- La maggioranza si tiene la roccaforte lombarda ed espugna il Lazio, senza il tracollo di Lega e Fi che alcuni prevedevano. Matteo Salvini: «Vince il gioco di squadra». L’azzurra Licia Ronzulli: «Siamo noi la componente moderata».
- Il duo Azione-Iv non sfonda. Carlo Calenda: «Attrae pochi consensi, serve il partito di centro». Matteo Renzi si eclissa e manda avanti Luigi Marattin (Iv): «Dobbiamo guardare al lungo periodo».
Lo speciale contiene due articoli.
«Complimenti a Francesco Rocca e ad Attilio Fontana per la netta vittoria alle elezioni regionali 2023, sicura che daranno il massimo per onorare il mandato ricevuto dai cittadini di Lazio e Lombardia. Risultato che consolida la compattezza del centrodestra e rafforza il lavoro del governo». Giorgia Meloni, che si è complimentata telefonicamente con Fontana e Rocca, commenta con inevitabile soddisfazione, ma con la sobrietà che è prerogativa necessaria per un capo di governo, i risultati delle elezioni di ieri. Risultati che spazzano via non solo la sinistra, ma anche quella imponente mole di vaticini di sedicenti osservatori politici che prevedevano, non si capisce in nome di quale logica, che la vittoria del centrodestra avrebbe provocato problemi al governo. Il ragionamento che abbiamo letto e ascoltato, da parte di questi soloni, era il seguente: «Fratelli d’Italia surclasserà gli alleati e così Lega e Forza Italia dovranno giocoforza ostacolare il percorso della Meloni». Ragionamento che suscitava già prima dell’apertura delle urne più ilarità che stupore, e che oggi, risultati alla mano, appare nella cristallina immagine di una supercazzola: alla fine il centrodestra ha stravinto sia in Lombardia che nel Lazio, e quindi, come è ovvio, tutti i partiti della coalizione si sono consolidati, anche al di là delle aspettative, irrobustendo di conseguenza l’esecutivo nazionale.
Guardiamo, ad esempio, la Lombardia: Fratelli d’Italia conquista un eccellente 26%, ma la Lega, che secondo i predicatori sinistrati sarebbe stata penalizzata dall’ascesa del partito della Meloni, al contrario tiene, e tiene bene: al 17,1% del Carroccio, infatti, va sommato il 6,2% della Lista Fontana. La stessa Forza Italia può essere comunque soddisfatta del suo 7,5% per un motivo estremamente semplice: la candidatura di Letizia Moratti andava a pescare nell’elettorato moderato, quello che tradizionalmente ha premiato il partito di Silvio Berlusconi. Il leggendario flop della Moratti e soprattutto dei terzopolisti targati Carlo Calenda e Matteo Renzi, sonoramente bocciati dagli elettori, deve essere considerato quindi non solo una importante affermazione per Fontana, ma pure per i forzisti, che sono riusciti a blindare il proprio elettorato, dimostrando che l’offerta politica del centro alleato alla destra risulta convincente, molto più di una proposta, quella di Azione e Italia viva, talmente confusa da apparire incomprensibile ai cittadini. Fontana, da parte sua, è stato premiato dai lombardi nonostante una campagna mediatica ossessiva messa in campo contro di lui, in particolare sulla gestione del Covid. Ennesima dimostrazione che la realtà vissuta dalle famiglie è sempre più forte delle narrazioni costruite a tavolino per infangare gli avversari politici.
Il centrodestra, poi, fa bingo nel Lazio. Fratelli d’Italia, in una regione nella quale il voto a destra è storicamente radicato, supera addirittura il 33%, conseguendo un risultato storico, ma Forza Italia e la Lega, entrambe tra l’8% e il 9%, si attestano su percentuali più che soddisfacenti. Dunque, altro che problemi per il governo: qui a essere di fronte a una disfatta, l’ennesima, di proporzioni bibliche, sono solo e soltanto le opposizioni. Non regge, di fronte alla semplice aritmetica, neanche la scusa della divisione nell’ex campo largo, ormai assai ristretto, del centrosinistra: sia Fontana che Rocca superano abbondantemente il 50%, quindi le chiacchiere stanno a zero.
«Il risultato della Lega mi fa molto piacere», commenta Attilio Fontana, «ed è la dimostrazione che il radicamento sul territorio riesce sempre a pagare. Credo che Salvini non abbia avuto momenti di debolezza, e queste elezioni sono un passaggio a favore della Lega nel suo complesso. Sia all’interno della Lega che dalla mia lista civica», aggiunge il rieletto presidente della Lombardia, «c’erano persone che hanno dimostrato in passato di saper svolgere bene il ruolo di amministratori».
«È stata una corsa breve ma intensa», sottolinea Francesco Rocca, «prevale ora il senso di responsabilità che è enorme. L’astensionismo poi sottolinea che dieci anni di centrosinistra hanno allontanato i cittadini. Ci impegneremo per far tornare fiducia e partecipazione».
«Con queste elezioni regionali», argomenta la capogruppo al Senato di Forza Italia, Licia Ronzulli, «gli elettori hanno premiato il buon governo di centrodestra in questi primi 100 giorni. Siamo molto soddisfatti della riconferma della vittoria di Attilio Fontana e del centrodestra in Lombardia, ma anche della conquista del Lazio. Siamo la forza moderata della coalizione: il centro che vuole Calenda esiste già ed è Forza Italia», aggiunge la Ronzulli, che sottolinea «il fallimento totale del Terzo polo».
«Per quanto riguarda la Lega», argomenta il vicepremier Matteo Salvini, «sono molto contento anche se mi interessa il lavoro di squadra, che con Giorgia e Silvio funziona al di là di quello di cui si è chiacchierato, competizioni intervento rivalità. Ho sentito sia Silvio che Giorgia, tutti siamo reciprocamente contenti della vittoria della squadra. Mi porto via questo risultato straordinario, inatteso, bello, che ci dà forza. Attilio Fontana è già al lavoro», aggiunge Salvini, «con Francesco Rocca mi sono già messaggiato, conto di incontrarlo mercoledì a Roma».
Il neonato Terzo polo ha già stufato
Seduti sulla sponda del fiume, Carlo Calenda e Matteo Renzi sembrano seguire i consigli di Mao Tse Tung: aspettare che lungo il fiume passi il cadavere del nemico. Che non è il centrodestra, ma il centrosinistra. La strana coppia del Terzo polo aveva candidato Letizia Moratti a Milano per portarsi dietro il voto moderato e riformista della sinistra, più che per attrarre voti da destra. La missione è fallita. Azione e Italia viva non sfondano nemmeno a Milano dove pure erano andati bene alle politiche: dai primi scrutini del capoluogo la Moratti prende il 13% con la sua lista (7%) che sopravanza quella degli alleati (6%). Il Terzo polo resta inchiodato in una situazione che non è né carne né pesce, la stessa uscita dalle urne dello scorso 25 settembre: in questo momento Calenda e Renzi non sono in grado di scuotere la maggioranza di governo catturando quella parte di elettori moderati più allergici alla destra estrema. E non sono neppure nelle condizioni di porsi come ago della bilancia, come i partitini della Prima repubblica, che potevano condizionare la nascita di un governo o la spartizione dei posti di comando.
Ma soprattutto Azione e Italia viva non riescono ad approfittare della crisi del loro vecchio partito. È questa la sconfitta più bruciante per Calenda e Renzi, i due ex Pd che non ce le fanno a raccogliere nemmeno i frammenti di una forza politica in briciole. Non basta tambureggiare sui social, non basta farsi vedere in tv, non basta la spocchia di proclamarsi migliori, quelli con le migliori ricette contro i mali del paese. E non basta neppure ripetere ancora una volta, come ha fatto anche ieri Calenda, che «la costruzione di un partito unico del centro riformista, liberale e popolare diventa ancora più urgente». Dannoso per la sinistra in Lombardia, il Terzo polo non ha portato valore aggiunto nemmeno nel Lazio. Il partito resta un mistero irrisolto.
Renzi ieri non si è fatto sentire. Calenda invece non ha resistito alla tentazione twittarola e già attorno alle 17 ha ammesso la sconfitta. «La scelta degli elettori è stata chiara e inequivocabile, vince la destra ovunque», ha scritto sulla piattaforma sociale di Elon Musk, «Il centro e la sinistra non sono mai stati in partita, neanche uniti, neanche nell’ipotetico formato del campo largo». Parole di apprezzamento per una «coraggiosa Letizia Moratti» che «si è spesa moltissimo», tuttavia «fuori dal bacino di voti del Terzo polo non siamo riusciti ad attrarre consensi. Stessa cosa è accaduta ad Alessio D’Amato, cui vanno tutti i nostri ringraziamenti, rispetto al bacino dei voti Pd-Terzo polo». Calenda attribuisce il brutto risultato al «meccanismo bipolare delle elezioni regionali» e «alla minor presenza del voto di opinione». Per il renziano Luigi Marattin, d’altra parte, «la sfida del Terzo polo è ottenere consenso più duraturo». Tempi lunghi per i riformisti.
A polemizzare con Calenda è Giorgio Gori, sindaco dem di Bergamo. «Possiamo a questo punto serenamente dire che la scelta del Terzo polo di sostenere Letizia Moratti è stata una sciocchezza?», ha twittato. «Con il maggioritario a turno secco si è competitivi solo unendo tutto il centrosinistra (sì, pure i 5 stelle). O lo capite o la destra vincerà ogni volta». La replica di Calenda non si è fatta attendere: «Sicuramente non ha funzionato, la questione però è un poco più complessa. La scorsa volta eravamo tutti con te e abbiamo preso meno del 30%». È la fotografia della crisi della sinistra, dove si litiga a oltranza senza strappare un solo voto all’altra parte.
Un’invenzione per danneggiare l’ascesa elettorale di Matteo Salvini: questo è stata l’inchiesta sui presunti soldi dalla Russia alla Lega per la quale ora la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione. Lo dice Andrea Crippa, deputato leghista e vice segretario federale del partito.
Che aria si respira nella Lega? Eravate preoccupati?
«Eravamo già tranquilli prima, perché sapevamo che l’inchiesta era fondata sul nulla e nelle casse della Lega non è mai arrivato un rublo. C’è anche soddisfazione, perché il tempo è galantuomo, come ha detto Salvini, e le verità vengono a galla».
Quindi tutto bene?
«Certo che no. C’è anche profonda amarezza per la narrativa di alcuni giornali e di alcuni media in questi anni tesa a infangare la Lega. In campagna elettorale hanno tenuto banco finti dossier su soldi mai esistiti. Ora tutto cade nel nulla ma il tentativo di danneggiarci non si cancella».
A chi si riferisce?
«Nella scorsa legislatura per due anni esponenti del centrosinistra, soprattutto del Pd e dei 5 stelle, ci hanno additati come un partito corrotto dai russi. Poi effettivamente sono stati trovati dei soldi: erano a Bruxelles nelle valigie di uomini della sinistra e di loro collaboratori, mentre le inchieste sulla Lega vengono archiviate. Constatiamo che nei nostri confronti, soprattutto quando ci sono campagne elettorali, vengono inventate inchieste ad hoc mentre dall’altra parte i soldi si prendono per davvero».
Nel 2019, quando scoppiò lo scandalo, voi eravate al governo con Conte e avevate appena vinto le elezioni europee. Rappresentavate un’incognita per il governo europeo.
«Siamo sempre stati considerati scomodi dai massimi sistemi italiani ed europei, un granello di sabbia che scardina l’ingranaggio perfetto».
Un’indagine a orologeria?
«Come tutte quelle che ci colpiscono: scattano in vista delle campagne elettorali, quando la Lega è forte o quando sta per cambiare governo. Questo ci fa riflettere sul ruolo di una parte della magistratura e su quello di alcuni media».
La notizia fu data dall’Espresso, lo stesso che ha costruito dal nulla un personaggio come Soumahoro senza poi prenderne le distanze quando la magistratura si è interessata degli affari di famiglia.
«L’Espresso, Repubblica, il Fatto quotidiano: sono curioso di leggere che cosa scriveranno adesso sul caso Metropol e se pubblicheranno la notizia dell’archiviazione chiesta dal pm. S’inventeranno qualcos’altro pur di darci contro. Non c’è equilibrio nell’informazione. Restano comunque i fatti: l’inchiesta è destinata all’archiviazione, Salvini è estraneo - ma su questo ci mettevamo tutti la mano sul fuoco - e intanto l’europarlamentare del Pd Panzeri è in prigione, i suoi collaboratori idem, e s’indaga su altri europarlamentari del Partito socialista europeo. Da parte nostra l’onestà e la correttezza nei confronti dei cittadini e degli elettori è provata da trent’anni a questa parte».
Pare che la registrazione dell’incontro di Mosca sia stata consegnata da un avvocato massone: ci sono anche altri poteri coinvolti?
«Poteri oscuri e conniventi con il sistema».
Ha sentito Salvini?
«Ci siamo visti nel pomeriggio, era contento e soddisfatto perché era emersa la verità che abbiamo sempre proclamato».
Anche lei era stato trascinato nelle polemiche.
«Al tempo ero coordinatore del movimento giovanile del partito e avevo organizzato un incontro a Mosca con i coordinatori e i rappresentanti del movimento di Russia Unita».
Il partito di Putin.
«Erano tempi molto diversi dagli attuali. Avevamo firmato un patto di amicizia su alcuni valori, come quello della famiglia tradizionale, che avremmo portato avanti assieme. Per quell’unico incontro anch’io fui additato come emissario dei russi e intermediario per fare arrivare soldi da Mosca alla Lega».
Lei però non fu mai coinvolto in inchieste giudiziarie.
«Certo che no. Però ho subito pesanti attacchi personali che poi si sono rivelati infondati per quell’unico incontro. Poco fa Matteo mi ha ricordato quell’episodio dicendo che il tempo è galantuomo e le verità vengono sempre a galla».
C’è fiducia nella magistratura?
«Ci sono tantissimi magistrati eccellenti, ma non tutti sono così. Non possiamo cancellare i fatti: negli ultimi anni, a ridosso delle campagne elettorali, ci sono arrivati attacchi dalla magistratura e da ambienti vicini che poi si sono rivelati infondati. E i giornali che infangavano noi non si sono accorti che esponenti del Pd e dei socialisti europei prendevano i soldi dal Qatar o dai servizi segreti del Marocco».
Il voto sui membri laici del Csm può essere l’inizio di una nuova fase?
«Deve esserlo. Una fase in cui la magistratura non emette sentenze a orologeria e nel Csm le nomine dei magistrati vengono decise in base a meriti e capacità e non ad appartenenze politiche».
Il caso Palamara ha rivelato una situazione inquietante.
«Dalle intercettazioni abbiamo saputo come funzionava il Csm. E Salvini doveva essere ostacolato perché portava avanti idee sull’immigrazione diverse dal politicamente corretto. Adesso rischia 15 anni per sequestro di persona. Sono processi politici a una persona che da ministro ha portato avanti idee scomode per un certo tipo di sistema».
La morte di papa Benedetto XVI, le critiche alle scelte della Santa Sede relative alle esequie, i prossimi passi di papa Francesco. Ecco il giudizio di Aldo Maria Valli, vaticanista e curatore di un blog molto seguito sul Web, Duc in altum.
Lei ha duramente criticato il cerimoniale delle esequie. Per esempio, il feretro di Benedetto XVI è stato portato in basilica quasi di nascosto e in assenza di rappresentanti ufficiali della Santa Sede. Che cosa c’è dietro questo atteggiamento?
«Se si ritiene che Benedetto XVI sia stato Papa emerito, quindi Papa, il modo in cui è avvenuta la traslazione della salma è inaccettabile. Il tragitto dal monastero alla basilica di San Pietro è avvenuto quasi furtivamente».
A che cosa si riferisce?
«Le spoglie di Benedetto XVI sono state collocate a bordo di un anonimo furgone usato per il trasporto delle merci. Al corteo funebre, formato da monsignor Gänswein e dalle memores, non è intervenuto nemmeno un rappresentante della Santa Sede. Il feretro è entrato in basilica da un ingresso secondario. In Vaticano non è stato proclamato il lutto e le bandiere non sono state esposte a mezz’asta. E mercoledì, con il corpo del Papa emerito a pochi metri di distanza, Francesco ha tenuto l’udienza settimanale come se nulla fosse».
Come lo spiega?
«Capisco che il tutto costituiva una prima volta e capisco anche l’esigenza della sobrietà, chiesta dallo stesso Benedetto XVI, ma mi sembra che ci sia stata una mancanza di rispetto. Tutto ciò è nato dalla necessità di non fare ombra al Papa regnante. Atteggiamento che però ha ottenuto l’effetto contrario».
La messa funebre è stata più veloce di quanto previsto dallo stesso cerimoniale vaticano. Voglia di voltare rapidamente pagina?
«Anche in questo caso ci si è trovati di fronte a una prima volta, che ha trovato gli stessi liturgisti e canonisti alquanto incerti sul da farsi. Tutti i presenti hanno comunque avuto la sensazione di una celebrazione frettolosa: non tanto un omaggio e l’estremo saluto a un grande Papa, ma un’incombenza della quale liberarsi prima possibile. Non fosse stato per la grande affluenza di fedeli, tutto si sarebbe svolto all’insegna di una estrema freddezza. La stessa omelia di Francesco è apparsa distaccata, priva di slancio e di pathos. Ricordo ancora la bellissima omelia di Benedetto XVI nella messa esequiale per “il compianto e amato” Giovanni Paolo II. Da Francesco, per papa Ratzinger, nulla di simile».
Il giorno dopo le esequie, papa Francesco ha annunciato la riforma del Vicariato di Roma nel segno di una maggiore presenza del Pontefice alla guida della diocesi. È un modo anche questo per distogliere l’attenzione mediatica da Ratzinger? O risponde all’esigenza di definire più strettamente il ruolo del Papa come vescovo di Roma?
«Il documento è infarcito di parole alla moda quali sinodalità, pastorale, collegialità, discernimento, ma nella sostanza rafforza il ruolo del Papa come controllore. Qualcuno ha parlato di commissariamento del Vicariato. Non penso che si tratti di un modo per distogliere l’attenzione da Ratzinger: non è con un provvedimento di questo genere che si può raggiungere un tale obiettivo. Vedo piuttosto il desiderio del Papa di prendere in mano una situazione, quella diocesi di Roma, segnata da tanti problemi, non ultimo il caso Rupnik. Il cardinal vicario De Donatis, voluto proprio da Bergoglio, è caduto in disgrazia e Francesco mette nero su bianco che d’ora in poi dovrà fare riferimento in tutto e per tutto al papa. In ballo c’è anche la gestione economica».
Che cosa ci dicono le migliaia di persone che hanno reso omaggio a Benedetto XVI?
«Ci dicono che il Ratzinger dipinto dai mass media, ovvero il “pastore tedesco” arcigno e insensibile, non aveva alcuna relazione con il Ratzinger amato dalla gente, apprezzato come difensore della fede, uomo mite ma anche combattente, ultimo baluardo contro la manipolazione dottrinale, gli abusi liturgici e il trionfo del relativismo morale. Davanti alle telecamere si è visto l’omaggio di un popolo che ha voluto bene a Benedetto XVI e non si è lasciato influenzare dalle interpretazioni tendenziose del suo insegnamento e da certi ritratti ingiusti. Benedetto XVI è stato vittima di una colossale operazione di disinformazione, ma i fedeli non ci sono cascati e lo hanno dimostrato con il loro omaggio pieno di affetto e di stima».
Ha definito «sciagurata» la rinuncia di Ratzinger e l’invenzione della figura del Papa emerito. Perché?
«Sciagurata perché, sebbene il Codice di diritto canonico la preveda, ritengo che Pietro non debba scendere dalla croce cedendo a una visione funzionalista del Papa e del pontificato. Il Papa non è l’amministratore delegato di una società. Con la rinuncia, il suo ruolo è stato burocratizzato e la figura papale è stata secolarizzata. Inoltre è stata introdotta una dicotomia inaccettabile: non può esistere un Pietro governante e un Pietro orante. Né si può pretendere di continuare a essere Papa smettendo però di fare il Papa. La figura del Papa emerito è un monstrum. L’esperimento del papato emerito è fallito sotto ogni punto di vista. Al di là dell’ipocrisia curiale, dei sorrisi e degli abbracci, sono emerse tutte le differenze tra i due Papi, fino all’incompatibilità, e tra i fedeli si è venuta a creare inevitabilmente una polarizzazione».
Le risulta che papa Francesco stia studiando un modo per istituzionalizzare questa figura, magari tenendo ben lontani dal Vaticano i futuri Papi emeriti?
«Alcuni ricercatori e canonisti del Dipartimento di scienze giuridiche dell’università di Bologna sono all’opera con un progetto che si propone di fornire una cornice giuridica al papato emerito, ma anche di meglio precisare il concetto di sede impedita. Le lacune normative sono molte, le questioni da affrontare quanto mai complesse. Non risulta però che in Vaticano siano in corso studi specifici. Papa Francesco nell’intervista al quotidiano spagnolo Abc ha detto di aver già firmato le sue “dimissioni” in caso di “impedimento per motivi di salute” e di aver consegnato il documento all’allora segretario di Stato, cardinale Bertone. Poi ha aggiunto: “Non so a chi l’abbia dato il cardinale Bertone”».
Sbrigativo...
«Un modo molto vago e superficiale di affrontare una questione delicata. In questo modo ha dato un altro contributo alla secolarizzazione del Papa e del papato, come se parlassimo di una qualunque funzione di tipo burocratico-amministrativo e non della roccia su cui Gesù ha voluto fondare la Chiesa».
Senza la presenza di Benedetto, Francesco avrà meno remore nell’introdurre nuove riforme? Quali potrebbero essere?
«Non credo che Francesco abbia mai avuto remore di questo tipo. La prova l’abbiamo avuta con il motu proprio Traditionis custodes che ha di fatto sconfessato il Summorum Pontificum di papa Ratzinger».
Le dimissioni di Francesco sono davvero più vicine?
«Nulla lo lascia pensare. Se da un lato ha detto di aver consegnato quel foglio a Bertone, dall’altro ha detto che si governa con la testa, non con il ginocchio. Il che fa capire che, al momento, per quanto abbia problemi di deambulazione e sia spesso costretto sulla sedia a rotelle, non sta pensando a una rinuncia».
Ha scritto che chi non appartiene alle tifoserie dei «bergogliani» e dei «ratzingeriani» e cerca soltanto di analizzare la situazione vede qualcosa di sconvolgente. Che cosa vede?
«Vedo, come dicevo, un papato sempre più secolarizzato, ma anche svilito. Il modo in cui Francesco ha parlato delle sue possibili “dimissioni”, quasi come se si trattasse di una chiacchiera da bar, e poi il modo in cui sono state trattate le spoglie mortali di Benedetto XVI, all’insegna quasi della sciatteria, mi hanno procurato forte disagio. Al vertice della Chiesa si è perso il senso della dignità di Pietro e del suo primo dovere: confermare i fratelli nella fede. Oggi Pietro insegue il mondo e gioca a fare il cappellano delle organizzazioni globaliste: nulla che abbia a che fare con la sua vera missione. Di fronte a un simile spettacolo qualcuno ha visto in Benedetto XVI l’ultimo salvagente al quale attaccarsi nel mare in tempesta. Ma anche Benedetto XVI, purtroppo, è espressione di quello spirito del Concilio che ha condotto all’apostasia. Ha cercato, è vero, di difendere la tradizione, ma la sua adesione al Concilio, e l’idea che le aberrazioni siano nate da una lettura distorta del Concilio e non dal Concilio stesso, lo rendono compartecipe del disastro. Mi spiace dirlo, perché sotto molti aspetti ho stimato molto il Ratzinger teologo e il Ratzinger papa, ma questa, per quanto spiacevole, è la realtà».
Benedetto XVI ascoltò il grido dei fedeli che volevano Giovanni Paolo II «santo subito». Francesco farà altrettanto?
«Non credo. Francesco agisce sul piano politico. Ogni sua scelta è di matrice ideologica e non si vede che interesse avrebbe, ora, a procedere con una canonizzazione di Ratzinger. Benedetto XVI agì in quel modo perché era stato il principale collaboratore di Giovanni Paolo II e aveva con lui un rapporto specialissimo. Francesco invece, al di là dei sorrisi e delle frasi sul “nonno saggio”, ha sempre sofferto la presenza di Benedetto XVI e l’allungarsi dell’ombra di Ratzinger sul suo regno».





