2025-11-08
La parabola di Aimo Moroni parte dal pollaio
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.Nasce a Pistoia nel 1934 da papà Armando, carabiniere, e mamma Nunzia, ricercata cuoca presso la buona borghesia locale. È da lei che inizia ad «annusare» i profumi e i sapori della buona cucina. Quella semplice in cui anche i prodotti del cortile, galline e conigli, come dell’orto, a partire dai legumi, possano trasmettere emozioni con un imprinting che poi ti accompagnerà nella vita adulta. «Da loro imparai a riconoscere la qualità di un pollo», ovvero il colore del becco, indice dell’età del pennuto, così come dalla trama delle zampe e dall’usura delle unghie si poteva capire se aveva realmente razzolato nel cortile con una sana alimentazione.Il secondo conflitto mondiale è appena terminato. Papà Armando torna dal fronte siciliano con lesioni alle braccia che gli impediscono di zappare quel poco che la famiglia ha sul campo fuori casa. Mamma Nunzia si ammala così da non poter più arrotondare le già scarse entrate familiari con le sue «consulenze culinarie». È difficile sbarcare il lunario. Anche perché nella loro ritirata le truppe tedesche hanno devastato le campagne compromettendo i raccolti. La dieta quotidiana vede il pane come un lusso riservato alla domenica. Sulla tavola mamma Nunzia prepara polenta, con un filo d’olio quando va bene. Festa grande quando si può insaporire il tutto con una fettina di buon lardo goloso.Fortuna vuole che, a Milano, ci sia zio Silvio con una bancarella ambulante. Papà Armando prende il suo ragazzo e gli dice: «Vai a Milano e guadagnati il pane». Non i soldi, preciserà anni dopo il nostro Aimo, ma pane concreto, quello che in casa è merce rara. Siamo agli inizi del 1946. Aimo saluta mamma e papà e trova posto su di una panca di legno di un treno merci che trasporta bestiame. Dodici ore di lento sferragliare per arrivare nel Gran Milan. Qui c’è tutta una vita da reinventarsi, con dedizione ed impegno. Aimo sente che la sua vocazione, i sogni che vuole realizzare passano per la buona cucina, quella che lui ha maturato dall’esempio quotidiano respirato in casa, sente «di potersi raccontare» con l’idea di cucina che coltiva nell’anima di quel ragazzino che diventerà adulto. Seguono una serie di episodi, da lui poi raccontati a un coinvolto pubblico di Identità golose, decenni dopo, e ben descritti da Gabriele Zanatta. Storie che avrebbero ispirato il miglior Roberto Rossellini, tra i padri del neorealismo all’italiana.All’inizio il giovane Aimo fa l’ambulante per zio Silvio, con la bicicletta che traina il carretto delle caldarroste. Niente di che, ma giusto per campare. Un giorno di trova sul sagrato della chiesa vicino a casa quando, improvvisamente, viene bloccato da due vigili che gli chiedono di esibire la licenza commerciale. Aimo molla la bicicletta e cerca rifugio nella vicina chiesa dove c’è l’amico frate Cecilio, quello che aveva fondato la mensa dei poveri dell’Opera di San Francesco. Niente da fare, il campanello suona muto. Gli uomini in divisa stanno per fargli il verbale con relativa multa quando arriva una coppia distinta che non solo gli acquista un bel sacchetto di caldarroste, ma anche liquida subito l’ammenda e relativo verbale. Solo più tardi scoprirà che si tratta di Carlo Dapporto e Wanda Osiris, la coppia regina del teatro italiano. Dopo qualche mese da ambulante, Aimo entra nella squadra de «Il» Carminati, a due passi dal Duomo, uno dei punti di riferimento della Milano che ritornava alla dolce vita tra aperitivi, cene e serate danzanti. Esordisce da lavapiatti. Un’esperienza che gli confermerà, ancora una volta, come per realizzare i propri sogni bisogna lavorare duro, con tenacia e sacrificio.Anche qui Aimo Moroni non si smentisce mai nella sua profonda umanità. Decenni dopo quando veniva invitato da amici ristoratori nei vari locali, quando entrava in cucina andava per primo a salutare i giovani lavapiatti del posto ricordando che, anche lui, aveva esordito in tal modo. Una sorta di augurio, poi, a salire anche loro la gerarchia culinaria se accompagnata da merito e talento. Da Carminati, Aimo incontra il coetaneo Gialindo, toscano come lui, con cui stringe un’amicizia di solidarietà e sostegno reciproco. Con qualche mancetta che raggranellano dalla solidarietà degli amici camerieri, scoprono che un buon macellaio della periferia, tale Ercole Villa, ha un cartello esposto in vetrina che recita«Sottobanco, poche lire», una specie di messaggio subliminale, che imparano a tradurre in fretta. Si tratta degli scarti della lavorazione al dettaglio: la prima fettina ossidata del salame, l’osso del prosciutto diviso in due, il midollo, il peperone sott’olio dall’aspetto poco invitante, tutti avanzi che venivano volutamente messi «sottobanco», appunto, per una clientela che apprezzava l’emergente Ercole Villa, tra i primi a proporre la pregiata fassona piemontese in città.Aimo e Gialindo sapevano anche che dovevano presentarsi quando nella macelleria non c’era nessuno, per evitare occhi indiscreti (e stupiti). Il buon Ercole li prese presto in simpatia «e spesso ci dava più di quanto noi potevamo permetterci», con le poche monetine in mano. Porgeva loro il pedrioeu, il cono di carta paglia, colmo di chicche golose, stringendoglielo tra le mani. Al loro sguardo stupito, il congedo conseguente «Lassate stà, andate, andate». Anche questa era la Milano dal couer in man, la Milano generosa con la sua vita quotidiana ricca anche di altri episodi che videro Aimo e Gialindo testimoni. Al Carminati, nel riordinare sala e cucina, vi era un’anziana signora che un giorno li prese in disparte: «Se avete voglia di fare una buona colazione, dovete andare in quella panetteria che vi dico e chiedere alla signora un po’ di quel pan là». Un messaggio in codice che ben presto impararono a tradurre nella realtà. L’esordio timidissimo, sussurrato: «Avete un po’ di quel pan là?». Lei li guarda, intuisce la mandante, va nel retrobottega e se ne esce con due bei pedrioeu colmi di pane secco e duro, quello avanzato che, in genere, veniva riciclato una volta grattugiato. Poi li guarda, l’occhio indagatore: «Quanti anni avete?». «Ventisei in due». «Se venite in un altro momento, ma non adesso che c’è gente, per voi ci sarà sempre del pane, ma non quel pan là». Pane fresco, commenterà poi il nostro Aimo.Ma siamo solo all’inizio. Quella sorta di zia adottiva del Carminati, testandone l’onestà e l’impegno quotidiano di lavapiatti e non solo, li premia con un’altra soffiata. Era venuta a sapere che, finito a tarda ora il lavoro serale, se ne andavano a casa a piedi, dall’altra parte della città, non potendo permettersi il biglietto del tram, e correndo a gamba svelta, anche per combattere il freddo nella stagione invernale. «Andate in piazza Fontana e prendete la linea 15, dite al bigliettaio che siete rimasti senza soldi, ma che scenderete alla prima fermata». Anche qua l’ennesima Milano dal coeur in man. L’occhio dei ragazzi è tanto limpido quanto timido e il guardiano del mezzo li rincuora con tono paterno. «Tranquilli, sedetevi vicino a me, senza passare davanti agli altri passeggeri».Ma è ora di passare di grado e i nostri due lavapiatti incontrano cuoco Cesare, il loro primo maestro. Nei momenti di pausa tra pranzo e cena vanno al banco della cucina di casa sua e si apre un mondo.1. continua