per aiutare Panorama e la sua redazione». Dal Carroccio arrivano numerose prese di posizione: «Il Tribunale di Milano», argomenta il deputato Igor Iezzi, «ha condannato Maurizio Belpietro e Panorama a risarcire, con 80.000 euro, sette Ong per diffamazione. Il motivo? Un titolo di copertina dove venivano definiti “I nuovi pirati”. Siamo alla follia. Al direttore e al settimanale la nostra piena solidarietà. Siamo certi che gli italiani non si siano dimenticati le dichiarazioni dei vari Casarini e Rackete che poco hanno a che vedere con la legalità e molto con un approccio da “corsaro”. Per la Lega la stampa deve essere libera, e si schiererà sempre contro chi vuole imbavagliarla, soprattutto quando ad essere imbavagliati sono sempre i giornalisti che non si schierano a sinistra». «Esprimo la mia convinta solidarietà a Maurizio Belpietro e alla redazione di Panorama», sottolinea il senatore Gianluca Cantalamessa, «è incredibile che sia stata definita diffamatoria una copertina che indicava come “i nuovi pirati” soggetti che dichiarano apertamente di voler violare le leggi italiane e disobbedire alle autorità quando navigano nel Mediterraneo alla ricerca di migranti. Una decisione del Tribunale di Milano che lascia sconcerto per l’entità della sanzione. Colpisce, come ricorda lo stesso Belpietro, l’enorme disparità di trattamento rispetto ad altri casi: mentre per aver dato dei “bastardi” a Giorgia Meloni e Matteo Salvini», ricorda Cantalamessa, «lo scrittore Roberto Saviano è stato condannato a pagare 1.000 euro, qui ci troviamo di fronte a una cifra molto alta che ha il sapore di un bavaglio alla libera stampa. Non si può essere perseguitati per aver esercitato il diritto di critica verso chi rivendica la violazione delle norme dello Stato». «Piena solidarietà al direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, e a tutta la redazione», dichiara il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Morelli, «per l’assurda decisione del Tribunale di Milano che ha condannato la testata a risarcire sette Ong per un titolo critico nei loro confronti. Una decisione che non è degna di un Paese democratico e che lede il principio sacrosanto della libertà di stampa tutelato dalla Costituzione. La Lega ed il governo tutto, sono dalla loro parte». Anche Fratelli d’Italia scende in campo ai massimi livelli per far sentire la propria vicinanza a Belpietro e a Panorama, e per esprimere lo sdegno del partito di maggioranza relativa nei confronti di una decisione incomprensibile: «Solidarietà al direttore Belpietro ed a tutta la redazione di Panorama», dice il capogruppo di Fdi alla Camera, Galeazzo Bignami, «che, come racconta in un articolo, è stata condannata a pagare dal Tribunale di Milano 80.000 euro ad alcune Ong come risarcimento per il titolo di una copertina, in cui sotto il titolo “Pirati” si criticava il loro operato attraverso la pubblicazione di documenti riservati. Una vicenda incredibile resa assurda dal fatto che non una parola dell’articolo è stata contestata. Ha ragione il direttore Belpietro, è evidente il tentativo da parte di queste organizzazioni di “tappare la bocca” a chi da tempo denuncia l’operato di alcune Ong in aperta violazione con le leggi nazionali ed a sostegno dei mercanti di uomini. Per questo siamo ancora più vicini al direttore Belpietro e a Panorama e censuriamo con forza questa incredibile condanna». Da Montecitorio a Palazzo Madama, interviene il capogruppo di Fdi al Senato, Lucio Malan: «Manifesta solidarietà a Maurizio Belpietro e alla redazione di Panorama», argomenta Malan, «per l’incredibile vicenda della condanna. Una sorta di lesa maestà delle Ong. La Costituzione tutela la libertà di espressione e queste Ong hanno spesso dichiarato, anche in audizioni in Parlamento, le motivazioni ideologiche e politiche nella loro attività di raccogliere migranti per farli sbarcare in Italia. Se è punibile usare un’espressione, chiaramente evocativa e non letterale, per criticare determinate posizioni politiche, cessa la possibilità di discussione degna di un Paese libero e democratico». Sulla stessa lunghezza d’onda tanti altri esponenti di Fdi, tra i quali il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro e i parlamentari Sara Kelany, Grazia Di Maggio, Emanuele Loperfido, Alessandro Amorese, Paolo Marcheschi, Riccardo De Corato.
Continua a leggereRiduci
Maurizio Landini e Rosy Bindi (Ansa)
L’iniziativa con cui scende in campo il sindacato di Maurizio Landini, oggi presso l’Istituto Luigi Sturzo, in via delle Coppelle a Roma «vede coinvolte tantissime associazioni e organizzazioni, a partire da Acli, Anpi, Arci, Libera», come spiega il Comitato, «ed è aperta a tutte le realtà e le personalità della società civile, e ai singoli cittadini che vogliono partecipare e dare un contributo per respingere la legge Nordio». Obiettivo della conferenza stampa illustrare ruoli e funzioni del Comitato, presentate le ragioni, i contenuti e i valori che saranno portati avanti nella campagna referendaria «per fermare il tentativo di colpire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, minando l’equilibrio e il bilanciamento dei poteri disegnato dalle madri e dai padri costituenti». Il Comitato «A difesa della Costituzione e per il No al referendum», già attivo da alcune settimane, per «sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi derivanti dalla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere e sull’importanza di preservare l’attuale sistema di garanzie a tutela dei diritti dei cittadini» ha scelto una figura che da anni sostiene di non voler fare più politica e di essersi allontanata dal Pd, Rosy Bindi. Accanto a lei, nel comitato in veste di presidente, anche Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio Bachelet, assassinato dalle Brigate Rosse. Non mancano figure pubbliche note, come il premio Nobel Giorgio Parisi, Fiorella Mannoia e l’attore Massimiliano Gallo.
Intanto ieri pomeriggio, sempre nella Capitale, è nato il maxi comitato vicino al centrodestra che sostiene il sì al referendum sulla separazione delle carriere. Si chiama «Sì Riforma» ed è promosso da magistrati, componenti di organi rappresentativi delle giurisdizioni, docenti universitari e avvocati. L’obiettivo è sostenere le ragioni della riforma, che prevede la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, l’istituzione di una Corte disciplinare per i magistrati e il sorteggio dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. La professione forense è rappresentata ai più alti livelli, dal presidente Cnf Francesco Greco, dal consigliere Vittorio Minervini, che è anche vicepresidente della Fondazione avvocatura italiana, dal coordinatore di Ocf Fedele Moretti e dai presidente delle Camere civili, Alberto Del Noce. Tra i 33 firmatari del Comitato anche Luigi Salvato, che fino a pochi mesi fa ha ricoperto la carica di procuratore generale della Cassazione, e Nicolò Zanon (professore ordinario di Diritto costituzionale ed ex vicepresidente della Corte Costituzionale). Il ruolo di portavoce del comitato è stato attribuito ad Alessandro Sallusti.
Continua a leggereRiduci
(IStock)
Per certe toghe gli attivisti possono tutto
Solidarietà al direttore Belpietro e a Panorama. Ricordo quell’articolo di Fausto Biloslavo sulle Ong. Per questi «giudici» schierati, sinistroidi, i compagni delle Ong possono dire ciò che vogliono e compiere azioni sovversive, ma se un giornale scrive che sono «pirati» è reato, non un’opinione. Una vergogna. Una parte di giudici dovrebbe essere buttata fuori.
Pasquale Ciaccio
Nelle aule latita ogni giustizia
Panorama e il direttore Belpietro condannati perché hanno sottolineato delle verità, definendo le Ong «nuovi pirati». Siamo arrivati ormai oltre il limite della decenza. I verdetti «politici» dilagano in spregio ai più elementari canoni del diritto. D’altra parte, sentenze e giustizia sono da tempo profondamente divise; a questo punto si può togliere dalle aule dei tribunali anche la scritta «la legge è uguale per tutti». Credo che la riforma Nordio in atto sia sicuramente un passo in avanti, ma finché non arriveremo alla responsabilità «diretta» del magistrato, non estirperemo mai definitivamente questo male.
Roberto Lenzi, Milano
Ora ho capito perché votare al referendum
Ho letto la sentenza che impone di pagare 80.000 euro a Panorama per la sua copertina dove le Ong si definivano i «I nuovi pirati», mentre per la dichiarazione di Saviano che definito Matteo Salvini e Giorgia Meloni dei «bastardi» i giudici hanno condannato lo scrittore a risarcire con 1.000 euro di danni entrambi. Se prima avevo dei dubbi a votare sì alla riforma della giustizia, oggi non ho più dubbi. Se questa è giustizia!
Bruno D’Arpino
«Pirati»? Si cerchi il termine in un dizionario
Il giudice di Milano che condanna Panorama a causa dell’uso del termine «pirata» evidentemente non ha consultato i dizionari. Se lo avesse fatto si sarebbe accorto che tale sostantivo viene esteso a chiunque commetta azioni violente in spregio delle leggi tant’è che abbiamo i «pirati dell’aria» e i «pirati della strada». A seguire le indicazioni di tale magistrato allora ogni qualvolta un giornale usa tali denominazioni il soggetto al momento interessato potrebbe ricorrere al tribunale per tutelare la propria reputazione, la cosa sembra un po’ tirata per i capelli. Senza considerare poi che i presunti «diffamati» hanno pubblicamente affermato di operare in spregio delle leggi che essi non riconoscono e che la giustizia, però, dovrebbe far rispettare, indipendentemente dalle visioni personali di chi è chiamato a sentenziare.
Fulvio Bellani
Libertà di parola, due pesi e due misure
Solidarietà al direttore Maurizio Belpietro e alle sue redazioni, gravati da un’ammenda di 80.000 euro per aver definito, nell’esercizio del diritto di cronaca, «pirati» le Organizzazioni non governative che favoriscono l’afflusso incontrollato di clandestini nel Paese. Se il soccorso in mare resta un dovere umanitario imprescindibile, esso diviene tuttavia il corollario di un’immigrazione di massa priva di regole, che finisce per eludere proprio quel quadro normativo che dovrebbe disciplinarla. È difficile non ravvisare una palese asimmetria nell’applicazione del diritto: laddove l’apologia del massacro del 7 ottobre da parte di un imam viene derubricata a legittima espressione del pensiero, l’appellativo di «nuovi pirati» viene sanzionato come un abuso, negando a quest’ultimo quella medesima libertà di stampa che della libera espressione deve essere pilastro fondante. Un paradosso quantomeno singolare.
Carmine Barone
Grave attacco da parte della cricca
La mia più incondizionata solidarietà per l’attacco alla libertà di parola e alla verità dei fatti da voi subito da parte delle cricche immigrazioniste, che operano per la «grande sostituzione dei popoli», e della schieratissima magistratura. A Maurizio Belpietro, a Fausto Biloslavo, a tutti voi: grazie e non mollate.
Antonio de Felip
Vicinanza dal Movimento diritti civili
A nome del Movimento diritti civili, esprimo tutta la mia solidarietà al direttore di Panorama e della Verità, Maurizio Belpietro, per l’ingiusta e assurda condanna che considero pericolosa per la libertà di stampa nel nostro Paese perché non si può condannare, addirittura con una pena pecuniaria così elevata, un giornalista e un giornale per una semplice battuta (quella sui pirati), a cui è stata dedicata una copertina del settimanale. Vorrei dire che non mi sento assolutamente offeso da questa battuta io che, da una vita, sono accanto al popolo dei migranti, un simbolo delle lotte a loro favore, che tanti di loro ho negli ultimi 30 anni salvato (anche in qualche caso collaborando con una Ong), che sono, da oltre 10 anni, dalla tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, impegnato a Tarsia, in un luogo fortemente simbolico, vicino l’ex campo di concentramento di Ferramonti, a realizzare la più grande opera umanitaria legata alla tragedia dell’immigrazione, il Cimitero internazionale dei migranti, che darà dignità alla morte delle vittime dei tragici naufragi.
Franco Corbelli
Continua a leggereRiduci