
Il sito del governo invita le imprese italiane a investire in Russia
Venghino, siori imprenditori italiani. Venghino in Russia, che ci sono bei rubli per voi. Firmato: il governo italiano. Sì, proprio quello di Mario Draghi che ha ancora online sulla pagina «Info Mercati Esteri» dell'esecutivo da piazzista per consigliare alle imprese italiane di correre in Russia a fare grandi affari.
Ci sono lodi sperticate dell'economia russa e della sua complementarietà con quella italiana e addirittura excursus sulle ragioni storiche e culturali per cui l'Italia dovrebbe fare affari con la Russia. Una vera e propria elegia che certo sarà stata scritta prima dello scoppio della guerra in Ucraina, ma che è lì a campeggiare oggi sotto l'ombrello web del governo italiano guidato da Draghi e del ministero degli Affari Esteri guidato da Luigi Di Maio. Diventa davvero difficili con un biglietto da visita così poi andare a tirare le orecchie a qualunque politico abbia avuto in passato rapporti preferenziali con la Russia di Putin: il primo ad averlo fatto è appunto il governo italiano.
Ed è proprio l'esecutivo a spiegare che «la Russia è il principale fornitore di prodotti energetici al mondo ma ha una base industriale e un settore primario ancora relativamente poco sviluppati; l'Italia, al contrario, non dispone di materie prime ma vanta un ampio e diversificato settore manifatturiero ed agro-alimentare. Si tratta di una complementarietà fra i due sistemi produttivi che rende i due Paesi naturali partner economici e commerciali. La complementarietà si riflette non solo nella bilancia commerciale ma anche nelle numerose joint ventures che favoriscono il trasferimento di tecnologia».
Marito e moglie ideali dunque l'Italia di Draghi e la Russia di Putin, di cui si tessono anche particolari lodi: «La modernizzazione del sistema economico è una priorità delle Autorità della Federazione. Ciò riguarda non solo alcuni settori-chiave ad alto contenuto tecnologico, ma anche le infrastrutture, il cui adeguamento è indispensabile allo sviluppo del Paese. Esistono, dunque, opportunità di collaborazione per imprese italiane in numerosi settori». Non solo: «il pubblico russo», continua il sito del governo Draghi, «guarda con estremo favore al prodotto italiano. Il "Made in Italy" è qui sinonimo di qualità, non solo nelle tradizionali "tre A" ("abbigliamento, alimentare, arredamento"), ma anche nei beni strumentali e per l'industria (macchinari e meccanica) e nell'alta tecnologia. Più in generale, esiste un capitale di simpatia da parte russa verso il nostro Paese, legato a questioni storiche e culturali, che può rappresentare un oggettivo vantaggio in termini di cooperazione economica e commerciale».
Sarà per questo che nessuno ha pensato ancora di annullare l'appuntamento che campeggia anche nella pagina dell'Ice dove si annuncia che «L'Ice-Agenzia organizza, in collaborazione con Gimav (Associazione italiana dei fornitori macchine, impianti accessori e prodotti speciali per la lavorazione del vetro) la partecipazione collettiva alla 23esima edizione della Fiera Mir Stekla 2022 che si svolgerà presso l'Expocentre Fairgrounds di Mosca dal 6 al 9 giugno 2022. La fiera rappresenta per le aziende italiane un'ottima occasione per sviluppare nuove relazioni d'affari ed intercettare le esigenze del mercato russo, molto importante per il settore, che incide per il 3,7% sull'export totale e si posiziona tra i primi 10 mercati di destinazione». Sempre l'Ice suggerisce ancora oggi come non sia affatto «da sottovalutare la possibilità di comprendere da vicino le esigenze merceologiche e tecnologiche delle aziende locali, utili per lo studio del posizionamento sul mercato, consolidando l'immagine del Made in Italy di settore e sostenere il rafforzamento della presenza commerciale delle aziende italiane, da sempre riconosciute per le eccellenze tecnologiche».
Nella pagina dell'Ice il notiziario è evidentemente piuttosto recente, altrimenti non si sarebbe puntato su un appuntamento in calendario nella prima parte del prossimo mese di giugno. Si potrà essere corsi in anticipo, e poi nessuno ha pensato bene di aggiornare le informazioni con la nuova situazione internazionale che rende improbabile se non grottesca ogni parola lì scritta. Queste pagine internet però dovevano essere un veicolo di informazioni importanti per le imprese italiane, offrendo informazioni e opportunità per investire all'estero. Che senso ha farle e poi non aggiornarle di continuo con le novità, soprattutto quelle che cambiano radicalmente le condizioni per fare o, in questo caso, evitare di fare investimenti in paesi esteri? È un po’ come se il sito «Viaggiare sicuri» invece di essere aggiornato con le ultime novità paese per paese fornite dalla unità di crisi della Farnesina fosse rimasto ad anni addietro, consigliando magari una bella vacanza in Ucraina.
A proposito, sul portale «Info mercati Esteri» del governo italiano si consiglia esattamente alle imprese italiane di trasferire le loro sedi proprio in Ucraina: «Il basso livello dei salari (mediamente intorno ai 300 Euro al mese) può rappresentare una fattore di interesse per imprese italiane interessate ad opportunità di delocalizzazione».
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.