
Il sociologo Luca Ricolfi: «Lo scandalo in questa situazione non è Mattarella ma il trasformismo di Pd e grillini. E Salvini mi sembra confuso».È una delle menti più lucide del panorama scientifico italiano. Sociologo, docente di analisi dei dati all'università di Torino, Luca Ricolfi è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume: leggere le sue riflessioni aiuta a diradare la nebbia che avvolge il paesaggio politico nostrano. In questi giorni sta completando la stesura di La società signorile di massa, il saggio in uscita a ottobre per La nave di Teseo, ma ha ritagliato un po' di tempo per rispondere alla Verità sulla crisi più anomala della storia della Repubblica.La differenza tra i due populismi è venuta al pettine. Quello del Nord e del fare e quello del Sud e della decrescita. Si aspettava che il governo gialloblù durasse più a lungo?«No, pensavo che sarebbero andati avanti ancora un po', dal momento che Salvini poteva dettare l'agenda».Secondo lei che cosa davvero ha fatto rompere gli indugi a Matteo Salvini? I no ribaditi del M5s, la prossima manovra (flat tax o salario minimo?), il nodo giustizia, i sondaggi segreti…«Nessuna di queste cose. Secondo me, ma posso sbagliare, Salvini ha puntato sul voto per altri due motivi. Primo: il delirio di onnipotenza che verrebbe anche a me e a lei se andassimo in costume da bagno in una spiaggia e la folla andasse in visibilio per noi. Secondo: l'imminente arrivo al pettine del nodo dell'autonomia, che gli avrebbe alienato il consenso del Sud. Il progetto di Salvini era incassare anche i voti del Sud, e questo poteva farlo solo prima di scoprire le carte antisudiste sull'autonomia». Con questa decisione ha messo all'angolo le opposizioni?«No, ha messo all'angolo sé stesso».Non crede che se si voterà in ottobre raccoglierà percentuali superiori a quelle delle europee, mentre se si rinvierà a primavera, con in mezzo un esecutivo di scopo, del presidente, di garanzia ecc. potrebbe avere un consenso ancora superiore?«In realtà potrebbe anche andare in tutt'altro modo. A mio parere una parte del consenso di Salvini, specie al Sud, è legato al suo essere al comando, al suo essere percepito come vincente. È quello che i sondaggisti chiamano bandwagon: saltare sul carro del vincitore. Se l'effetto bandwagon finisce, e la vicenda della sfiducia a Conte finisce malamente, il consenso a Salvini potrebbe tornare sotto il 30%». Il leader leghista non potrà condurre la campagna elettorale da ministro dell'Interno. Come pensa che Mattarella supererà questo vincolo?«Ritengo improbabile che si vada al voto, e tutto sommato marginale il problema che al ministero dell'Interno ci sia Salvini. O qualcuno pensa che potrebbe manipolare i risultati?».Tutti si affidano all'equilibrio del Capo dello Stato e ognuno lo tira dalla propria parte. Concorda con la sensazione che non si abbasserà a legittimare accordi artificiosi di Palazzo? «No, non concordo. E non penso nemmeno che sia un abbassarsi. Certo, io ritengo più saggio e più giusto andare al voto, ma è una mia personale convinzione. Finché la Costituzione è quella che è, non è solo legittimo, ma è doveroso che il Capo dello Stato verifichi se esistono altre maggioranze in Parlamento. Il problema non è Mattarella, il problema è il trasformismo di Pd e Cinque stelle».Si può dire, in astratto, che questa crisi coglie tutti tranne Lega e Fdi a metà del guado?«Sì, tutti sono a metà del guado, ma Lega e Fratelli d'Italia sono a loro volta impelagati: rischiano di essere sommersi dall'attaccamento di tutti gli altri ai seggi parlamentari».Solo ritornando forza d'opposizione il M5s può far risalire le sue azioni? O ha altre alternative davanti? Un accordo con il Pd potrebbe diventare un boomerang alle prossime elezioni, quando saranno?«Non so rispondere, perché il M5s è un ectoplasma cangiante, forse per riconquistare i voti perduti dovrebbe innanzitutto darsi una linea non ondivaga».Che giudizio dà delle mosse di Matteo Renzi?«La capriola di Renzi sul governo con i 5 stelle è la più spregiudicata della storia della Repubblica».Che consenso e che credito potrà avere la sua Azione civile o un'altra sigla analoga se dovesse varare un nuovo partito?«Secondo me, allo stato attuale, un partito di Renzi non andrebbe oltre il 5%. E questo per una precisa ragione politica, non solo perché il ragazzo è ancora parecchio antipatico a buona parte degli italiani». Quale ragione? «Renzi è la destra del Pd sulla politica economica, vedi Jobs act, ma è la sinistra sulla politica migratoria: ancora oggi difende “mare nostrum" e l'accoglienza senza se e senza ma. Credo che sia per questo che ha bloccato la candidatura di Marco Minniti alla segreteria del Pd. Difficile che tanti elettori votino un ircocervo come il partito di Renzi».Quanto è demagogica l'imprescindibilità della riduzione dei parlamentari proclamata da Luigi Di Maio, e abbracciata da Renzi, dopo l'annuncio della crisi?«Diciamo che se la demagogia va da 0 a 100, siamo a 90».È stato un errore da parte di Salvini aprire al taglio dei parlamentari dopo aver deciso la sfiducia a Conte?«Più che un errore è stata una mossa inutile. L'errore è stato fatto prima, e secondo me non è un errore di tempi, ma di sottovalutazione degli avversari. Salvini credeva di essere lui il più spregiudicato, ma ha dovuto prendere atto che c'è chi è più spregiudicato di lui».Quante probabilità di riuscita ha un accordo di largo respiro tra Pd e 5 stelle?«Le probabilità di un accordo mi paiono altissime. Quelle di un accordo “di largo respiro" un po' meno, ma comunque non sono trascurabili. Perché il Pd e il movimento Cinque stelle potevano sembrare due animali politici molto diversi prima delle elezioni del 2018, quando al timone del Pd non c'era Nicola Zingaretti, e al governo non c'era ancora Di Maio. Ma ora si assomigliano moltissimo, e credo che se faranno un governo avranno il problema opposto a quello che hanno avuto Salvini e Di Maio». In che senso?«Salvini e Di Maio dovevano lottare per trovare qualcosa che li unisse, Di Maio e Zingaretti dovranno ingegnarsi a trovare qualcosa che li differenzi».La strategia «Tutti tranne Salvini» è il modo più efficace per fermarlo?«Non so se è il più efficace, ma è comunque molto efficace, come lo è stata contro Berlusconi. È in fondo anche l'unico possibile, in mancanza di vere idee e veri progetti politici».Allargando l'alleanza a Berlusconi e Giorgia Meloni, Salvini dimostra di aver capito che sarebbe un errore giocare «io contro tutti»?«Non so, Salvini mi sembra estremamente confuso».Contro i giornali, contro gli altri partiti, l'Europa, le banche, la magistratura. Rischio deriva plebiscitaria, rischio Paese spaccato, tensioni sociali… Anche contro il Papa. Come valuta i pronunciamenti di Bergoglio in tema di Europa e sovranismi? Possono avere un'influenza importante?«Bergoglio fa il Papa, l'errore è nostro che lo ascoltiamo come fosse un politico. La sua testa funziona come quella di un terzomondista degli anni Sessanta, che una macchina del tempo ha trasportato ai giorni nostri».Berlusconi accetterà un ruolo subalterno nella coalizione di centrodestra?«Sì, se gli daranno abbastanza collegi sicuri». Se si votasse in autunno vede il pericolo di una deriva antieuropea?«No, semmai vedo il pericolo di una deriva proeuropea. La paura per le reazioni dei mercati finanziari rinforza i partiti tradizionali, e rischia di far dimenticare i problemi che le forze sovraniste hanno sollevato, dai migranti al ristagno economico. Il dramma dell'Italia è che, per i problemi principali del Paese, né i sovranisti né i loro nemici hanno soluzioni che funzionerebbero». Quanto crede alle tentazioni politiche di Urbano Cairo? Anche per lui le prossime elezioni sono premature?«Sì, se si vota in ottobre nessuno, non solo Cairo, riesce a creare un partito competitivo. Forse l'unico che potrebbe combinare qualcosa è De Luca, il governatore della Campania, che sta preparando una lista sudista per stoppare l'autonomia delle regioni del Nord».Anche questo spiega la contrarietà del Corriere della Sera alle elezioni in autunno?«Il Corriere è istintivamente per la stabilità. Credo che, per come è fatta la loro forma mentis, i giornalisti del Corriere non facciano grandi sforzi per autoconvincersi che le elezioni in autunno, con la legge di bilancio alle porte, siano un rischio». Come giudica la narrazione poco istituzionale del Papeete Beach? «A me piace il popolo quando mette le élite di fronte a problemi veri, non quando sta al gioco dell'élite - Salvini è élite a tutti gli effetti - che si fa acclamare fingendosi popolo. Non sta scritto da nessuna parte che per essere amati dal popolo si debbano assumere atteggiamenti trash, o da spaccone. Non sono mai stato comunista, ma se devo indicare un modello di rapporto fra élite e popolo penso a Berlinguer, non ai commedianti di terz'ordine che oggi passa il convento».In che senso Salvini è élite?«Lo considero élite per il reddito, è stato parlamentare europeo, e per il potere: ministro, e capo del primo partito italiano. Nelle scienze sociali, diversamente da quel che accade in alcuni media, il termine élite è avalutativo, o addirittura connotato positivamente».Ogni volta che le sinistre attaccano, sempre con una dose di superiorità morale con il tono di rimprovero, torna il boomerang e Salvini sembra non patire questi attacchi. È accaduto con il Papeete, Carola Rackete, il Russiagate…«Potrebbe non accadere di nuovo, e solo per colpa di Salvini. Una parte del suo consenso è dovuto alla tendenza degli italiani a stare con il più forte, e potrebbe svanire quando cambierà il vento». Sembra che quella supponenza diventi un lievito che fa risaltare il carattere pop del leader leghista.«C'è pop e pop. Si può essere pop senza essere volgari e offensivi».Concorda con il fatto che, mai come questa volta, fotografa ciò che sta accadendo la famosa frase di Bertolt Brecht: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d'accordo, bisogna nominare un nuovo popolo»?«Concordo. Però la riformulerei così: “Poiché il popolo non è d'accordo, e noi non siamo in grado di nominarne uno nuovo, meglio togliere la parola al popolo"».
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
Continua a leggereRiduci
Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






