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2021-10-19
A parte Trieste il centrosinistra si prende tutte le altre città
Roberto Gualtieri e Stefano Lo Russo (Ansa)
Roberto Dipiazza e la sua Trieste regalano un sorriso al centrodestra che dai ballottaggi di queste amministrative dell'era Covid si aspettava un risultato decisamente migliore. Primo imputato l'assenteismo e forse i candidati civici scelti all'ultimo momento. Eppure a Trieste, mentre venivano usati gli idranti contro chi protestava al porto, i cittadini, almeno la metà, hanno deciso di tornare alle urne per riconfermare sindaco Roberto Dipiazza con una percentuale del 51,30% contro Francesco Russo del centrosinistra che non è andato oltre il 48,7%. L'affluenza definitiva al ballottaggio è stata del 42%. «Sono l'unico sindaco di centrodestra che ha portato avanti la bandiera in Italia, una gran bella soddisfazione», ha detto il neo eletto, «Mi hanno telefonato tutti da Salvini a Meloni a Berlusconi. Oggi sono un po' l'eroe di centrodestra, ma me lo hanno detto loro, non lo sto dicendo io», scherza, e aggiunge: «Ricominciamo da Trieste».
Dipiazza, che è stato uno storico esponente di Forza Italia, ma si è ripresentato alla città a guida di una lista civica sostenuta dalle forze di centrodestra, si conferma quindi, a 67 anni, per la quarta volta primo cittadino della città giuliana. Aveva già ricoperto l'incarico di primo cittadino per due mandati, dal 2001 al 2011, sempre per il centrodestra, poi dopo una parentesi come consigliere regionale, annoiatosi della scarsa effervescenza in Consiglio e in assenza di un purosangue da candidare nel centrodestra, si è gettato nuovamente nella mischia. E ha vinto una terza volta, contro il sindaco di centrosinistra Cosolini, e stavolta, contro un agguerrito e benvoluto Francesco Russo. Ad annunciare la vittoria lo stesso sindaco Dipiazza, nel corso di un primo collegamento telefonico quando mancavano ancora i risultati di sei sezioni: «Ho vinto e questa è una cosa che non dimenticherò mai e farò sempre di tutto per la mia città con grande amore». Grande fair play anche con l'avversario che partiva da uno svantaggio del 16% al primo turno: «Mi sono complimentato con Russo per il recupero. L'ho sentito e gli ho fatto una proposta: gli ho detto che sul porto vecchio lavoreremo insieme. Sul resto potrà fare opposizione ma sul porto vecchio, visto che è stato uno dei promotori, lavoreremo insieme».
Russo, il candidato del centrosinistra, autore tuttavia di una incredibile rimonta, si è detto comunque soddisfatto: «Sono soddisfatto del Pd e del centrosinistra al ballottaggio: abbiamo recuperato quasi 15 punti di distacco, quindi l'impresa c'è stata. Evidentemente non siamo riusciti a spiegare la novità di un messaggio, di un nostro progetto per il futuro. Ci siamo e continueremo a lavorare per questo. Credo comunque che una volta in Consiglio comunale, se ci sono le condizioni, ci si possa venire incontro».
A Trieste non c'è stato nessun apparentamento in vista del ballottaggio ma Russo ha incassato il sostegno di Riccardo Laterza, terzo classificato tra gli aspiranti sindaci, e di Tiziana Cimolino. Al primo turno, Laterza aveva ottenuto quasi il 9% di preferenze con la lista Adesso Trieste, mentre le due liste di Cimolino (Europa Verde e Sinistra in Comune) si erano fermate all'1,67%. Numeri alla mano, sarebbe servito qualcosa in più per ribaltare il risultato della prima tornata elettorale. Il Movimento 5 stelle, che ha preso meno voti del Movimento 3V di Ugo Rossi, non si è speso per nessuno dei due candidati arrivati al ballottaggio lasciando libertà di scelta ai suoi elettori. Anche qui, come in altre città, il peso dell'astensione al voto del 3 e 4 ottobre si è fatto sentire: solo il 46% degli aventi diritto si è recato alle urne due settimane fa. Gli astenuti avrebbero avuto l'onere di confermare o ribaltare il voto del primo turno.
«Congratulazioni a Roberto Dipiazza rieletto sindaco di Trieste. Il suo buongoverno degli ultimi cinque anni è stato premiato. La sua scelta, come quella di Roberto Occhiuto in Calabria, conferma che i candidati di Forza Italia sono vincenti. Buon lavoro!», ha scritto su Twitter Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia.
Non si esalta ma resta obiettivo sul risultato il leader della Lega, Matteo Salvini: «Nelle tre grandi città, Roma, Torino e Trieste, chi governava ha confermato i propri sindaci», ma proprio su Trieste ha rimarcato il problema della sicurezza e la gestione del Viminale anche nei confronti della protesta nel porto triestino: «Che il ministro dell'Interno usi gli idranti contro i lavoratori e i guanti di velluto contro gli squadristi, mi stupisce e mi preoccupa. È stato fatto in maniera strumentale per le elezioni amministrative? Spero di no, ma in ogni caso l'errore mi sembra evidente». Poi Salvini è entrato nel vivo della protesta dei portuali: «Lamorgese mi spieghi perché lascia tranquillamente assediare istituzioni a Roma gente che per legge non poteva essere a piede libero e ordini di usare idranti e lacrimogeni contro i portuali e gli studenti seduti per terra, a Trieste. Non mi sembra normale, c'è qualcosa che non funziona. Ribadisco a Draghi la mia richiesta: facciamo un incontro con il ministro Lamorgese, perché le prossime settimane non saranno facili se la gestione dell'ordine pubblico sarà così schizofrenica».
Onda rossa pure a Latina e Varese. A Benevento Mastella beffa il Pd
Nella tornata elettorale con l'astensionismo più elevato di sempre, il ballottaggio delle elezioni amministrative nei centri capoluogo si è concluso con qualche colpo di scena e diverse conferme. Il comune denominatore è però uno: la vittoria, quasi ovunque, del centrosinistra, anche laddove il primo turno lasciava presagire possibilità diverse. Per esempio, a Cosenza il candidato del centrodestra e già vicesindaco, Francesco Caruso, che il 3 e il 4 ottobre era risultato il più votato con il 37,4% dei voti, è stato poi sconfitto da Franz Caruso del centrosinistra, che stavolta ha raccolto il 57,6% dei consensi. Da notare come il vincitore, dopo il primo turno, abbia incassato l'endorsement della candidata sindaco del M5s, Biancamaria Rende. Un supporto che, evidentemente, si è rivelato qualcosa più di una semplice promessa.
La musica è stata diversa a Benevento, dove l'inossidabile Clemente Mastella, sostenuto da molte liste civiche e un pezzo di Forza Italia, se da un lato al primo turno non l'aveva spuntata per un soffio, ieri ha chiuso i conti con l'avvocato Luigi Diego Perifano del centrosinistra, attraverso una vittoria netta, con il 52,7% dei consensi. L'ex ministro ha descritto il suo successo con toni enfatici, dipingendolo come una vittoria contro le élite, a suo dire capeggiata da «una loggia che la gente ha sconfitto». «Hanno fatto una squadra contro di me e contro il popolo di Benevento, un'arca di Noè illogicamente immorale dove si sono ritrovate la destra e l'estrema sinistra», ha dichiarato, senza risparmiare una frecciata al leader dem: «Mi dispiace che Letta sia venuto qua a condire tutto questo».
Di trionfo si può parlare invece a Savona per Marco Russo, avvocato candidato sindaco del centrosinistra, che con oltre il 62% dei voti ha staccato nettamente il rivale del centrodestra, l'ex primario Angelo Schirru, che non è arrivato al 38%; e pensare che il candidato pentastellato locale, Manuel Meles, che aveva ottenuto quasi il 10% dei voti, non aveva dato indicazioni di voto.
Risultato chiaro anche a Isernia, con Piero Castrataro del centrosinistra che ha sfiorato il 59% dei consensi, a scapito di Gabriele Melogli (41,3%), appoggiato da Forza Italia, Udc e Lega, ma non da Fratelli d'Italia, che aveva espresso un suo candidato in Cosmo Tedeschi, arrivato terzo con il 15% dei consensi. Considerando che al primo turno era stato Melogli a prevalere, anche se con meno di 300 voti, almeno sulla carta la partita di Isernia pareva apertissima, invece la vittoria di Castrataro tutto è stata fuorché al fotofinish.
Un'amara sorpresa, per il centrodestra, è stata anche quella di Latina, dove al primo turno Vincenzo Zaccheo, ex attivista del Movimento sociale italiano e poi deputato di Alleanza nazionale, era in vantaggio con oltre il 48% dei consensi sul sindaco uscente, Damiano Coletta. Coletta però ha saputo risollevarsi dal 35,6% a un rassicurante 55%, che gli ha consentito una vittoria non scontata.
Anche Varese, un tempo roccaforte del centrodestra e della Lega, essendo stata governata dal 2006 al 2016 dall'attuale governatore lombardo, Attilio Fontana, ha visto la vittoria del centrosinistra. Il sindaco uscente, Davide Galimberti, sostenuto dal centrosinistra e dal M5s, ha infatti raccolto il 53,2% dei consensi, confermando gli scenari del primo turno e superando il rivale del centrodestra, Matteo Luigi Bianchi (46,8%), ex sindaco di Morazzone.
Il centrosinistra l'ha spuntata anche a Caserta, dove pure la contesa si annunciava molto aperta, dato che il 4 ottobre il sindaco uscente, Carlo Marino, aveva ottenuto circa il 32% dei voti mentre il suo rivale di centrodestra, Gianpiero Zinzi, avvocato capogruppo della Lega in consiglio regionale, si era fermato a poco meno del 28% dei voti. Alla fine però Marino ce l'ha fatta con il 53,7% dei consensi, costringendo Zinzi a fermarsi al 46,3%.
Se ne ricava una geografia elettorale chiara e che, come già si diceva, vede il centrosinistra vincente in quasi tutti i Comuni, anche dove - come Cosenza o Latina - gli equilibri iniziali erano sfavorevoli. Che ciò sia dovuto all'astensionismo oppure a un elettorato, quello moderato, tradizionalmente meno militante e quindi più difficile da trascinare al voto in generale, figurarsi ai ballottaggi, cambia relativamente. Ora al centrodestra spetta il compito di costruire un'opposizione compatta Comune per Comune, cercando di ricreare maggiore unità tra gli alleati.
Vince Gualtieri, ora è caccia alla sua poltrona
Finisce 60 a 40 per Roberto Gualtieri la sfida per il Campidoglio: l'ex ministro dell'Economia è il nuovo sindaco di Roma. Gualtieri supera al ballottaggio il candidato del centrodestra, Enrico Michetti, rimontando il risultato del primo turno: quindici giorni fa il neosindaco aveva ottenuto il 27% dei voti, il suo avversario il 30%. Evidentemente, gli elettori che al primo turno avevano sostenuto i due candidati esclusi, il sindaco uscente Virginia Raggi e Carlo Calenda, sono andati a votare per Gualtieri. Enorme il dato dell'astensione: al ballottaggio per l'elezione del sindaco di Roma ha votato il 40,68% degli aventi diritto, rispetto al 48,54% del primo turno. Siamo di fronte al record dell'astensionismo: mai, dal 1993, quando è stata introdotta l'elezione diretta dei sindaci, i romani avevano disertato così in massa le urne. Il dato peggiore, fino a ieri, era il 45,65% del 2013, quando Ignazio Marino ebbe la meglio su Gianni Alemanno.
«Ringrazio le romane ed i romani», dice Gualtieri, «per questo risultato così significativo, sono onorato della fiducia che mi è stata accordata. Metterò tutto il mio impegno per onorarlo. Ringrazio anche il mio avversario, Enrico Michetti, che ha contribuito a tenere civili i toni della campagna elettorale, Virginia Raggi per l'impegno profuso in questi anni e Carlo Calenda per il contributo di idee. Adesso inizia un lavoro straordinario, per far funzionare meglio Roma, per essere una città produttiva, una città della cultura, della scienza, dell'innovazione, vicina alle persone. Sarò il sindaco di tutti», aggiunge Gualtieri, «di chi mi ha votato, di chi ha votato per altri, di chi non ha votato. Ora inizia un lavoro di straordinaria intensità per rilanciare Roma e farla funzionare meglio, farla crescere, creare nuova occupazione. Una città più inclusiva, campione della transizione ecologica, motore di innovazione e sviluppo».
Gualtieri raggiunge la sede del Pd, al Nazareno, per il canonico abbraccio con i dirigenti dem, tra i quali il segretario Enrico Letta: «Dopo una vittoria cosi superiore a qualsiasi aspettativa», commenta Letta, «che va oltre il voto per le città, noi potremmo avere interesse ad andare subito al voto nazionale per cogliere l'onda. Ma la nostra forza sta nel fatto di non andare dietro ad interessi di parte. Quindi dico qui che questo voto rafforza il governo Draghi». Più che ai massimi sistemi, Letta farebbe bene a dedicarsi alla guerra di successione tutta interna alla sinistra che si è già aperta per accaparrarsi il seggio alla Camera che verrà lasciato libero dal neosindaco Gualtieri. Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno proposto di candidare l'ex segretario della Fim Cisl, Marco Bentivogli,ma il M5s potrebbe insistere per Virginia Raggi.
Laconico il commento del candidato del centrodestra, Enrico Michetti: «Faccio gli auguri al sindaco», afferma Michetti, «perché Roma è la cosa più importante, credo che abbiamo dato il massimo e in queste condizioni abbiamo fatto ciò che si poteva».
All'insegna del sano pragmatismo e del galateo politico il commento del leader della Lega, Matteo Salvini: «Gli elettori hanno sempre ragione», argomenta Salvini, «quindi se a Roma ha vinto Gualtieri, buon lavoro a Gualtieri. Penso al ruolo dei politici ma anche a quello dei giornalisti quando nell'ultimo mese di campagna elettorale si parla di vicende private, di abitudini sessuali e di assalti fascisti. Nelle tre grandi città, Roma, Torino e Trieste», aggiunge Salvini, «chi governava ha confermato i propri sindaci». Il leader del Carroccio riflette anche sul dato dell'astensionismo: «Se uno viene eletto da una minoranza della minoranza», tiene a sottolineare Salvini, «è un problema non per un partito, ma per la democrazia. Avremmo preferito vincere a Roma, piuttosto che perdere, ma i cittadini hanno sempre ragione quando scelgono, ma il dato su cui ragionare è il non voto, che in alcuni quartiere ha superato il 70%».
«Il lavoro fatto da Michetti e Damilano (il candidato sindaco del centrodestra a Torino, ndr) è stato ottimo», commenta la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, «e credo che dobbiamo a loro e agli altri candidati un grande ringraziamento. Non incide la scelta del candidato, io credo abbiano inciso i tempi: il centrodestra è arrivato tardi, soprattutto quando ha scelto candidato con un profilo civico e quindi meno conosciuti. Per le prossime regionali bisogna mettersi al lavoro prima».
Sotto la Mole torna in sella il vecchio sistema di potere
Torino grigissima. Con il voto di un elettore su quattro, il centrosinistra si riprende il capoluogo piemontese dopo la parentesi a 5 stelle. Una restaurazione in piena regola e non solo perché arriva al termine di cinque anni di «uno vale uno» e altre amenità, ma anche perché Stefano Lo Russo, 45 anni, professore di geologia al Politecnico, è il perfetto esponente del Pd subalpino: moderato, diplomatico, geneticamente modificato per non disturbare alcun potere forte locale, dalle banche a quel che resta di Mamma Fiat. Paolo Damilano, l'imprenditore cuneese appoggiato dal centrodestra e che ha corso con la sua lista «Torino bellissima», si ferma invece al 40,8% dei voti, contro il 59,2% del vincitore. Affluenza finale in calo di sei punti al 42,1%, con i numeri che sembrano indicare un fenomeno che dovrebbe far riflettere sia Enrico Letta sia Giuseppe Conte: gli elettori grillini rimangono a casa, se non possono votare uno di loro. Lo Russo conquista la fascia tricolore con appena 168.997 preferenze (59,2%), contro le 140.200 di due lunedì fa (43,9%), staccando di un bel po' il candidato del centrodestra, che alla fine ha preso 116.332 voti (40,8%) al ballottaggio e 124.327 al primo turno (38,9%). Il fatto che abbia votato appena il 42,1% dei torinesi non cancella la chiara vittoria del centrosinistra, ma le dà una patina di tristezza. Tanto è vero che Lo Russo, che con Damilano ha dato vita a un duello leale e di raro fair play, ringraziando gli elettori si è dato un obiettivo nobile per il 2026: «Spero di essere capace di far tornare a votare anche le persone che questa volta non hanno votato». Il nuovo sindaco, ex assessore con Piero Fassino ed ex segretario cittadino del partito, ha fatto due autentici colpacci. Il primo è stato quello di arrivare davanti già al primo turno, nonostante i sondaggi lo dessero tutti, invariabilmente, dietro al re del barolo. Il secondo è stato rifiutare la pace con i 5 stelle e intuire che quel 9% di torinesi che al primo turno aveva votato per Valentina Sganga, al ballottaggio se ne sarebbe rimasto a casa. Ecco perché il risultato torinese, in realtà, dovrebbe preoccupare assai chi punta a un'alleanza tra Pd e M5s nel 2023.
Sul fronte del centrodestra, Damilano ha incassato facendo complimenti al nuovo sindaco. Ma un sassolino se l'è tolto: «Ho visto grande partecipazione dei leader nazionali che ringrazio; ho visto i partiti un po' più pigri a livello locale e i risultati lo dimostrano». In queste due settimane, Giorgia Meloni e Matteo Salvini erano andati a Torino per aiutarlo, ma non è bastato. Grande esibizione di fair play anche dalla sindaca uscente. «Oggi faccio gli auguri al mio sindaco e basta, faremo opposizione leale e corretta», ha promesso Chiara Appendino, che la prossima settimana entra in sala parto.
Che sindaco sarà Lo Russo? Il suo modello è Sergio Chiamparino, un artista nel farsi sottovalutare, che nelle ultime settimane gli è stato al fianco con discrezione come consigliere. In campagna elettorale, Lo Russo ha giocato le solite carte: ascolto delle persone, città «multicentrica», rilancio di Torino come capitale della tecnologia e della ricerca, massima inclusione sociale. Torino però è anche la città dove decine di migliaia di lavoratori tremano per l'addio degli Agnelli Elkann, che hanno lasciato a presidiare la ritirata giusto la Juventus e il giornale unico Stampa-Repubblica. Non potendo vivere in un milione solo di cioccolato, buon cibo, turismo e bei musei, e con le banche cittadine migrate da tempo a Milano, come centri di potere sono rimaste le fondazioni (Sanpaolo e Crt) e la gestione della cultura. Con il nuovo sindaco, il famoso «Sistema Torino», fatto di porte girevoli tra Pd, università, fondazioni bancarie ed enti culturali, e corroborato da continui favori immobiliari all'ex Fiat, torna a rimettere a posto ogni tesserina. L'unica preoccupazione arriva da Palazzo di Giustizia, dove il 21 settembre la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 35 persone, coinvolte nell'inchiesta per corruzione elettorale e turbativa d'asta che ruota intorno a Giulio Muttoni, «il re dei concerti» ex patron di Set Up Live, la società che insieme a Live Nation ha ereditato gli impianti di Parcolimpico. È una storiaccia dove s'intrecciano affari privati e politica e per la quale rischiano il processo l'ex senatore del Pd Stefano Esposito e l'ex aspirante candidato sindaco Enzo Lavolta, assessore all'Innovazione della giunta Fassino. In campagna elettorale, non se n'è fatta parola.
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Il sindaco uscente conquista il quarto mandato e difende l'ultima roccaforte della coalizione. Anche se lo sfidante Francesco Russo recupera quasi 15 punti nel secondo turno. «Sul porto vecchio lavoreremo insieme», promette il primo cittadino. Affluenza ferma al 42%La sinistra prende Isernia, Caserta, Savona e Cosenza. L'ex ministro: «Io contro tutti»Nella Capitale netta affermazione dell'ex ministro dell'Economia, che fa suoi parte dei voti andati al primo turno a Raggi e Calenda. Giorgia Meloni: «Paghiamo la scelta di candidati civici». Intanto a sinistra è già lotta interna per il seggio da deputato del neo sindacoChiusa la parentesi pentastellata, nel capoluogo piemontese scatta la restaurazione dei soliti apparati, dalla Fiat alle bancheLo speciale contiene quattro articoliRoberto Dipiazza e la sua Trieste regalano un sorriso al centrodestra che dai ballottaggi di queste amministrative dell'era Covid si aspettava un risultato decisamente migliore. Primo imputato l'assenteismo e forse i candidati civici scelti all'ultimo momento. Eppure a Trieste, mentre venivano usati gli idranti contro chi protestava al porto, i cittadini, almeno la metà, hanno deciso di tornare alle urne per riconfermare sindaco Roberto Dipiazza con una percentuale del 51,30% contro Francesco Russo del centrosinistra che non è andato oltre il 48,7%. L'affluenza definitiva al ballottaggio è stata del 42%. «Sono l'unico sindaco di centrodestra che ha portato avanti la bandiera in Italia, una gran bella soddisfazione», ha detto il neo eletto, «Mi hanno telefonato tutti da Salvini a Meloni a Berlusconi. Oggi sono un po' l'eroe di centrodestra, ma me lo hanno detto loro, non lo sto dicendo io», scherza, e aggiunge: «Ricominciamo da Trieste».Dipiazza, che è stato uno storico esponente di Forza Italia, ma si è ripresentato alla città a guida di una lista civica sostenuta dalle forze di centrodestra, si conferma quindi, a 67 anni, per la quarta volta primo cittadino della città giuliana. Aveva già ricoperto l'incarico di primo cittadino per due mandati, dal 2001 al 2011, sempre per il centrodestra, poi dopo una parentesi come consigliere regionale, annoiatosi della scarsa effervescenza in Consiglio e in assenza di un purosangue da candidare nel centrodestra, si è gettato nuovamente nella mischia. E ha vinto una terza volta, contro il sindaco di centrosinistra Cosolini, e stavolta, contro un agguerrito e benvoluto Francesco Russo. Ad annunciare la vittoria lo stesso sindaco Dipiazza, nel corso di un primo collegamento telefonico quando mancavano ancora i risultati di sei sezioni: «Ho vinto e questa è una cosa che non dimenticherò mai e farò sempre di tutto per la mia città con grande amore». Grande fair play anche con l'avversario che partiva da uno svantaggio del 16% al primo turno: «Mi sono complimentato con Russo per il recupero. L'ho sentito e gli ho fatto una proposta: gli ho detto che sul porto vecchio lavoreremo insieme. Sul resto potrà fare opposizione ma sul porto vecchio, visto che è stato uno dei promotori, lavoreremo insieme».Russo, il candidato del centrosinistra, autore tuttavia di una incredibile rimonta, si è detto comunque soddisfatto: «Sono soddisfatto del Pd e del centrosinistra al ballottaggio: abbiamo recuperato quasi 15 punti di distacco, quindi l'impresa c'è stata. Evidentemente non siamo riusciti a spiegare la novità di un messaggio, di un nostro progetto per il futuro. Ci siamo e continueremo a lavorare per questo. Credo comunque che una volta in Consiglio comunale, se ci sono le condizioni, ci si possa venire incontro».A Trieste non c'è stato nessun apparentamento in vista del ballottaggio ma Russo ha incassato il sostegno di Riccardo Laterza, terzo classificato tra gli aspiranti sindaci, e di Tiziana Cimolino. Al primo turno, Laterza aveva ottenuto quasi il 9% di preferenze con la lista Adesso Trieste, mentre le due liste di Cimolino (Europa Verde e Sinistra in Comune) si erano fermate all'1,67%. Numeri alla mano, sarebbe servito qualcosa in più per ribaltare il risultato della prima tornata elettorale. Il Movimento 5 stelle, che ha preso meno voti del Movimento 3V di Ugo Rossi, non si è speso per nessuno dei due candidati arrivati al ballottaggio lasciando libertà di scelta ai suoi elettori. Anche qui, come in altre città, il peso dell'astensione al voto del 3 e 4 ottobre si è fatto sentire: solo il 46% degli aventi diritto si è recato alle urne due settimane fa. Gli astenuti avrebbero avuto l'onere di confermare o ribaltare il voto del primo turno. «Congratulazioni a Roberto Dipiazza rieletto sindaco di Trieste. Il suo buongoverno degli ultimi cinque anni è stato premiato. La sua scelta, come quella di Roberto Occhiuto in Calabria, conferma che i candidati di Forza Italia sono vincenti. Buon lavoro!», ha scritto su Twitter Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia. Non si esalta ma resta obiettivo sul risultato il leader della Lega, Matteo Salvini: «Nelle tre grandi città, Roma, Torino e Trieste, chi governava ha confermato i propri sindaci», ma proprio su Trieste ha rimarcato il problema della sicurezza e la gestione del Viminale anche nei confronti della protesta nel porto triestino: «Che il ministro dell'Interno usi gli idranti contro i lavoratori e i guanti di velluto contro gli squadristi, mi stupisce e mi preoccupa. È stato fatto in maniera strumentale per le elezioni amministrative? Spero di no, ma in ogni caso l'errore mi sembra evidente». Poi Salvini è entrato nel vivo della protesta dei portuali: «Lamorgese mi spieghi perché lascia tranquillamente assediare istituzioni a Roma gente che per legge non poteva essere a piede libero e ordini di usare idranti e lacrimogeni contro i portuali e gli studenti seduti per terra, a Trieste. Non mi sembra normale, c'è qualcosa che non funziona. 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L'ex ministro ha descritto il suo successo con toni enfatici, dipingendolo come una vittoria contro le élite, a suo dire capeggiata da «una loggia che la gente ha sconfitto». «Hanno fatto una squadra contro di me e contro il popolo di Benevento, un'arca di Noè illogicamente immorale dove si sono ritrovate la destra e l'estrema sinistra», ha dichiarato, senza risparmiare una frecciata al leader dem: «Mi dispiace che Letta sia venuto qua a condire tutto questo». Di trionfo si può parlare invece a Savona per Marco Russo, avvocato candidato sindaco del centrosinistra, che con oltre il 62% dei voti ha staccato nettamente il rivale del centrodestra, l'ex primario Angelo Schirru, che non è arrivato al 38%; e pensare che il candidato pentastellato locale, Manuel Meles, che aveva ottenuto quasi il 10% dei voti, non aveva dato indicazioni di voto. Risultato chiaro anche a Isernia, con Piero Castrataro del centrosinistra che ha sfiorato il 59% dei consensi, a scapito di Gabriele Melogli (41,3%), appoggiato da Forza Italia, Udc e Lega, ma non da Fratelli d'Italia, che aveva espresso un suo candidato in Cosmo Tedeschi, arrivato terzo con il 15% dei consensi. Considerando che al primo turno era stato Melogli a prevalere, anche se con meno di 300 voti, almeno sulla carta la partita di Isernia pareva apertissima, invece la vittoria di Castrataro tutto è stata fuorché al fotofinish. Un'amara sorpresa, per il centrodestra, è stata anche quella di Latina, dove al primo turno Vincenzo Zaccheo, ex attivista del Movimento sociale italiano e poi deputato di Alleanza nazionale, era in vantaggio con oltre il 48% dei consensi sul sindaco uscente, Damiano Coletta. Coletta però ha saputo risollevarsi dal 35,6% a un rassicurante 55%, che gli ha consentito una vittoria non scontata. Anche Varese, un tempo roccaforte del centrodestra e della Lega, essendo stata governata dal 2006 al 2016 dall'attuale governatore lombardo, Attilio Fontana, ha visto la vittoria del centrosinistra. Il sindaco uscente, Davide Galimberti, sostenuto dal centrosinistra e dal M5s, ha infatti raccolto il 53,2% dei consensi, confermando gli scenari del primo turno e superando il rivale del centrodestra, Matteo Luigi Bianchi (46,8%), ex sindaco di Morazzone. Il centrosinistra l'ha spuntata anche a Caserta, dove pure la contesa si annunciava molto aperta, dato che il 4 ottobre il sindaco uscente, Carlo Marino, aveva ottenuto circa il 32% dei voti mentre il suo rivale di centrodestra, Gianpiero Zinzi, avvocato capogruppo della Lega in consiglio regionale, si era fermato a poco meno del 28% dei voti. Alla fine però Marino ce l'ha fatta con il 53,7% dei consensi, costringendo Zinzi a fermarsi al 46,3%. Se ne ricava una geografia elettorale chiara e che, come già si diceva, vede il centrosinistra vincente in quasi tutti i Comuni, anche dove - come Cosenza o Latina - gli equilibri iniziali erano sfavorevoli. Che ciò sia dovuto all'astensionismo oppure a un elettorato, quello moderato, tradizionalmente meno militante e quindi più difficile da trascinare al voto in generale, figurarsi ai ballottaggi, cambia relativamente. Ora al centrodestra spetta il compito di costruire un'opposizione compatta Comune per Comune, cercando di ricreare maggiore unità tra gli alleati. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dipiazza-regala-un-sorriso-al-centrodestra-roberto-dipiazza-513-francesco-russo-487-2655318746.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="vince-gualtieri-ora-e-caccia-alla-sua-poltrona" data-post-id="2655318746" data-published-at="1634585156" data-use-pagination="False"> Vince Gualtieri, ora è caccia alla sua poltrona Finisce 60 a 40 per Roberto Gualtieri la sfida per il Campidoglio: l'ex ministro dell'Economia è il nuovo sindaco di Roma. Gualtieri supera al ballottaggio il candidato del centrodestra, Enrico Michetti, rimontando il risultato del primo turno: quindici giorni fa il neosindaco aveva ottenuto il 27% dei voti, il suo avversario il 30%. Evidentemente, gli elettori che al primo turno avevano sostenuto i due candidati esclusi, il sindaco uscente Virginia Raggi e Carlo Calenda, sono andati a votare per Gualtieri. Enorme il dato dell'astensione: al ballottaggio per l'elezione del sindaco di Roma ha votato il 40,68% degli aventi diritto, rispetto al 48,54% del primo turno. Siamo di fronte al record dell'astensionismo: mai, dal 1993, quando è stata introdotta l'elezione diretta dei sindaci, i romani avevano disertato così in massa le urne. Il dato peggiore, fino a ieri, era il 45,65% del 2013, quando Ignazio Marino ebbe la meglio su Gianni Alemanno. «Ringrazio le romane ed i romani», dice Gualtieri, «per questo risultato così significativo, sono onorato della fiducia che mi è stata accordata. Metterò tutto il mio impegno per onorarlo. Ringrazio anche il mio avversario, Enrico Michetti, che ha contribuito a tenere civili i toni della campagna elettorale, Virginia Raggi per l'impegno profuso in questi anni e Carlo Calenda per il contributo di idee. Adesso inizia un lavoro straordinario, per far funzionare meglio Roma, per essere una città produttiva, una città della cultura, della scienza, dell'innovazione, vicina alle persone. Sarò il sindaco di tutti», aggiunge Gualtieri, «di chi mi ha votato, di chi ha votato per altri, di chi non ha votato. Ora inizia un lavoro di straordinaria intensità per rilanciare Roma e farla funzionare meglio, farla crescere, creare nuova occupazione. Una città più inclusiva, campione della transizione ecologica, motore di innovazione e sviluppo». Gualtieri raggiunge la sede del Pd, al Nazareno, per il canonico abbraccio con i dirigenti dem, tra i quali il segretario Enrico Letta: «Dopo una vittoria cosi superiore a qualsiasi aspettativa», commenta Letta, «che va oltre il voto per le città, noi potremmo avere interesse ad andare subito al voto nazionale per cogliere l'onda. Ma la nostra forza sta nel fatto di non andare dietro ad interessi di parte. Quindi dico qui che questo voto rafforza il governo Draghi». Più che ai massimi sistemi, Letta farebbe bene a dedicarsi alla guerra di successione tutta interna alla sinistra che si è già aperta per accaparrarsi il seggio alla Camera che verrà lasciato libero dal neosindaco Gualtieri. Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno proposto di candidare l'ex segretario della Fim Cisl, Marco Bentivogli,ma il M5s potrebbe insistere per Virginia Raggi. Laconico il commento del candidato del centrodestra, Enrico Michetti: «Faccio gli auguri al sindaco», afferma Michetti, «perché Roma è la cosa più importante, credo che abbiamo dato il massimo e in queste condizioni abbiamo fatto ciò che si poteva». All'insegna del sano pragmatismo e del galateo politico il commento del leader della Lega, Matteo Salvini: «Gli elettori hanno sempre ragione», argomenta Salvini, «quindi se a Roma ha vinto Gualtieri, buon lavoro a Gualtieri. Penso al ruolo dei politici ma anche a quello dei giornalisti quando nell'ultimo mese di campagna elettorale si parla di vicende private, di abitudini sessuali e di assalti fascisti. Nelle tre grandi città, Roma, Torino e Trieste», aggiunge Salvini, «chi governava ha confermato i propri sindaci». Il leader del Carroccio riflette anche sul dato dell'astensionismo: «Se uno viene eletto da una minoranza della minoranza», tiene a sottolineare Salvini, «è un problema non per un partito, ma per la democrazia. Avremmo preferito vincere a Roma, piuttosto che perdere, ma i cittadini hanno sempre ragione quando scelgono, ma il dato su cui ragionare è il non voto, che in alcuni quartiere ha superato il 70%». «Il lavoro fatto da Michetti e Damilano (il candidato sindaco del centrodestra a Torino, ndr) è stato ottimo», commenta la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, «e credo che dobbiamo a loro e agli altri candidati un grande ringraziamento. Non incide la scelta del candidato, io credo abbiano inciso i tempi: il centrodestra è arrivato tardi, soprattutto quando ha scelto candidato con un profilo civico e quindi meno conosciuti. Per le prossime regionali bisogna mettersi al lavoro prima». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dipiazza-regala-un-sorriso-al-centrodestra-roberto-dipiazza-513-francesco-russo-487-2655318746.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="sotto-la-mole-torna-in-sella-il-vecchio-sistema-di-potere" data-post-id="2655318746" data-published-at="1634585156" data-use-pagination="False"> Sotto la Mole torna in sella il vecchio sistema di potere Torino grigissima. Con il voto di un elettore su quattro, il centrosinistra si riprende il capoluogo piemontese dopo la parentesi a 5 stelle. Una restaurazione in piena regola e non solo perché arriva al termine di cinque anni di «uno vale uno» e altre amenità, ma anche perché Stefano Lo Russo, 45 anni, professore di geologia al Politecnico, è il perfetto esponente del Pd subalpino: moderato, diplomatico, geneticamente modificato per non disturbare alcun potere forte locale, dalle banche a quel che resta di Mamma Fiat. Paolo Damilano, l'imprenditore cuneese appoggiato dal centrodestra e che ha corso con la sua lista «Torino bellissima», si ferma invece al 40,8% dei voti, contro il 59,2% del vincitore. Affluenza finale in calo di sei punti al 42,1%, con i numeri che sembrano indicare un fenomeno che dovrebbe far riflettere sia Enrico Letta sia Giuseppe Conte: gli elettori grillini rimangono a casa, se non possono votare uno di loro. Lo Russo conquista la fascia tricolore con appena 168.997 preferenze (59,2%), contro le 140.200 di due lunedì fa (43,9%), staccando di un bel po' il candidato del centrodestra, che alla fine ha preso 116.332 voti (40,8%) al ballottaggio e 124.327 al primo turno (38,9%). Il fatto che abbia votato appena il 42,1% dei torinesi non cancella la chiara vittoria del centrosinistra, ma le dà una patina di tristezza. Tanto è vero che Lo Russo, che con Damilano ha dato vita a un duello leale e di raro fair play, ringraziando gli elettori si è dato un obiettivo nobile per il 2026: «Spero di essere capace di far tornare a votare anche le persone che questa volta non hanno votato». Il nuovo sindaco, ex assessore con Piero Fassino ed ex segretario cittadino del partito, ha fatto due autentici colpacci. Il primo è stato quello di arrivare davanti già al primo turno, nonostante i sondaggi lo dessero tutti, invariabilmente, dietro al re del barolo. Il secondo è stato rifiutare la pace con i 5 stelle e intuire che quel 9% di torinesi che al primo turno aveva votato per Valentina Sganga, al ballottaggio se ne sarebbe rimasto a casa. Ecco perché il risultato torinese, in realtà, dovrebbe preoccupare assai chi punta a un'alleanza tra Pd e M5s nel 2023. Sul fronte del centrodestra, Damilano ha incassato facendo complimenti al nuovo sindaco. Ma un sassolino se l'è tolto: «Ho visto grande partecipazione dei leader nazionali che ringrazio; ho visto i partiti un po' più pigri a livello locale e i risultati lo dimostrano». In queste due settimane, Giorgia Meloni e Matteo Salvini erano andati a Torino per aiutarlo, ma non è bastato. Grande esibizione di fair play anche dalla sindaca uscente. «Oggi faccio gli auguri al mio sindaco e basta, faremo opposizione leale e corretta», ha promesso Chiara Appendino, che la prossima settimana entra in sala parto. Che sindaco sarà Lo Russo? Il suo modello è Sergio Chiamparino, un artista nel farsi sottovalutare, che nelle ultime settimane gli è stato al fianco con discrezione come consigliere. In campagna elettorale, Lo Russo ha giocato le solite carte: ascolto delle persone, città «multicentrica», rilancio di Torino come capitale della tecnologia e della ricerca, massima inclusione sociale. Torino però è anche la città dove decine di migliaia di lavoratori tremano per l'addio degli Agnelli Elkann, che hanno lasciato a presidiare la ritirata giusto la Juventus e il giornale unico Stampa-Repubblica. Non potendo vivere in un milione solo di cioccolato, buon cibo, turismo e bei musei, e con le banche cittadine migrate da tempo a Milano, come centri di potere sono rimaste le fondazioni (Sanpaolo e Crt) e la gestione della cultura. Con il nuovo sindaco, il famoso «Sistema Torino», fatto di porte girevoli tra Pd, università, fondazioni bancarie ed enti culturali, e corroborato da continui favori immobiliari all'ex Fiat, torna a rimettere a posto ogni tesserina. L'unica preoccupazione arriva da Palazzo di Giustizia, dove il 21 settembre la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 35 persone, coinvolte nell'inchiesta per corruzione elettorale e turbativa d'asta che ruota intorno a Giulio Muttoni, «il re dei concerti» ex patron di Set Up Live, la società che insieme a Live Nation ha ereditato gli impianti di Parcolimpico. È una storiaccia dove s'intrecciano affari privati e politica e per la quale rischiano il processo l'ex senatore del Pd Stefano Esposito e l'ex aspirante candidato sindaco Enzo Lavolta, assessore all'Innovazione della giunta Fassino. In campagna elettorale, non se n'è fatta parola.
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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