2019-02-26
Tra gay e migranti sono gli Oscar delle quote
True
La cerimonia di consegna degli Academy si trasforma nella fiera del politicamente corretto. Ecco le grandi battaglie per i diritti dei progressisti di oggi: dividere i premi fra le varie minoranze. E pure nel Pd festeggiano come se avessero vinto una statuetta. L'eclettica Lady Gaga omaggia Audrey Hepburn. Al collo della cantante lo stesso diamante giallo da 30 milioni di dollari indossato dall'attrice in Colazione da Tiffany. La più bella della serata resta Charlize Theron che sorprende con un caschetto castano e un abito azzurro con scollatura profonda sulla schiena. Lo speciale contiene la lista completa dei vincitori sono accorti perfino alcuni celebri studiosi americani dal pedigree tutt'altro che conservatore. Il politologo Mark Lilla, pochi mesi fa, ha centrato perfettamente la questione: «Dopo tante discussioni», ha scritto, «l'unico punto su cui i liberal sono riusciti a trovare un accordo è stata l'identità. L'interesse per la politica estera e l'economia è scomparso, ogni cosa ha preso a ruotare attorno ai nuovi dannati della terra, i discriminati per ragioni etniche o di genere». È più o meno la stessa posizione espressa da Francis Fukuyama in Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (appena pubblicato in Italia da Utet). Il famoso teorico della «fine della storia» ben sintetizza il mutamento antropologico dei progressisti: «Dopo gli événements del maggio 1968», scrive Fukuyama, «gli obiettivi rivoluzionari della vecchia sinistra marxista non sembravano più rilevanti per la nuova Europa che stava emergendo. L'ottica della sinistra si spostò sulla cultura: quel che andava smantellato non era l'esistente ordine politico che sfruttava la classe operaia, ma l'egemonia della cultura e dei valori occidentali che opprimevano le minoranze in patria e, all'estero, nei Paesi in via di sviluppo. [...] La cultura occidentale era vista come l'incubatrice del colonialismo, del patriarcato, della distruzione ambientale». Ecco perché, conclude Fukuyama, «i progressisti oggi non dispongono di strategie ambiziose per affrontare la perdita di posti di lavoro potenzialmente immensa che accompagnerà l'avanzare dell'automazione, o le disparità salariali che la tecnologia potrà portare tra tutti gli americani, bianchi e neri, maschi e femmine». Verissimo: i problemi reali passano in secondo piano, perché al primo posto ci sono le istanze delle minoranze (vere o presunte). Cioè quelle che vengono celebrate ogni anno durante la cerimonia di consegna degli Oscar, la notte in cui la cultura pop si inchina al più trito politicamente corretto. L'edizione 2019 non ha fatto eccezione. Il miglior attore protagonista, Rami Malek, ritirando la statuetta ci ha tenuto a puntualizzare: «Sono figlio di immigrati dall'Egitto, sono un americano di prima generazione, e parte della mia storia è stata scritta proprio adesso». Lo hanno premiato per aver interpretato Freddie Mercury in Bohemian Rhapsody, film che trasforma i Queen nei «paladini della diversità», e Malek ne ha approfittato per calcare la mano: «Abbiamo fatto un film su un omosessuale, un immigrato, che ha vissuto la sua vita in modo assolutamente improbabile». Queste dichiarazioni hanno mandato in sollucchero Simona Bonafè del Pd, che si è precipitata a pubblicarle sul suo profilo Twitter. Altri suoi colleghi democratici, invece, si sono molto eccitati per il premio come miglior film a Green Book, in cui il bravo Mahershala Ali (vincitore della statuetta come miglior non protagonista) interpreta il pianista nero e gay Don Shirley. Secondo il piddino Matteo Richetti è «un film che insegna che essere ultimi è solo una questione di punti di osservazione». Per Francesca Puglisi, Pd pure lei, «dalla notte degli Oscar 2018 arriva un potente messaggio contro il razzismo». Sull'argomento è intervenuto persino Enrico Letta, il quale ha scritto su Twitter: «Vorrei dedicare la vittoria di Green Book e Rami Malek a Matteo Salvini. La scena in cui l'italiano immigrato Tony Vallelonga si fa dare dell'italiano-mezzo negro dal poliziotto razzista dell'Alabama andrebbe proiettata nelle nostre scuole». Notate la tristezza di tutto ciò: per una volta che Salvini non era intervenuto su un argomento, subito Letta corre a tirarlo in ballo. E, per farlo, si esibisce in dediche come se l'Oscar l'avesse vinto lui... Per altro, a tutti costoro è sfuggito un particolare: negli Usa c'è già chi sostiene che Green Book sia razzista, anche perché il regista è il bianco Peter Farrelly. Per la serie: c'è sempre qualcuno più politicamente corretto di te. Comunque sia, la comunità afroamericana ha di che festeggiare. Un bel premio (per la sceneggiatura non originale) è finito nelle mani dell'impegnatissimo Spike Lee. Negli anni passati il regista aveva protestato per l'eccessiva presenza di bianchi fra i vincitori dell'Academy, così lo hanno accontentato. E lui, non pago, ha regalato l'ennesima tirata politica: «Le elezioni presidenziali 2020 sono dietro l'angolo», ha detto. «Mobilitiamoci tutti. Siamo tutti sulla parte giusta della storia. Facciamo la scelta morale tra l'amore e l'odio. Facciamo la cosa giusta». Premi anche a Black Panther, un baraccone Marvel nemmeno troppo divertente, che però parla di un supereroe nero e allora si può anche nobilitare. In quota black pure Regina King, miglior non protagonista in un film dedicato allo scrittore e attivista nero James Baldiwn. In quota latina, invece, la statuetta al messicano Alfonso Cuarón per Roma. Della quota Lgbt abbiamo detto, dunque cosa resta? Ah, già, l'inchino alle «donne perseguitate». Come miglior documentario è stato scelto Period. End of Sentence, pellicola sulle donne indiane che affrontano «lo stigma delle mestruazioni». Se dovete invitare qualcuno al cinema per un primo appuntamento scegliete questo film: successo assicurato... In ogni caso, la spartizione degli Oscar è una delle battaglie che caratterizzano i progressisti di oggi. E, come scrive Francis Fukuyama, qualcuno la vedrà pure come una cosa buona, «ma non contribuirà in alcun modo a riparare le macroscopiche disparità tra l'1% del vertice e il restante 99% della popolazione». Francesco Borgonovo