2019-10-24
L’addio allo scudo fornisce ad Arcelor la scusa per chiedere 5.000 esuberi
L'azienda, che perde 50 milioni al mese, ora ha un'arma per ridiscutere l'accordo di un anno fa. Lucia Morselli, il nuovo ad, ha la fama di tagliatrice di teste. E se dovesse saltare il banco, in 12.000 resteranno senza lavoro.Pd e Italia viva vollero l'immunità. Ora la rinnegano e seguono i grillini. La sinistra si limita a proporre la foglia di fico di un ordine del giorno per l'occupazione.Lo speciale comprende due articoli. Era il maggio del 2017 quando, dopo anni di processi, interventi pubblici, commissariamenti e lotte politiche, l'Ilva di Taranto tornò in mano ai privati. A vincere la gara fu Am investco Italy, la cordata che fa capo ad Arcelormittal e a Marcegaglia (15%), e che soprattutto è sostenuta da Banca Intesa. Da lì alla presa reale di possesso è passato più di un anno. Nel frattempo il miliardo e rotti rimborsato dalla famiglia Riva è finito nella casse della bad company per finanziare le bonifiche. Soltanto a settembre del 2018 è avvenuto il passaggio di consegne.Luigi Di Maio, da ministro dello Sviluppo economico e dopo un incontro durato più di un giorno, ha ottenuto il sì dei sindacati e dell'azienda. Rispetto alla bozza lasciata in eredità dal predecessore Carlo Calenda, ha portato a casa 700 posti di lavoro in più e le medesime condizioni economiche con la garanzia di riassorbimento quasi integrale anche dalle risorse in cassaintegrazione, poco meno di 2.000 persone. Il tutto azzerando di fatto il Jobs act con la reintroduzione dell'articolo 18. La posta è stata altissima perché il rischio che Arcelor mittal mandasse tutto a monte era elevato e la data del 15 settembre 2018 era ormai prossima. Optando per una scelta di tensione, l'acciaieria avrebbe potuto far valer il proprio contratto (il parere dell'avvocatura di Stato ad agosto 2018 si era espresso totalmente a favore dei privati) per prendere possesso della fabbrica senza alcun aggiornamento dell'accordo di base. Uno degli elementi portati del testo originario era la tutela legale nei confronti dei vertici dell'azienda su tutte le attività non a norma e in attesa di essere sistemate o bonificate. In pratica, il comma voluto espressamente dal Pd e veicolato da Carlo Calenda cristallizzava la situazione fino al termine degli interventi di risanamento. Un'opzione molto intelligente e mirata a evitare che a ogni piè sospinto la produzione potesse finire bloccata da un intervento della magistratura. Cosa che è avvenuta almeno fino a luglio scorso quando l'altoforno 2 è finito sotto sequestro per pregressi motivi (la morte di un operaio nel giugno del 2015). Con il voto a favore della rimozione dell'immunità, il lavoro svolto dalla politica e dall'azienda negli ultimi due anni viene azzerato. Il Pd ne è consapevole, ma ha votato lo stesso al fianco dei 5 stelle per evitare di far cadere il governo. Una crisi sull'ex Ilva avrebbe rotto la fragile impalcatura che tiene in piedi i giallorossi. La fronda estrema dei grillini non avrebbe mai mollato la presa sull'Ilva, in una regione dove la controparte politica si chiama Michele Emiliano un pasdaran delle tematiche pseudo ambientali. Così si è deciso di avviare una nuove spirale che riapre di fatto la trattativa tra governo e azienda. Poco più di una settimana fa Arcelormittal ha chiesto a Matthieu Jehl di lasciare il posto all'ex amministratore delegato dell'Ast di Terni e della Berco, Lucia Morselli. Laureata in matematica e famosa per essere una tagliatrice di teste, la manager è subito partita in quarta per apparecchiare nuovi tavoli di trattative. Perché immaginiamo che sia proprio questa la strategia. Se veramente Arcelor, che perde 50 milioni di euro al mese, avesse voluto abbandonare, non avrebbe avuto bisogno di assumere una manager come la Morselli. Non abbiamo contezza dei dettagli dell'incarico ricevuto dagli azionisti. Ma è ovvio che la perdita deve essere limata. E di molto. Per cui la prima cosa che la nuova ad va a sventolare sono i 5.000 esuberi. Togliendo l'immunità il governo ha tagliato il ramo su cui era seduto. Innanzitutto, al netto delle attuali minacce di licenziamenti, dovrà rimangiarsi ciò che a settembre 2018 ha ottenuto in più rispetto alla bozza di Calenda. Poi c'è l'altra grande partita che si chiama Aia. «Si apre una nuova pagina per Taranto. Il 24 giugno», ha detto lo scorso maggio il ministro dell'Ambiente, Sergio Costa in audizione in commissione Ambiente alla Camera sull'apertura del riesame dell'autorizzazione integrata, «torneremo in città per incontrare ancora una volta i tarantini e continuare il percorso avviato insieme». «È un dovere procedere al riesame», ha osservato Costa, «lo dobbiamo ai cittadini e ai lavoratori. Abbiamo accolto con favore l'istanza del sindaco, con il quale il rapporto di collaborazione è costante e proficuo». Il ministro parlava di un timing con scadenze precise. Probabilmente entro fine anno. Pure su questo diktat la Morselli avrà molto da discutere adesso. Dalla sua, vale la pena ricordarlo, avrà la minaccia di altri 5.000 esuberi o addirittura di chiudere i battenti. Anche se non fosse vero, sbandierare tale ipotesi farà gelare tutti gli amministratori locali. In pratica tutto ciò per la follia di una scelta grillina avulsa dalla realtà. E - cosa ancora più grave - per colpa del Partito democratico, che ha anteposto la stabilità del governo e delle poltrone al futuro degli operai di Taranto. Vedremo come si giocherà la partita la nuova manager di Arcelormittal.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/laddio-allo-scudo-fornisce-ad-arcelor-la-scusa-per-chiedere-5-000-esuberi-2641080644.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pd-e-italia-viva-vollero-limmunita-ora-la-rinnegano-e-seguono-i-grillini" data-post-id="2641080644" data-published-at="1757648557" data-use-pagination="False"> Pd e Italia viva vollero l’immunità. Ora la rinnegano e seguono i grillini Versione uno: il Pd si è ormai ridotto a una specie di corrente dei 5 stelle, inseguendoli perfino culturalmente, non solo politicamente. Versione due: il Pd si è adeguato al diktat pentastellato, pur non condividendolo, solo per l'attaccamento alle poltrone e per evitare un incidente in commissione e poi in Aula. Ma, cambiando l'ordine dei fattori (e delle versioni), il prodotto non cambia. I fatti parlano chiaro: o per autonoma convergenza dem su posizioni anti industria e anti impresa, o per timore delle reazioni M5s a un eventuale voto diverso (gran parte del gruppo grillino aveva minacciato fuoco e fiamme, in vista dell'approdo in Aula), è ormai acclarato che il Pd - come La Verità aveva largamente anticipato - si è allineato al famigerato emendamento grillino a prima firma di Barbara Lezzi, nelle commissioni congiunte Lavoro e Industria del Senato, nella votazione che ha poi effettivamente abolito l'articolo 14 del decreto sulle crisi d'impresa. Così è stata cancellata la norma che aveva offerto un minimo di scudo legale al management Ilva (e anche a quadri e settimi livelli con responsabilità): immunità, lo ricordiamo ancora, che serviva solo a evitare carcere e conseguenze penali per gli attuali gestori e decisori rispetto alle scelte dei gestori e dei decisori precedenti. In un contesto di enorme imbarazzo, il Pd ha cercato di tenere bassa la questione, affidandosi a una vaga dichiarazione di Dario Stefano, vice capogruppo a Palazzo Madama: «È cambiato il governo, è cambiata la maggioranza che lo appoggia, è cambiato il vertice di Arcelormittal che gestisce l'ex Ilva. Ci può stare un pit stop». Peccato che, più che un pit stop, la decisione crei le condizioni per un ritiro definitivo di Ilva dalla corsa. In un mix di ipocrisia e impotenza, Pd e Italia viva hanno proposto un ordine del giorno (che, com'è noto, vale meno dell'acqua fresca in termini di cogenza normativa) per impegnare ad assicurare comunque l'attività. Il surreale Odg impegna il governo «a garantire, in tempi rapidi e mediante ogni azione opportuna, la permanenza dell'attività produttiva del complesso siderurgico dell'ex Ilva di Taranto, garantendo altresì la salvaguardia dei livelli occupazionali diretti e di quelli legati all'indotto». Una frase vuota, una pura petizione di principio, senza alcuna indicazione concreta. Il capogruppo del Pd Andrea Marcucci ha comunque cercato di difendere la foglia di fico: «Il voto di oggi in Senato serva a responsabilizzare il governo, che dovrà seguire l'ordine del giorno di Pd, Iv e Automie e alcuni partner della maggioranza».Insomma, con una mano hanno demolito tutto, creando le basi per il disimpegno degli investitori e per un gigantesco problema occupazionale, e con l'altra si sono limitati a un blando e inutile invito al governo. Nell'Odg c'era anche un passaggio sulla «progressiva decarbonizzazione dell'impianto»: nelle intenzioni di chi ha scritto il testo, un omaggio alla logica green; ma, nel concreto della battaglia sul terreno, rischia di risolversi in un altro elemento per aizzare i comitati locali e creare altra pressione su Arcelormittal. Va peraltro ricordato - il che rende tutto più surreale -che, all'interno di una vicenda anche legislativa lunga e tormentatissima, la prima norma di scudo penale (non l'ultima, appena cancellata) era stata introdotta nel 2015 proprio dal Pd, che non a caso viene oggi bastonato da Carlo Calenda e dal sindacalista Cisl Marco Bentivogli, che hanno mantenuto quell'impostazione. Per l'esattezza, il riferimento normativo originario - quello di oltre quattro anni fa - è l'articolo 2 comma 6 del decreto legge 1 del 2015 (poi modificato nel 2016). Ecco il testo di allora: «Le condotte poste in essere in attuazione del piano di cui al periodo precedente non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario e dei soggetti da questo funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell'incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro». Il presidente del Consiglio era Matteo Renzi, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il ministro dei Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, e in ordine sparso, tra i sottosegretari, c'erano Paola De Micheli, Teresa Bellanova, e molti altri protagonisti anche dell'attuale stagione. No, non si tratta di casi di omonimia.
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 settembre 2025. Il deputato di Azione Ettore Rosato ci parla della dine del bipolarismo italiano e del destino del centrosinistra. Per lui, «il leader è Conte, non la Schlein».