
Chi è Edoardo Mercadante, salito al 5% di Unicredit con il fondo Parvus
Edoardo Mercadante con il suo fondo londinese Parvus ci riprova. Per la seconda volta, sempre su banche e in Italia. Dopo l’investimento in Ubi, dove era arrivato a detenere oltre l’8% e che ha finito per consegnare i titoli a metà del 2020 nell’Opa di Intesa sulla banca bergamasca-bresciana, ora eccolo spuntare quasi a sorpresa dal 6 maggio nell’azionariato di UniCredit, con una quota del 5,059% di Unicredit attraverso il fondo Parvus Asset Management.
Nei giorni precedenti la comunicazione alla Consob del 16 maggio, l’hedge fund si era già portato al 5,2%, anche grazie a un contratto di prestito titoli sullo 0,89% del capitale, partecipazione poi limata definitivamente al 5,059%. Di fatto Parvus con i suoi fondi diventa il secondo socio forte di UniCredit, la public company per eccellenza tra le banche italiane. E come nel caso di Ubi, dove aveva rastrellato titoli fino a divenire il secondo socio forte dopo Silchester, anche per UniCredit fioccano gli interrogativi.
GLI INTERROGATIVI
Chi è Mercadante? Si muove come un normale investitore alla ricerca di rendimenti o punta ad altro? C’è qualcuno dietro di lui? Domande che erano emerse con forza nel caso di Ubi, dove molti pensavano che dietro a Mercadante, finanziere franco-italiano, 55enne ex Merril Lynch e fondatore di Parvus asset management Ltd nel lontano 2004, ci fossero alcuni soci forti delle compagini bergamasca-bresciana che si erano opposti all’operazione di acquisizione della terza banca italiana da parte di Intesa.
Spuntarono esposti e anche un fascicolo presso la Procura di Milano. Finì tutto in una bolla di sapone. I soci forti, riottosi alla conquista di Ubi, consegnarono i titoli a Intesa e con loro anche la quota di oltre l’8% gestita da Parvus. Pensare a un possibile scalatore è pura fantafinanza. UniCredit per le dimensioni, oltre 21 miliardi di capitalizzazione, non è facilmente aggredibile.
La quota di Parvus vale poco più di 1 miliardo. Mercadante nelle scarne dichiarazioni rilasciate ai tempi di Ubi e ora di UniCredit sostiene di essere un fondo che opera su strategie long only e di individuare titoli che ritiene sottovalutati per portare a casa plusvalenze. Del resto la presenza di Parvus in UniCredit non data dai primi di maggio, quando dalle comunicazioni Consob diffuse l’altro ieri, è emersa la quota di poco più del 5% raggiunta il 6 maggio scorso.
Parvus era già nel capitale della banca di Piazza Gae Aulenti da anni. Nell’assemblea di UniCredit del dicembre 2017, con Mustier da poco alla guida della banca, Parvus compare con una quota piccola, di meno di 20 milioni di titoli della banca (poco meno dell’1%) posseduto da suoi due fondi, il Parvus euro Absolute opportunities e il Parvus euro opportunities master fund. Quote da puro investitore finanziario. Posizione che crescerà a piccole dosi. Nell’ultima assemblea a guida Orcel dell’8 aprile scorso la quota nei fondi Parvus raddoppia a 40 milioni di azioni, cui si aggiungono altri 10 milioni di titoli in capo a un altro fondo di Parvus, l’Armadillo fund, fondo della scuderia londinese di Mercadante ma domiciliato alle Cayman.
Quindi ancora ad aprile scorso Parvus nel complesso aveva racimolato 50 milioni di azioni UniCredit, una quota intorno al 2,5% e quindi ancora sottotraccia nelle comunicazioni al mercato. Poi evidentemente ecco lo strappo con gli acquisti del 6 maggio che hanno portato Mercadante a divenire il secondo socio forte di UniCredit rendendo visibile la sua posizione. Gli ultimi acquisti sono stati fatti con il titolo ai suoi minimi di poco più di 8 euro, dopo lo choc dell’esposizione di UniCredit in Russia che ha portato tra l’altro a una svalutazione di bilancio di oltre 1,3 miliardi nei conti del primo trimestre.
LA GALOPPATA
Evidentemente Mercadante confida che la cura di Andrea Orcel, pulito il bilancio dalle scorie russe, possa dare slancio al titolo. In effetti UniCredit dopo la galoppata pre-guerra che aveva portato il titolo a quota 15 euro, ha subito più di altri il contraccolpo della guerra in Ucraina. Ma l’avvio proprio oggi dell’atteso buy back da 1,6 miliardi, la politica dei dividendi da 16 miliardi nei prossimi 4 anni promessi da Orcel e il recupero dei ricavi messi già a segno dal banchiere romano nel primo anno alla guida di UniCredit, fanno sperare in un re-rating del titolo. Per ora però la posizione costruita da Parvus nel tempo è ancora in rosso, vista la caduta del titolo UniCredit di oltre il 40% negli ultimi 5 anni.
È plausibile che i primi pacchetti acquisiti già prima del 2017 siano in carico a prezzi ben più alti degli attuali corsi di Borsa. Già ma come opera in genere Parvus? Di solito costruisce le sue posizioni con derivati, tramite equity swap che gli danno posizioni lunghe sui titoli. L’ha fatto con Ubi ad esempio. In Ubi la sua scommessa l’ha vinta sicuramente regalando ai suoi investitori una sonora plusvalenza.
Per UniCredit occorrerà aspettare per rivedere il titolo ai livelli pre-guerra. Dati su performance, risultati, masse in gestione sono difficili da reperire. Per Parvus, come per tutti gli hedge fund, i rendiconti sono forniti solo ai clienti. Secondo la ricostruzione di alcuni siti finanziari inglesi Parvus sarebbe accreditata di 4,5 miliardi di sterline di masse gestite tra i suoi fondi.
HEDGE FUND
La sede londinese è in 7 Clifford Street, dove Mercadante condivide l’indirizzo con un altro gestore di hedge fund, ben conosciuto nel mondo della finanza Oltremanica. Quel Chris Hohn fondatore tra le altre cose del The Children Investment fund e noto per le sue iniziative caritatevoli. Una passione che condivide con Mercadante che compare come Trustee nella CrEdo Foundation, un ente benefico attivo sulle povertà in genere. L’ultimo rendiconto consultabile del 2019 ha visto donazioni per 93mila sterline, di cui 86mila devolute in iniziative benefiche.
L’anno prima le donazioni furono di 106mila sterline. Spesi in beneficienza solo 53 mila con un utile di importo analogo. Mercadante con i suoi fondi è particolarmente attivo nei paesi nordici e anglosassoni. Ha battagliato come investitore attivista sul titolo delle scommesse sportive William Hill e si è opposto come azionista di G4s con il 3,7% alla conquista della danese Iss. La stampa irlandese di recente l’ha accreditato come azionista con meno del 3% della compagnia aerea Ryanair. Anche in questo caso evidentemente Mercadante si attende un ritorno alla piena redditività della compagnia aerea dopo gli sconquassi del Covid, che ridarebbe forza in Borsa al titolo.
Quanto alla sua società di gestione che annovera una dozzina di fondi pare che le cose non vadano affatto male. Secondo la banca dati di S&P Global Market Intelligence, la sua Parvest Asset Management Europe Ltd avrebbe avuto ricavi nel 2020 per 86 milioni di sterline con utili netti per 47 milioni. Negli ultimi 6 anni ha incrementato di tre volte i ricavi da commissioni di gestione con un utile passato da 18 milioni del 2015 ai 47 milioni del 2020.
Nel 2025 i mutui a tasso variabile hanno visto un calo medio delle rate, mentre i fissi sono lievemente aumentati. Gli esperti sottolineano che la scelta dipende dal profilo del mutuatario e dalle proprie esigenze di rischio e stabilità.
Il bilancio dell’anno, anche dopo l’ultima decisione della Bce di lasciare i tassi invariati, racconta una dinamica chiara: chi ha un mutuo a tasso variabile ha visto (o sta vedendo) un alleggerimento delle rate, mentre sul fronte dei fissi le condizioni si sono leggermente irrigidite.
Secondo i calcoli di Facile.it, il 2025 si chiuderà con un calo di circa 50 euro per la rata mensile di un mutuo variabile standard, scesa da 666 euro di inizio anno a circa 617 euro. Un movimento coerente con il progressivo rientro delle componenti di costo indicizzate (Euribor) e con l’aspettativa di stabilizzazione di breve periodo.
Sul versante dei mutui a tasso fisso, il 2025 è stato invece caratterizzato da un lieve aumento dei costi per i nuovi mutuatari, in larga parte legato alla risalita dell’indice IRS (il riferimento tipico per i fissi). A gennaio 2025 l’IRS a 25 anni è stato in media pari a 2,4%; nell’ultimo mese è arrivato al 3,1%. L’effetto, almeno parziale, si è trasferito sulle nuove offerte: per un finanziamento standard la rata risulta oggi più alta di circa 40 euro rispetto a inizio anno.
«Il 2025 è stato un anno positivo sul fronte dei tassi dei mutui: i variabili sono scesi a seguito dei tagli della Bce, mentre i fissi, seppur in lieve aumento, offrono comunque buone condizioni per chi vuole tutelarsi da possibili futuri aumenti di rata. Oggi, quindi, l’aspirante mutuatario può godere di un’ampia offerta di soluzioni: scegliere il tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», spiegano gli esperti di Facile.it
Guardando in avanti, un’indicazione operativa sui variabili arriva dai Futures sugli Euribor (aggiornati al 10 dicembre 2025): per il 2026 non vengono prezzate grandi variazioni. L’Euribor a 3 mesi, oggi sotto il 2,1%, è atteso su livelli simili anche nel prossimo anno.
«In questo momento il mercato non prevede ulteriori tagli da parte della BCE nel 2026 e al netto di qualche piccola oscillazione al rialzo verso fine anno, nei prossimi 12 mesi le rate dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili», continuano gli esperti di Facile.it
Lo snodo resta l’inflazione: se dovesse tornare ad accelerare, non si potrebbero escludere nuove mosse restrittive della Bce, con un impatto immediato sugli indici e quindi sulle rate dei variabili. Più difficile, invece, «leggere» i fissi: finché i rendimenti dei titoli europei resteranno in salita, è complicato immaginare una traiettoria diversa per gli Irs e, a cascata, per i mutui collegati.
Per chi deve scegliere adesso, lo scenario è nettamente diverso rispetto a inizio anno. Nel 2025, il tasso variabile è tornato mediamente più conveniente. Secondo l’analisi** di Facile.it sulle migliori offerte online, per un mutuo da 126.000 euro in 25 anni (LTV 70%) i variabili partono da un TAN del 2,54%, con rata di 554,5 euro. A parità di profilo, i fissi partono da un TAN del 3,10%, con rata di 604 euro: circa 50 euro in più al mese.
«Scegliere oggi un tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», concludono gli esperti di Facile.it.
La Coppa d’Africa non è solo calcio. È una vetrina politica e culturale con cui Rabat rivendica un nuovo ruolo: africano per storia, occidentale per infrastrutture e governance. In vista del Mondiale 2030, il Paese si propone come hub tra Africa ed Europa, usando lo sport come leva di potere e immagine.
La Coppa d’Africa, che si è da poco aperta e finirà gennaio in Marocco, non è soltanto un torneo continentale. È una dichiarazione politica. È una messa in scena accurata. È il modo con cui Rabat prova a raccontare al mondo chi vuole essere nei prossimi vent’anni. Il calcio, in questo disegno, non è un fine. È uno strumento. Serve a mostrare infrastrutture, capacità organizzativa, stabilità istituzionale. Serve a posizionare il Paese come interlocutore affidabile tra Africa, Europa e mondo arabo.
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
A trentasette anni appena compiuti, Chen Zhi viene indicato dagli inquirenti come l’architetto occulto di una gigantesca macchina di frodi digitali, descritta come un sistema criminale costruito sullo sfruttamento sistematico delle vittime. L’aspetto giovanile, il volto quasi infantile e la barba curata contrastano con l’immagine dell’uomo che, in pochissimo tempo, avrebbe accumulato una ricchezza smisurata. Nell’ottobre scorso il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti lo ha formalmente incriminato, accusandolo di aver orchestrato dalla Cambogia un colossale schema di truffe in criptovalute, capace di sottrarre miliardi di dollari a persone sparse in tutto il mondo. Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro americano ha annunciato il sequestro di circa 14 miliardi di dollari in bitcoin riconducibili, secondo le autorità, alla sua rete: il più imponente congelamento di asset digitali mai registrato. Sul sito ufficiale del suo conglomerato, la Cambodian Prince Group, Chen Zhi viene presentato come un imprenditore rispettato e un benefattore di primo piano, capace di trasformare l’azienda in uno dei gruppi più influenti del Paese, allineato – si legge – ai parametri internazionali. Interpellata per un commento, la società non ha rilasciato dichiarazioni. Resta dunque aperta la domanda centrale: chi è davvero Chen Zhi, l’uomo che secondo le accuse avrebbe costruito un impero fondato sulle truffe online?
Originario della provincia cinese del Fujian, nella parte sud-orientale del Paese, Chen Zhi avrebbe mosso i primi passi imprenditoriali nel settore dei giochi online, con risultati tutt’altro che eclatanti. Tra il 2010 e il 2011 si trasferì in Cambogia, inserendosi in un mercato immobiliare allora in piena ebollizione. Il suo arrivo coincise con l’esplosione di una bolla speculativa alimentata dall’afflusso di capitali cinesi e dalla disponibilità di ampie porzioni di territorio sottratte alle comunità locali e finite nelle mani di figure politicamente ben introdotte. Una parte consistente di quei fondi derivava dall’espansione internazionale dei progetti infrastrutturali cinesi legati alla Belt and Road Initiative, mentre altri capitali provenivano da investitori privati alla ricerca di sbocchi meno costosi rispetto al mercato immobiliare cinese, ormai surriscaldato. A questo si aggiunse l’aumento vertiginoso del turismo proveniente dalla Cina.
Phnom Penh cambiò volto in pochi anni: il profilo urbano, un tempo dominato da edifici coloniali bassi e color ocra, lasciò spazio a una distesa di torri in vetro e acciaio. Ancora più drastica fu la metamorfosi di Sihanoukville, ex località balneare tranquilla, trasformata in un polo di casinò, hotel di lusso e complessi residenziali. Qui confluirono non solo turisti e investitori, ma anche giocatori d’azzardo, spinti dal divieto di gioco vigente in Cina. In questo contesto, la rapida ascesa di Chen Zhi apparve fuori scala. Nel 2014 ottenne la cittadinanza cambogiana, rinunciando a quella cinese, un passaggio che gli consentì di intestarsi direttamente terreni e proprietà, a fronte di un contributo minimo di 250 mila dollari allo Stato. L’origine dei suoi capitali rimase però opaca. Nel 2019, aprendo un conto bancario sull’Isola di Man, dichiarò di aver ricevuto due milioni di dollari da uno zio non meglio identificato per avviare la sua prima operazione immobiliare. Nessuna prova documentale è mai emersa a sostegno di questa versione.
Il Prince Group nacque ufficialmente nel 2015, quando Chen Zhi aveva soltanto 27 anni, con un focus iniziale sul real estate. Tre anni dopo ottenne una licenza bancaria per creare la Prince Bank. Nello stesso periodo acquisì la cittadinanza cipriota, in cambio di un investimento di almeno 2,5 milioni di dollari, aprendo così le porte dell’Unione Europea. Successivamente ottenne anche il passaporto di Vanuatu. Nel giro di pochi anni il gruppo si espanse in settori sempre più diversi: compagnie aeree, centri commerciali di fascia alta, hotel a cinque stelle e progetti faraonici come la cosiddetta “Baia delle Luci”, una eco-città dal valore stimato di 16 miliardi di dollari. Nel 2020 Chen Zhi ha ricevuto dal sovrano cambogiano il titolo onorifico di “Neak Oknha”, il più elevato riconoscimento del Paese, riservato a chi effettua donazioni significative al governo.
In quella fase, ha consolidato relazioni politiche di altissimo livello: consigliere del ministro dell’Interno Sar Kheng, partner d’affari del figlio Sar Sokha, e collaboratore diretto di Hun Sen e, successivamente, di Hun Manet dopo la sua ascesa alla guida del governo nel 2023. I media locali lo hanno celebrato come mecenate, lodando il finanziamento di borse di studio e le donazioni durante l’emergenza Covid. Nonostante ciò, Chen Zhi è rimasto una figura schiva, poco incline alle apparizioni pubbliche. Secondo il giornalista Jack Adamovic Davies, autore di una lunga inchiesta su di lui, chi lo ha incontrato lo descrive come una persona pacata, educata e capace di esercitare un’autorità silenziosa. Una discrezione che, col senno di poi, potrebbe aver contribuito a schermarlo da attenzioni indesiderate. Il punto di svolta arriva nel 2019, con il crollo della bolla immobiliare a Sihanoukville. Il settore del gioco d’azzardo online attirò organizzazioni criminali cinesi, scatenando violenti conflitti tra bande e allontanando i turisti. Sotto la pressione di Pechino, il governo cambogiano vietò il gioco online nell’agosto di quell’anno. Centinaia di migliaia di cittadini cinesi lasciarono la città, e interi complessi residenziali rimasero vuoti. Eppure, nonostante il tracollo, Chen Zhi ha continuato ad comprare beni di lusso e a espandere il proprio raggio d’azione. Secondo le autorità occidentali, avrebbe investito decine di milioni in immobili a Londra, New York, jet privati, yacht e opere d’arte, tra cui un dipinto attribuito a Picasso.
Per Stati Uniti e Regno Unito, l’origine di questa ricchezza risiede nell’industria criminale più redditizia dell’Asia contemporanea: la frode online, alimentata da traffico di esseri umani e sofisticati sistemi di riciclaggio. Le sanzioni imposte colpiscono oltre cento società e numerosi individui legati al Prince Group, descrivendo una rete globale di società di comodo e portafogli digitali usati per occultare i flussi finanziari. Al centro delle accuse figurano complessi come il Golden Fortune Science and Technology Park, vicino al confine vietnamita, dove – secondo testimonianze raccolte – lavoratori provenienti da diversi Paesi sarebbero stati trattenuti con la forza e costretti a perpetrare truffe informatiche. Oggi, dopo l’annuncio delle sanzioni, banche e governi regionali prendono le distanze dal gruppo. Le autorità cambogiane cercano di rassicurare i risparmiatori, mentre Singapore e Thailandia avviano verifiche sulle attività locali. Resta però difficile immaginare un netto distacco dell’élite di Phnom Penh da un uomo con cui i legami sono stati così stretti per anni. Di Chen Zhi, intanto, si sono perse le tracce. L’uomo che fino a poco tempo fa figurava tra i più influenti del Paese sembra essersi dissolto, lasciando dietro di sé un intreccio di potere, denaro e accuse che ora scuote l’intera Cambogia.











