2019-08-10
Il capo di accusa leghista a Conte: «Non era in Aula a difendere la Tav»
Depositata la mozione di sfiducia al Senato: «Troppe le divergenze su giustizia, autonomia e manovra». Maria Elisabetta Alberti Casellati convoca la capigruppo lunedì. Inizia la bagarre per arrivare al voto prima del 20 di agosto.Polemica sul Capitano ministro. Ma Mario Monti da premier fece un partito. E nessuno chiese la testa di Giuliano Amato dopo la sfiducia a Romano Prodi.Lo speciale contiene due articoli.Il dado è tratto. L'altra sera, l'unico specchio retorico sul quale si arrampicavano gli avversari di Matteo Salvini era: ma perché la Lega non compie un atto formale di apertura della crisi, oltre a note di agenzia e comizi? E così ieri il Carroccio li ha accontentati, presentando in Senato (a prima firma del capogruppo Massimiliano Romeo) una mozione di sfiducia a Giuseppe Conte. Il testo è un vero e proprio capo d'imputazione politico: «L'esame in Aula delle mozioni riguardanti la Tav ha suggellato una situazione di forti differenze di vedute tra le due forze di maggioranza su un tema fondamentale per la crescita del paese come lo sviluppo delle infrastrutture». E si sottolinea «la situazione paradossale che ha visto due membri del governo presenti esprimere due pareri contrastanti». Poi il passaggio più imbarazzante per Conte: «Il presidente del Consiglio non era presente in Aula, nel momento delle votazioni sulle citate mozioni, per ribadire l'indirizzo favorevole alla realizzazione dell'opera che egli stesso aveva dichiarato pochi giorni prima». Ciò detto, ecco il colpo di grazia politico: «Le stesse divergenze si sono registrate su altri temi prioritari dell'agenda di governo quali la giustizia, l'autonomia e le misure della prossima manovra economica». Dopo questo passo ufficiale, la giornata è stata scandita da un pesante scambio di colpi: «Chi perde tempo danneggia il Paese e pensa solo alla poltrona», ha martellato la Lega, alludendo a possibili intese tra Luigi Di Maio e Matteo Renzi. «Caro Salvini, stai vaneggiando, inventatene un'altra per giustificare quello che hai fatto, giullare», è stata la greve risposta pentastellata. Quanto a Conte, dopo la livida e stizzita esibizione dell'altra sera, ha comunicato la sua intenzione di «passare la giornata lontano dai riflettori, tra la sede di governo e la famiglia».Ma veniamo alla vera partita, quella dei tempi, tra acceleratori (Lega) e frenatori, determinati a trasformare le prossime settimane in vere e proprie sabbie mobili. Una prima sponda a Salvini è giunta dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha convocato per lunedì alle 16 la conferenza dei capigruppo del Senato, che deciderà sulla calendarizzazione della mozione. I leghisti chiedono di portarla in Aula già martedì (per fare pressione, Salvini ha convocato i suoi parlamentari a Roma per le 18 di lunedì), mentre i frenatori insistono per date incredibilmente lontane, tipo 19 o 20 agosto. E la motivazione che adducono è francamente surreale: consentire ai senatori di raggiungere Palazzo Madama. Ma, essendo oggi il 10 agosto, ci si domanda come sia possibile impiegare 9-10 giorni per arrivare a Roma, come se i poveri senatori dovessero raggiungere la Capitale a piedi o in bicicletta dai rispettivi luoghi di villeggiatura. La decisione sulla data, alla fine, potrebbe anche essere presa a maggioranza, in un dibattito che coinvolgerà - nella conferenza - i rappresentanti dei sette gruppi (M5s, Lega, Fi, Pd, Fdi, Autonomie, Misto). Il regolamento prevede che la mozione di sfiducia non possa essere discussa prima di tre giorni dalla sua presentazione, mentre non è previsto un tempo massimo. Questo è politicamente ovvio: un atto di sfiducia politica non scade come uno yogurt. Ma non può diventare un pretesto per dilazioni temporali insensate: che tra l'altro avrebbero un evidente costo di impopolarità per i frenatori.Una volta che l'Aula sarà stata convocata, è matematico che il governo non avrà la fiducia. A quel punto, Conte sarà obbligato a salire al Quirinale. E da quel momento il pallino sarà definitivamente in mano a Sergio Mattarella, che potrà disporre degli immensi - e purtroppo assai vaghi - poteri che l'attuale Costituzione attribuisce al capo dello Stato nelle fasi di crisi. Diciamolo chiaramente: il presidente della Repubblica può fare qualunque cosa, dopo aver svolto un giro di consultazioni (ascoltati cioè i presidenti delle Camere e i rappresentanti dei gruppi). Può rinviare il governo Conte alle Camere (opzione che stavolta parrebbe irragionevole); oppure (e sarebbe altrettanto avventuroso) proporre un Conte-bis con la stessa maggioranza; oppure (altra idea che sembra impraticabile) individuare un'altra personalità nella stessa maggioranza (che però si è rotta); oppure (sarebbe la soluzione a nostro avviso più lineare) lasciare a questo governo sfiduciato il disbrigo degli affari correnti; oppure incaricare qualcun altro (è la tesi largamente veicolata da 24 ore) per un cosiddetto «governo di garanzia elettorale», sulla base dell'idea secondo cui non sarebbe opportuno che Salvini, frontman della prossima campagna elettorale, restasse titolare del Viminale e responsabile delle operazioni di voto, conteggi post elettorali inclusi. Dopo di che, scatterebbe finalmente lo scioglimento delle Camere e l'apertura della campagna elettorale, con durata tra i 45 e i 70 giorni. Ma il vero punto è: quanto tempo intende consumare Mattarella per compiere una o più d'una di queste operazioni? Volendo, può impiegare una sola settimana; volendo diversamente, può quadruplicare o addirittura quintuplicare i tempi di attesa, spostando inevitabilmente in avanti la data del voto, fino a novembre inoltrato, ponendo a rischio la sessione di bilancio. È questa la vera partita. È proprio il caso di dire (altri lo dissero, sciaguratamente e con tutt'altra intenzione, nel 2011): fate presto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-capo-di-accusa-leghista-a-conte-non-era-in-aula-a-difendere-la-tav-2639748242.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lultimo-attacco-salvini-non-puo-restare-al-viminale" data-post-id="2639748242" data-published-at="1758150369" data-use-pagination="False"> L’ultimo attacco: Salvini non può restare al Viminale La sua aulica definizione sembra sia «governo di garanzia elettorale». Va ad aggiungersi alla già nutrita nomenclatura di governicchi che hanno accompagnato l'Italia nei momenti di maggiore incertezza: esecutivi tecnici, balneari, istituzionali, del presidente, di unità nazionale. Quello di garanzia elettorale, se nascerà, non avrà precedenti. D'altra parte, è fatto su misura per impallinare un ministro dell'Interno alla sua prima esperienza di governo, cioè Matteo Salvini, che è pure leader del partito strafavorito dal voto e autocandidatosi futuro presidente del Consiglio. La questione occupa i pensieri del Quirinale e di chi vorrebbe tagliare la strada al segretario della Lega. Negli ultimi anni, i leader che stavano al governo hanno regolarmente perso le elezioni: è capitato a Romano Prodi nel 2001, a Silvio Berlusconi nel 2006, ancora al Professore nel 2008, a Mario Monti nel 2013, a Paolo Gentiloni e alla sinistra nel 2018. Mai si è posto il problema se il titolare del Viminale avesse un conflitto d'interessi nel gestire la macchina elettorale, perché si sapeva già che il giorno dopo il voto sarebbe andato a casa. Stavolta si pone un interrogativo istituzionale, che al tempo stesso è anche politico. Il governo di Giuseppe Conte sarà a breve sfiduciato dalle Camere: deve toccare a lui e alla sua corte gestire questi mesi di transizione estiva? E soprattutto: è opportuno che l'apparato burocratico faccia capo al ministro che ha staccato la spina all'esecutivo uscente e che tutti i sondaggi indicano come l'uomo chiave per ogni futuro assetto di governo? Se il capo del Viminale si candida a premier, si dice, non può essere lui a controllare che tutto funzioni correttamente nelle urne e nei seggi, durante lo spoglio. Giocatore e al tempo stesso arbitro: sarebbe troppo anche per il dj Salvini. Contestare il leader leghista, le leggi che ha voluto e le scelte che probabilmente porteranno al voto anticipato dopo meno di due anni dalle ultime elezioni politiche è ovviamente legittimo. Sono questioni politiche. Ma camuffare un'opposizione politica con ragioni istituzionali non è il massimo della correttezza. Anche perché casi simili non sono mancati nella storia recente d'Italia, benché si tenda a passarli sotto silenzio. Prodi nel 2008 fu sfiduciato. Giorgio Napolitano incaricò Franco Marini, presidente del Senato, di fare un nuovo governo per il tempo necessario a riformare la legge elettorale. Marini fallì e fu l'esecutivo sfiduciato, con il suo nugolo di 11 partiti e partitini, a condurre il Paese alle urne. Ministro dell'Interno era un certo Giuliano Amato, per due volte premier e altrettante volte a un passo dalla salita al Quirinale: eppure nessuno - giustamente - eccepì che il Dottor Sottile non fosse adatto a restare al Viminale sotto elezioni. Cinque anni dopo fu il governo Monti a portare l'Italia al voto. Quello stesso professor Monti che, pochi giorni dopo lo scioglimento delle Camere, fondò addirittura un partito convinto che così sarebbe potuto restare a Palazzo Chigi. Il conflitto d'interessi toccava non l'inquilino del Viminale (che era il prefetto Anna Maria Cancellieri), ma lo stesso capo del governo. Monti aveva fatto approvare la legge di bilancio e poi aveva dato le dimissioni: nessuno invocò quel governo di garanzia elettorale che invece ora si vorrebbe insediare per indebolire Salvini.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)