
Si estende a una delle categorie di dipendenti meno tutelate il prelievo preteso da Cgil, Cisl e Uil per l'impegno profuso nel rinnovo del contratto nazionale: 0,1% di tutte le paghe lorde. Non è obbligatorio ma vale il silenzio assenso. Usb denuncia: «Tassa occulta».Una trattenuta forzosa sulla busta paga, per ricompensare chi ha lavorato per te. È questa la logica «da sceriffo di Nottingham» (come l'hanno definita i sindacalisti dell'Usb) che sta dietro al «contributo di servizio contrattuale» che Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di applicare alle buste paga, già magrissime, dei dipendenti delle cooperative sociali che non risultano iscritti alla triade. Il contributo, secondo le sigle, va a ricompensare il lavoro svolto per il rinnovo del contratto nazionale, sottoscritto per la categoria lo scorso 22 maggio. E poco importa se non c'è stato un mandato diretto, se i risultati alla maggior parte dei dipendenti non sono piaciuti e nemmeno il fatto che l'accordo sia avvenuto tra le contestazioni durissime di tutti i sindacati di base. Senza farsi troppi scrupoli le tre sigle hanno deciso di allungare le mani e applicare una trattenuta pari allo 0,1% della retribuzione lorda annua sulle buste paga di tutti i non iscritti. Una pratica già diffusa, in Italia, ma fino ad ora riservata ad altre categorie. E poiché si tratta in questo caso di oltre 350.000 lavoratori, le cifre potrebbero essere generose.Dove finiranno quei soldi? Secondo i beneficiari «l'utilizzo delle risorse sarà finalizzato al potenziamento delle agibilità dei delegati di posto di lavoro» e le quote verranno versate su un conto corrente intestato a Cisl Fps Federazione lavoratori pubblici e dei servizi, attivo presso la Banca del Fucino. «Dopo aver condotto una trattativa all'oscuro dai lavoratori oggi i tre soci passano dalla cassa a prendere i soldi», ha attaccato l'Usb diffidando, come anche altre sigle, «tutte le cooperative dal trattenere ai lavoratori questa tassa occulta» e invitando i dipendenti a reagire al sopruso. Il contributo, infatti, non è obbligatorio. Ma per la sua applicazione vale la regola del silenzio assenso e dunque, per evitare di vedersi decurtata la busta, il lavoratore deve compilare un apposito modulo con il quale dichiara di negare il proprio consenso, corredato da copia del documento di identità, e consegnarlo al proprio datore di lavoro. Il problema, però è evidente: «Soltanto i più attenti riusciranno a rendersi conto di quel meno zero virgola qualcosa dalla propria busta paga che, sommato alle retribuzioni di tutti i lavoratori del settore, si traduce in migliaia di euro nelle casse di Cgil, Cisl e Uil», sottolinea lo Snalv Confsal, contestando la pratica. «Ci chiediamo se questa è la moralità propagandata dalle organizzazioni confederali e la strada per recuperare una credibilità oramai svanita da tempo», proseguono i sindacalisti. La questione, in effetti, non è da poco, considerate le dure contestazioni seguite alla firma del contratto, concordato dalla triade con Legacoopsociali, Confcooperative e Federsolidarietà. Ad oggi, in Italia, i dipendenti delle cooperative sociali sono tra i meno tutelati, a causa della flessibilità lavorativa che le coop, utilizzate dagli enti pubblici come somministratori di manodopera per la copertura di servizi esternalizzati, pretendono dai propri dipendenti, a volte costretti addirittura a diventare soci. I part time forzati sono all'ordine del giorno e gli inquadramenti previsti, che raramente vengono applicati in base alle mansioni effettivamente svolte, solo nelle figure apicali (di fatto mai presenti) prevedono retribuzioni al di sopra dei minimi salariali annunciati dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio. Il contratto per la categoria era scaduto dal 2011 e nella speranza dei diretti interessati quella di maggio poteva essere l'occasione per modificarne gli aspetti più penalizzanti, come la busta paga superlight e le mancate tutele. Secondo chi lo contesta, «il rinnovo così fatto è stata la certificazione definitiva della subordinazione di Cgil Cisl e Uil alle esigenze delle Centrali cooperative di comprimere diritti e salario per i lavoratori del welfare».Dal canto loro, invece, i confederali si dicono soddisfatti e certi del buon lavoro svolto, a tal punto da pretendere il riconoscimento (monetizzato) da parte di tutti i dipendenti, compresi i non sindacalizzati o gli aderenti ad altre sigle. «Il nuovo contratto conferma la dignità del lavoro e al contempo accoglie elementi di flessibilità organizzativa, quali la banca ore e la stagionalità», spiegano, «e offre tutele ulteriori come il congedo per le donne lavoratrici vittime di violenza», prevedendo un aumento di 80 euro entro settembre 2020 e «l'erogazione di una tantum di 300 euro» a compensazione del periodo di vacatio.
Il signor Yehia Elgaml, padre di Ramy (Ansa)
A un anno dal tragico incidente, il genitore chiede che non venga dato l’Ambrogino d’oro al Nucleo operativo radiomobile impegnato nell’inseguimento del ragazzo. Silvia Sardone: «Basta con i processi mediatici nei loro confronti, hanno agito bene».
È passato ormai un anno da quando Ramy Elgaml ha trovato la morte mentre scappava, su uno scooter guidato dal suo amico Fares Bouzidi (poi condannato a due anni e otto mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale), inseguito dai carabinieri. La storia è nota: la notte del 24 novembre scorso, in zona corso Como, i due ragazzi non si fermano all’«alt» delle forze dell’ordine che avevano preparato un posto di blocco per verificare l’uso di alcolici nella zona della movida milanese. Ne nasce così un inseguimento di otto chilometri che terminerà solamente in via Ripamonti con lo schianto dello scooter, la morte del ragazzo e i carabinieri che finiscono nei guai, prima con l’accusa di omicidio stradale in concorso e poi con quelle di falso e depistaggio. Un anno di polemiche e di lotte giudiziarie, con la richiesta di sempre nuove perizie che sembrano pensate più per «incastrare» le forze dell’ordine che per scoprire la verità di quel 24 novembre.
I governi ricordino che il benessere è collegato all’aumento dell’energia utilizzata.
Quattro dritte ai politici per una sana politica energetica.
1 Più energia usiamo, maggiore è il nostro benessere.
Questo è cruciale comprenderlo. Qualunque cosa noi facciamo, senza eccezioni, usiamo energia. Coltivare vegetali, allevare animali, trasportare, conservare e preparare il cibo, curare la nostra salute, costruire le dimore dove abitiamo, riscaldarle d’inverno e rinfrescarle d’estate, spostarci da un posto all’altro, studiare fisica o violino, tutto richiede l’uso di energia. Se il nostro benessere consiste nella disponibilità di nutrirci, stare in salute, vivere in ambienti climatizzati, poterci spostare, realizzare le nostre inclinazioni, allora il nostro benessere dipende dalla disponibilità di energia abbondante e a buon mercato.
Stéphane Séjourné (Getty)
La Commissione vuole vincolare i fondi di Pechino all’uso di fornitori e lavoratori europei: «È la stessa agenda di Donald Trump». Obiettivo: evitare che il Dragone investa nascondendo il suo know how, come accade in Spagna.
Mai più un caso Saragozza. Sembra che quanto successo nella città spagnola, capoluogo dell’Aragona, rappresenti una sorta di spartiacque nella strategia masochistica europea verso la Cina. Il suicidio chiamato Green deal che sta sottomettendo Bruxelles a Pechino sia nella filiera di prodotto sia nella catena delle conoscenze tecnologiche si è concretizzato a pieno con il progetto per la realizzazione della nuova fabbrica di batterie per auto elettriche, che Stellantis in collaborazione con la cinese Catl costruirà in Spagna.
La Cop30 di Belém, Brasile (Ansa)
Il vertice ospitato da Luiz Inácio Lula da Silva nel caldo soffocante di Belém si chiude con impegni generici. Respinti i tentativi del commissario Wopke Hoekstra di forzare la mano per imporre più vincoli.
Dopo due settimane di acquazzoni, impianti di aria condizionata assenti e infuocati dibattiti sull’uso della cravatta, ha chiuso i battenti sabato scorso il caravanserraglio della Cop30. Il presidente del Brasile Luiz Inácio da Silva detto Lula ha voluto che l’adunata di 50.000 convenuti si tenesse nella poco ridente località di Belém, alle porte della foresta amazzonica, a un passo dall’Equatore. Si tratta di una città con 18.000 posti letto alberghieri mal contati, dove le piogge torrenziali sono la norma e dove il caldo umido è soffocante. Doveva essere un messaggio ai delegati: il mondo si scalda, provate l’esperienza. Insomma, le premesse non erano buone. E infatti la montagnola ha partorito uno squittìo, più che un topolino.





