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2021-10-19
A parte Trieste il centrosinistra si prende tutte le altre città
Roberto Gualtieri e Stefano Lo Russo (Ansa)
Roberto Dipiazza e la sua Trieste regalano un sorriso al centrodestra che dai ballottaggi di queste amministrative dell'era Covid si aspettava un risultato decisamente migliore. Primo imputato l'assenteismo e forse i candidati civici scelti all'ultimo momento. Eppure a Trieste, mentre venivano usati gli idranti contro chi protestava al porto, i cittadini, almeno la metà, hanno deciso di tornare alle urne per riconfermare sindaco Roberto Dipiazza con una percentuale del 51,30% contro Francesco Russo del centrosinistra che non è andato oltre il 48,7%. L'affluenza definitiva al ballottaggio è stata del 42%. «Sono l'unico sindaco di centrodestra che ha portato avanti la bandiera in Italia, una gran bella soddisfazione», ha detto il neo eletto, «Mi hanno telefonato tutti da Salvini a Meloni a Berlusconi. Oggi sono un po' l'eroe di centrodestra, ma me lo hanno detto loro, non lo sto dicendo io», scherza, e aggiunge: «Ricominciamo da Trieste».
Dipiazza, che è stato uno storico esponente di Forza Italia, ma si è ripresentato alla città a guida di una lista civica sostenuta dalle forze di centrodestra, si conferma quindi, a 67 anni, per la quarta volta primo cittadino della città giuliana. Aveva già ricoperto l'incarico di primo cittadino per due mandati, dal 2001 al 2011, sempre per il centrodestra, poi dopo una parentesi come consigliere regionale, annoiatosi della scarsa effervescenza in Consiglio e in assenza di un purosangue da candidare nel centrodestra, si è gettato nuovamente nella mischia. E ha vinto una terza volta, contro il sindaco di centrosinistra Cosolini, e stavolta, contro un agguerrito e benvoluto Francesco Russo. Ad annunciare la vittoria lo stesso sindaco Dipiazza, nel corso di un primo collegamento telefonico quando mancavano ancora i risultati di sei sezioni: «Ho vinto e questa è una cosa che non dimenticherò mai e farò sempre di tutto per la mia città con grande amore». Grande fair play anche con l'avversario che partiva da uno svantaggio del 16% al primo turno: «Mi sono complimentato con Russo per il recupero. L'ho sentito e gli ho fatto una proposta: gli ho detto che sul porto vecchio lavoreremo insieme. Sul resto potrà fare opposizione ma sul porto vecchio, visto che è stato uno dei promotori, lavoreremo insieme».
Russo, il candidato del centrosinistra, autore tuttavia di una incredibile rimonta, si è detto comunque soddisfatto: «Sono soddisfatto del Pd e del centrosinistra al ballottaggio: abbiamo recuperato quasi 15 punti di distacco, quindi l'impresa c'è stata. Evidentemente non siamo riusciti a spiegare la novità di un messaggio, di un nostro progetto per il futuro. Ci siamo e continueremo a lavorare per questo. Credo comunque che una volta in Consiglio comunale, se ci sono le condizioni, ci si possa venire incontro».
A Trieste non c'è stato nessun apparentamento in vista del ballottaggio ma Russo ha incassato il sostegno di Riccardo Laterza, terzo classificato tra gli aspiranti sindaci, e di Tiziana Cimolino. Al primo turno, Laterza aveva ottenuto quasi il 9% di preferenze con la lista Adesso Trieste, mentre le due liste di Cimolino (Europa Verde e Sinistra in Comune) si erano fermate all'1,67%. Numeri alla mano, sarebbe servito qualcosa in più per ribaltare il risultato della prima tornata elettorale. Il Movimento 5 stelle, che ha preso meno voti del Movimento 3V di Ugo Rossi, non si è speso per nessuno dei due candidati arrivati al ballottaggio lasciando libertà di scelta ai suoi elettori. Anche qui, come in altre città, il peso dell'astensione al voto del 3 e 4 ottobre si è fatto sentire: solo il 46% degli aventi diritto si è recato alle urne due settimane fa. Gli astenuti avrebbero avuto l'onere di confermare o ribaltare il voto del primo turno.
«Congratulazioni a Roberto Dipiazza rieletto sindaco di Trieste. Il suo buongoverno degli ultimi cinque anni è stato premiato. La sua scelta, come quella di Roberto Occhiuto in Calabria, conferma che i candidati di Forza Italia sono vincenti. Buon lavoro!», ha scritto su Twitter Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia.
Non si esalta ma resta obiettivo sul risultato il leader della Lega, Matteo Salvini: «Nelle tre grandi città, Roma, Torino e Trieste, chi governava ha confermato i propri sindaci», ma proprio su Trieste ha rimarcato il problema della sicurezza e la gestione del Viminale anche nei confronti della protesta nel porto triestino: «Che il ministro dell'Interno usi gli idranti contro i lavoratori e i guanti di velluto contro gli squadristi, mi stupisce e mi preoccupa. È stato fatto in maniera strumentale per le elezioni amministrative? Spero di no, ma in ogni caso l'errore mi sembra evidente». Poi Salvini è entrato nel vivo della protesta dei portuali: «Lamorgese mi spieghi perché lascia tranquillamente assediare istituzioni a Roma gente che per legge non poteva essere a piede libero e ordini di usare idranti e lacrimogeni contro i portuali e gli studenti seduti per terra, a Trieste. Non mi sembra normale, c'è qualcosa che non funziona. Ribadisco a Draghi la mia richiesta: facciamo un incontro con il ministro Lamorgese, perché le prossime settimane non saranno facili se la gestione dell'ordine pubblico sarà così schizofrenica».
Onda rossa pure a Latina e Varese. A Benevento Mastella beffa il Pd
Nella tornata elettorale con l'astensionismo più elevato di sempre, il ballottaggio delle elezioni amministrative nei centri capoluogo si è concluso con qualche colpo di scena e diverse conferme. Il comune denominatore è però uno: la vittoria, quasi ovunque, del centrosinistra, anche laddove il primo turno lasciava presagire possibilità diverse. Per esempio, a Cosenza il candidato del centrodestra e già vicesindaco, Francesco Caruso, che il 3 e il 4 ottobre era risultato il più votato con il 37,4% dei voti, è stato poi sconfitto da Franz Caruso del centrosinistra, che stavolta ha raccolto il 57,6% dei consensi. Da notare come il vincitore, dopo il primo turno, abbia incassato l'endorsement della candidata sindaco del M5s, Biancamaria Rende. Un supporto che, evidentemente, si è rivelato qualcosa più di una semplice promessa.
La musica è stata diversa a Benevento, dove l'inossidabile Clemente Mastella, sostenuto da molte liste civiche e un pezzo di Forza Italia, se da un lato al primo turno non l'aveva spuntata per un soffio, ieri ha chiuso i conti con l'avvocato Luigi Diego Perifano del centrosinistra, attraverso una vittoria netta, con il 52,7% dei consensi. L'ex ministro ha descritto il suo successo con toni enfatici, dipingendolo come una vittoria contro le élite, a suo dire capeggiata da «una loggia che la gente ha sconfitto». «Hanno fatto una squadra contro di me e contro il popolo di Benevento, un'arca di Noè illogicamente immorale dove si sono ritrovate la destra e l'estrema sinistra», ha dichiarato, senza risparmiare una frecciata al leader dem: «Mi dispiace che Letta sia venuto qua a condire tutto questo».
Di trionfo si può parlare invece a Savona per Marco Russo, avvocato candidato sindaco del centrosinistra, che con oltre il 62% dei voti ha staccato nettamente il rivale del centrodestra, l'ex primario Angelo Schirru, che non è arrivato al 38%; e pensare che il candidato pentastellato locale, Manuel Meles, che aveva ottenuto quasi il 10% dei voti, non aveva dato indicazioni di voto.
Risultato chiaro anche a Isernia, con Piero Castrataro del centrosinistra che ha sfiorato il 59% dei consensi, a scapito di Gabriele Melogli (41,3%), appoggiato da Forza Italia, Udc e Lega, ma non da Fratelli d'Italia, che aveva espresso un suo candidato in Cosmo Tedeschi, arrivato terzo con il 15% dei consensi. Considerando che al primo turno era stato Melogli a prevalere, anche se con meno di 300 voti, almeno sulla carta la partita di Isernia pareva apertissima, invece la vittoria di Castrataro tutto è stata fuorché al fotofinish.
Un'amara sorpresa, per il centrodestra, è stata anche quella di Latina, dove al primo turno Vincenzo Zaccheo, ex attivista del Movimento sociale italiano e poi deputato di Alleanza nazionale, era in vantaggio con oltre il 48% dei consensi sul sindaco uscente, Damiano Coletta. Coletta però ha saputo risollevarsi dal 35,6% a un rassicurante 55%, che gli ha consentito una vittoria non scontata.
Anche Varese, un tempo roccaforte del centrodestra e della Lega, essendo stata governata dal 2006 al 2016 dall'attuale governatore lombardo, Attilio Fontana, ha visto la vittoria del centrosinistra. Il sindaco uscente, Davide Galimberti, sostenuto dal centrosinistra e dal M5s, ha infatti raccolto il 53,2% dei consensi, confermando gli scenari del primo turno e superando il rivale del centrodestra, Matteo Luigi Bianchi (46,8%), ex sindaco di Morazzone.
Il centrosinistra l'ha spuntata anche a Caserta, dove pure la contesa si annunciava molto aperta, dato che il 4 ottobre il sindaco uscente, Carlo Marino, aveva ottenuto circa il 32% dei voti mentre il suo rivale di centrodestra, Gianpiero Zinzi, avvocato capogruppo della Lega in consiglio regionale, si era fermato a poco meno del 28% dei voti. Alla fine però Marino ce l'ha fatta con il 53,7% dei consensi, costringendo Zinzi a fermarsi al 46,3%.
Se ne ricava una geografia elettorale chiara e che, come già si diceva, vede il centrosinistra vincente in quasi tutti i Comuni, anche dove - come Cosenza o Latina - gli equilibri iniziali erano sfavorevoli. Che ciò sia dovuto all'astensionismo oppure a un elettorato, quello moderato, tradizionalmente meno militante e quindi più difficile da trascinare al voto in generale, figurarsi ai ballottaggi, cambia relativamente. Ora al centrodestra spetta il compito di costruire un'opposizione compatta Comune per Comune, cercando di ricreare maggiore unità tra gli alleati.
Vince Gualtieri, ora è caccia alla sua poltrona
Finisce 60 a 40 per Roberto Gualtieri la sfida per il Campidoglio: l'ex ministro dell'Economia è il nuovo sindaco di Roma. Gualtieri supera al ballottaggio il candidato del centrodestra, Enrico Michetti, rimontando il risultato del primo turno: quindici giorni fa il neosindaco aveva ottenuto il 27% dei voti, il suo avversario il 30%. Evidentemente, gli elettori che al primo turno avevano sostenuto i due candidati esclusi, il sindaco uscente Virginia Raggi e Carlo Calenda, sono andati a votare per Gualtieri. Enorme il dato dell'astensione: al ballottaggio per l'elezione del sindaco di Roma ha votato il 40,68% degli aventi diritto, rispetto al 48,54% del primo turno. Siamo di fronte al record dell'astensionismo: mai, dal 1993, quando è stata introdotta l'elezione diretta dei sindaci, i romani avevano disertato così in massa le urne. Il dato peggiore, fino a ieri, era il 45,65% del 2013, quando Ignazio Marino ebbe la meglio su Gianni Alemanno.
«Ringrazio le romane ed i romani», dice Gualtieri, «per questo risultato così significativo, sono onorato della fiducia che mi è stata accordata. Metterò tutto il mio impegno per onorarlo. Ringrazio anche il mio avversario, Enrico Michetti, che ha contribuito a tenere civili i toni della campagna elettorale, Virginia Raggi per l'impegno profuso in questi anni e Carlo Calenda per il contributo di idee. Adesso inizia un lavoro straordinario, per far funzionare meglio Roma, per essere una città produttiva, una città della cultura, della scienza, dell'innovazione, vicina alle persone. Sarò il sindaco di tutti», aggiunge Gualtieri, «di chi mi ha votato, di chi ha votato per altri, di chi non ha votato. Ora inizia un lavoro di straordinaria intensità per rilanciare Roma e farla funzionare meglio, farla crescere, creare nuova occupazione. Una città più inclusiva, campione della transizione ecologica, motore di innovazione e sviluppo».
Gualtieri raggiunge la sede del Pd, al Nazareno, per il canonico abbraccio con i dirigenti dem, tra i quali il segretario Enrico Letta: «Dopo una vittoria cosi superiore a qualsiasi aspettativa», commenta Letta, «che va oltre il voto per le città, noi potremmo avere interesse ad andare subito al voto nazionale per cogliere l'onda. Ma la nostra forza sta nel fatto di non andare dietro ad interessi di parte. Quindi dico qui che questo voto rafforza il governo Draghi». Più che ai massimi sistemi, Letta farebbe bene a dedicarsi alla guerra di successione tutta interna alla sinistra che si è già aperta per accaparrarsi il seggio alla Camera che verrà lasciato libero dal neosindaco Gualtieri. Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno proposto di candidare l'ex segretario della Fim Cisl, Marco Bentivogli,ma il M5s potrebbe insistere per Virginia Raggi.
Laconico il commento del candidato del centrodestra, Enrico Michetti: «Faccio gli auguri al sindaco», afferma Michetti, «perché Roma è la cosa più importante, credo che abbiamo dato il massimo e in queste condizioni abbiamo fatto ciò che si poteva».
All'insegna del sano pragmatismo e del galateo politico il commento del leader della Lega, Matteo Salvini: «Gli elettori hanno sempre ragione», argomenta Salvini, «quindi se a Roma ha vinto Gualtieri, buon lavoro a Gualtieri. Penso al ruolo dei politici ma anche a quello dei giornalisti quando nell'ultimo mese di campagna elettorale si parla di vicende private, di abitudini sessuali e di assalti fascisti. Nelle tre grandi città, Roma, Torino e Trieste», aggiunge Salvini, «chi governava ha confermato i propri sindaci». Il leader del Carroccio riflette anche sul dato dell'astensionismo: «Se uno viene eletto da una minoranza della minoranza», tiene a sottolineare Salvini, «è un problema non per un partito, ma per la democrazia. Avremmo preferito vincere a Roma, piuttosto che perdere, ma i cittadini hanno sempre ragione quando scelgono, ma il dato su cui ragionare è il non voto, che in alcuni quartiere ha superato il 70%».
«Il lavoro fatto da Michetti e Damilano (il candidato sindaco del centrodestra a Torino, ndr) è stato ottimo», commenta la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, «e credo che dobbiamo a loro e agli altri candidati un grande ringraziamento. Non incide la scelta del candidato, io credo abbiano inciso i tempi: il centrodestra è arrivato tardi, soprattutto quando ha scelto candidato con un profilo civico e quindi meno conosciuti. Per le prossime regionali bisogna mettersi al lavoro prima».
Sotto la Mole torna in sella il vecchio sistema di potere
Torino grigissima. Con il voto di un elettore su quattro, il centrosinistra si riprende il capoluogo piemontese dopo la parentesi a 5 stelle. Una restaurazione in piena regola e non solo perché arriva al termine di cinque anni di «uno vale uno» e altre amenità, ma anche perché Stefano Lo Russo, 45 anni, professore di geologia al Politecnico, è il perfetto esponente del Pd subalpino: moderato, diplomatico, geneticamente modificato per non disturbare alcun potere forte locale, dalle banche a quel che resta di Mamma Fiat. Paolo Damilano, l'imprenditore cuneese appoggiato dal centrodestra e che ha corso con la sua lista «Torino bellissima», si ferma invece al 40,8% dei voti, contro il 59,2% del vincitore. Affluenza finale in calo di sei punti al 42,1%, con i numeri che sembrano indicare un fenomeno che dovrebbe far riflettere sia Enrico Letta sia Giuseppe Conte: gli elettori grillini rimangono a casa, se non possono votare uno di loro. Lo Russo conquista la fascia tricolore con appena 168.997 preferenze (59,2%), contro le 140.200 di due lunedì fa (43,9%), staccando di un bel po' il candidato del centrodestra, che alla fine ha preso 116.332 voti (40,8%) al ballottaggio e 124.327 al primo turno (38,9%). Il fatto che abbia votato appena il 42,1% dei torinesi non cancella la chiara vittoria del centrosinistra, ma le dà una patina di tristezza. Tanto è vero che Lo Russo, che con Damilano ha dato vita a un duello leale e di raro fair play, ringraziando gli elettori si è dato un obiettivo nobile per il 2026: «Spero di essere capace di far tornare a votare anche le persone che questa volta non hanno votato». Il nuovo sindaco, ex assessore con Piero Fassino ed ex segretario cittadino del partito, ha fatto due autentici colpacci. Il primo è stato quello di arrivare davanti già al primo turno, nonostante i sondaggi lo dessero tutti, invariabilmente, dietro al re del barolo. Il secondo è stato rifiutare la pace con i 5 stelle e intuire che quel 9% di torinesi che al primo turno aveva votato per Valentina Sganga, al ballottaggio se ne sarebbe rimasto a casa. Ecco perché il risultato torinese, in realtà, dovrebbe preoccupare assai chi punta a un'alleanza tra Pd e M5s nel 2023.
Sul fronte del centrodestra, Damilano ha incassato facendo complimenti al nuovo sindaco. Ma un sassolino se l'è tolto: «Ho visto grande partecipazione dei leader nazionali che ringrazio; ho visto i partiti un po' più pigri a livello locale e i risultati lo dimostrano». In queste due settimane, Giorgia Meloni e Matteo Salvini erano andati a Torino per aiutarlo, ma non è bastato. Grande esibizione di fair play anche dalla sindaca uscente. «Oggi faccio gli auguri al mio sindaco e basta, faremo opposizione leale e corretta», ha promesso Chiara Appendino, che la prossima settimana entra in sala parto.
Che sindaco sarà Lo Russo? Il suo modello è Sergio Chiamparino, un artista nel farsi sottovalutare, che nelle ultime settimane gli è stato al fianco con discrezione come consigliere. In campagna elettorale, Lo Russo ha giocato le solite carte: ascolto delle persone, città «multicentrica», rilancio di Torino come capitale della tecnologia e della ricerca, massima inclusione sociale. Torino però è anche la città dove decine di migliaia di lavoratori tremano per l'addio degli Agnelli Elkann, che hanno lasciato a presidiare la ritirata giusto la Juventus e il giornale unico Stampa-Repubblica. Non potendo vivere in un milione solo di cioccolato, buon cibo, turismo e bei musei, e con le banche cittadine migrate da tempo a Milano, come centri di potere sono rimaste le fondazioni (Sanpaolo e Crt) e la gestione della cultura. Con il nuovo sindaco, il famoso «Sistema Torino», fatto di porte girevoli tra Pd, università, fondazioni bancarie ed enti culturali, e corroborato da continui favori immobiliari all'ex Fiat, torna a rimettere a posto ogni tesserina. L'unica preoccupazione arriva da Palazzo di Giustizia, dove il 21 settembre la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 35 persone, coinvolte nell'inchiesta per corruzione elettorale e turbativa d'asta che ruota intorno a Giulio Muttoni, «il re dei concerti» ex patron di Set Up Live, la società che insieme a Live Nation ha ereditato gli impianti di Parcolimpico. È una storiaccia dove s'intrecciano affari privati e politica e per la quale rischiano il processo l'ex senatore del Pd Stefano Esposito e l'ex aspirante candidato sindaco Enzo Lavolta, assessore all'Innovazione della giunta Fassino. In campagna elettorale, non se n'è fatta parola.
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Il sindaco uscente conquista il quarto mandato e difende l'ultima roccaforte della coalizione. Anche se lo sfidante Francesco Russo recupera quasi 15 punti nel secondo turno. «Sul porto vecchio lavoreremo insieme», promette il primo cittadino. Affluenza ferma al 42%La sinistra prende Isernia, Caserta, Savona e Cosenza. L'ex ministro: «Io contro tutti»Nella Capitale netta affermazione dell'ex ministro dell'Economia, che fa suoi parte dei voti andati al primo turno a Raggi e Calenda. Giorgia Meloni: «Paghiamo la scelta di candidati civici». Intanto a sinistra è già lotta interna per il seggio da deputato del neo sindacoChiusa la parentesi pentastellata, nel capoluogo piemontese scatta la restaurazione dei soliti apparati, dalla Fiat alle bancheLo speciale contiene quattro articoliRoberto Dipiazza e la sua Trieste regalano un sorriso al centrodestra che dai ballottaggi di queste amministrative dell'era Covid si aspettava un risultato decisamente migliore. Primo imputato l'assenteismo e forse i candidati civici scelti all'ultimo momento. Eppure a Trieste, mentre venivano usati gli idranti contro chi protestava al porto, i cittadini, almeno la metà, hanno deciso di tornare alle urne per riconfermare sindaco Roberto Dipiazza con una percentuale del 51,30% contro Francesco Russo del centrosinistra che non è andato oltre il 48,7%. L'affluenza definitiva al ballottaggio è stata del 42%. «Sono l'unico sindaco di centrodestra che ha portato avanti la bandiera in Italia, una gran bella soddisfazione», ha detto il neo eletto, «Mi hanno telefonato tutti da Salvini a Meloni a Berlusconi. Oggi sono un po' l'eroe di centrodestra, ma me lo hanno detto loro, non lo sto dicendo io», scherza, e aggiunge: «Ricominciamo da Trieste».Dipiazza, che è stato uno storico esponente di Forza Italia, ma si è ripresentato alla città a guida di una lista civica sostenuta dalle forze di centrodestra, si conferma quindi, a 67 anni, per la quarta volta primo cittadino della città giuliana. Aveva già ricoperto l'incarico di primo cittadino per due mandati, dal 2001 al 2011, sempre per il centrodestra, poi dopo una parentesi come consigliere regionale, annoiatosi della scarsa effervescenza in Consiglio e in assenza di un purosangue da candidare nel centrodestra, si è gettato nuovamente nella mischia. E ha vinto una terza volta, contro il sindaco di centrosinistra Cosolini, e stavolta, contro un agguerrito e benvoluto Francesco Russo. Ad annunciare la vittoria lo stesso sindaco Dipiazza, nel corso di un primo collegamento telefonico quando mancavano ancora i risultati di sei sezioni: «Ho vinto e questa è una cosa che non dimenticherò mai e farò sempre di tutto per la mia città con grande amore». Grande fair play anche con l'avversario che partiva da uno svantaggio del 16% al primo turno: «Mi sono complimentato con Russo per il recupero. L'ho sentito e gli ho fatto una proposta: gli ho detto che sul porto vecchio lavoreremo insieme. Sul resto potrà fare opposizione ma sul porto vecchio, visto che è stato uno dei promotori, lavoreremo insieme».Russo, il candidato del centrosinistra, autore tuttavia di una incredibile rimonta, si è detto comunque soddisfatto: «Sono soddisfatto del Pd e del centrosinistra al ballottaggio: abbiamo recuperato quasi 15 punti di distacco, quindi l'impresa c'è stata. Evidentemente non siamo riusciti a spiegare la novità di un messaggio, di un nostro progetto per il futuro. Ci siamo e continueremo a lavorare per questo. Credo comunque che una volta in Consiglio comunale, se ci sono le condizioni, ci si possa venire incontro».A Trieste non c'è stato nessun apparentamento in vista del ballottaggio ma Russo ha incassato il sostegno di Riccardo Laterza, terzo classificato tra gli aspiranti sindaci, e di Tiziana Cimolino. Al primo turno, Laterza aveva ottenuto quasi il 9% di preferenze con la lista Adesso Trieste, mentre le due liste di Cimolino (Europa Verde e Sinistra in Comune) si erano fermate all'1,67%. Numeri alla mano, sarebbe servito qualcosa in più per ribaltare il risultato della prima tornata elettorale. Il Movimento 5 stelle, che ha preso meno voti del Movimento 3V di Ugo Rossi, non si è speso per nessuno dei due candidati arrivati al ballottaggio lasciando libertà di scelta ai suoi elettori. Anche qui, come in altre città, il peso dell'astensione al voto del 3 e 4 ottobre si è fatto sentire: solo il 46% degli aventi diritto si è recato alle urne due settimane fa. Gli astenuti avrebbero avuto l'onere di confermare o ribaltare il voto del primo turno. «Congratulazioni a Roberto Dipiazza rieletto sindaco di Trieste. Il suo buongoverno degli ultimi cinque anni è stato premiato. La sua scelta, come quella di Roberto Occhiuto in Calabria, conferma che i candidati di Forza Italia sono vincenti. Buon lavoro!», ha scritto su Twitter Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia. Non si esalta ma resta obiettivo sul risultato il leader della Lega, Matteo Salvini: «Nelle tre grandi città, Roma, Torino e Trieste, chi governava ha confermato i propri sindaci», ma proprio su Trieste ha rimarcato il problema della sicurezza e la gestione del Viminale anche nei confronti della protesta nel porto triestino: «Che il ministro dell'Interno usi gli idranti contro i lavoratori e i guanti di velluto contro gli squadristi, mi stupisce e mi preoccupa. È stato fatto in maniera strumentale per le elezioni amministrative? Spero di no, ma in ogni caso l'errore mi sembra evidente». Poi Salvini è entrato nel vivo della protesta dei portuali: «Lamorgese mi spieghi perché lascia tranquillamente assediare istituzioni a Roma gente che per legge non poteva essere a piede libero e ordini di usare idranti e lacrimogeni contro i portuali e gli studenti seduti per terra, a Trieste. Non mi sembra normale, c'è qualcosa che non funziona. 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L'ex ministro ha descritto il suo successo con toni enfatici, dipingendolo come una vittoria contro le élite, a suo dire capeggiata da «una loggia che la gente ha sconfitto». «Hanno fatto una squadra contro di me e contro il popolo di Benevento, un'arca di Noè illogicamente immorale dove si sono ritrovate la destra e l'estrema sinistra», ha dichiarato, senza risparmiare una frecciata al leader dem: «Mi dispiace che Letta sia venuto qua a condire tutto questo». Di trionfo si può parlare invece a Savona per Marco Russo, avvocato candidato sindaco del centrosinistra, che con oltre il 62% dei voti ha staccato nettamente il rivale del centrodestra, l'ex primario Angelo Schirru, che non è arrivato al 38%; e pensare che il candidato pentastellato locale, Manuel Meles, che aveva ottenuto quasi il 10% dei voti, non aveva dato indicazioni di voto. Risultato chiaro anche a Isernia, con Piero Castrataro del centrosinistra che ha sfiorato il 59% dei consensi, a scapito di Gabriele Melogli (41,3%), appoggiato da Forza Italia, Udc e Lega, ma non da Fratelli d'Italia, che aveva espresso un suo candidato in Cosmo Tedeschi, arrivato terzo con il 15% dei consensi. Considerando che al primo turno era stato Melogli a prevalere, anche se con meno di 300 voti, almeno sulla carta la partita di Isernia pareva apertissima, invece la vittoria di Castrataro tutto è stata fuorché al fotofinish. Un'amara sorpresa, per il centrodestra, è stata anche quella di Latina, dove al primo turno Vincenzo Zaccheo, ex attivista del Movimento sociale italiano e poi deputato di Alleanza nazionale, era in vantaggio con oltre il 48% dei consensi sul sindaco uscente, Damiano Coletta. Coletta però ha saputo risollevarsi dal 35,6% a un rassicurante 55%, che gli ha consentito una vittoria non scontata. Anche Varese, un tempo roccaforte del centrodestra e della Lega, essendo stata governata dal 2006 al 2016 dall'attuale governatore lombardo, Attilio Fontana, ha visto la vittoria del centrosinistra. Il sindaco uscente, Davide Galimberti, sostenuto dal centrosinistra e dal M5s, ha infatti raccolto il 53,2% dei consensi, confermando gli scenari del primo turno e superando il rivale del centrodestra, Matteo Luigi Bianchi (46,8%), ex sindaco di Morazzone. Il centrosinistra l'ha spuntata anche a Caserta, dove pure la contesa si annunciava molto aperta, dato che il 4 ottobre il sindaco uscente, Carlo Marino, aveva ottenuto circa il 32% dei voti mentre il suo rivale di centrodestra, Gianpiero Zinzi, avvocato capogruppo della Lega in consiglio regionale, si era fermato a poco meno del 28% dei voti. Alla fine però Marino ce l'ha fatta con il 53,7% dei consensi, costringendo Zinzi a fermarsi al 46,3%. Se ne ricava una geografia elettorale chiara e che, come già si diceva, vede il centrosinistra vincente in quasi tutti i Comuni, anche dove - come Cosenza o Latina - gli equilibri iniziali erano sfavorevoli. Che ciò sia dovuto all'astensionismo oppure a un elettorato, quello moderato, tradizionalmente meno militante e quindi più difficile da trascinare al voto in generale, figurarsi ai ballottaggi, cambia relativamente. Ora al centrodestra spetta il compito di costruire un'opposizione compatta Comune per Comune, cercando di ricreare maggiore unità tra gli alleati. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dipiazza-regala-un-sorriso-al-centrodestra-roberto-dipiazza-513-francesco-russo-487-2655318746.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="vince-gualtieri-ora-e-caccia-alla-sua-poltrona" data-post-id="2655318746" data-published-at="1634585156" data-use-pagination="False"> Vince Gualtieri, ora è caccia alla sua poltrona Finisce 60 a 40 per Roberto Gualtieri la sfida per il Campidoglio: l'ex ministro dell'Economia è il nuovo sindaco di Roma. Gualtieri supera al ballottaggio il candidato del centrodestra, Enrico Michetti, rimontando il risultato del primo turno: quindici giorni fa il neosindaco aveva ottenuto il 27% dei voti, il suo avversario il 30%. Evidentemente, gli elettori che al primo turno avevano sostenuto i due candidati esclusi, il sindaco uscente Virginia Raggi e Carlo Calenda, sono andati a votare per Gualtieri. Enorme il dato dell'astensione: al ballottaggio per l'elezione del sindaco di Roma ha votato il 40,68% degli aventi diritto, rispetto al 48,54% del primo turno. Siamo di fronte al record dell'astensionismo: mai, dal 1993, quando è stata introdotta l'elezione diretta dei sindaci, i romani avevano disertato così in massa le urne. Il dato peggiore, fino a ieri, era il 45,65% del 2013, quando Ignazio Marino ebbe la meglio su Gianni Alemanno. «Ringrazio le romane ed i romani», dice Gualtieri, «per questo risultato così significativo, sono onorato della fiducia che mi è stata accordata. Metterò tutto il mio impegno per onorarlo. Ringrazio anche il mio avversario, Enrico Michetti, che ha contribuito a tenere civili i toni della campagna elettorale, Virginia Raggi per l'impegno profuso in questi anni e Carlo Calenda per il contributo di idee. Adesso inizia un lavoro straordinario, per far funzionare meglio Roma, per essere una città produttiva, una città della cultura, della scienza, dell'innovazione, vicina alle persone. Sarò il sindaco di tutti», aggiunge Gualtieri, «di chi mi ha votato, di chi ha votato per altri, di chi non ha votato. Ora inizia un lavoro di straordinaria intensità per rilanciare Roma e farla funzionare meglio, farla crescere, creare nuova occupazione. Una città più inclusiva, campione della transizione ecologica, motore di innovazione e sviluppo». Gualtieri raggiunge la sede del Pd, al Nazareno, per il canonico abbraccio con i dirigenti dem, tra i quali il segretario Enrico Letta: «Dopo una vittoria cosi superiore a qualsiasi aspettativa», commenta Letta, «che va oltre il voto per le città, noi potremmo avere interesse ad andare subito al voto nazionale per cogliere l'onda. Ma la nostra forza sta nel fatto di non andare dietro ad interessi di parte. Quindi dico qui che questo voto rafforza il governo Draghi». Più che ai massimi sistemi, Letta farebbe bene a dedicarsi alla guerra di successione tutta interna alla sinistra che si è già aperta per accaparrarsi il seggio alla Camera che verrà lasciato libero dal neosindaco Gualtieri. Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno proposto di candidare l'ex segretario della Fim Cisl, Marco Bentivogli,ma il M5s potrebbe insistere per Virginia Raggi. Laconico il commento del candidato del centrodestra, Enrico Michetti: «Faccio gli auguri al sindaco», afferma Michetti, «perché Roma è la cosa più importante, credo che abbiamo dato il massimo e in queste condizioni abbiamo fatto ciò che si poteva». All'insegna del sano pragmatismo e del galateo politico il commento del leader della Lega, Matteo Salvini: «Gli elettori hanno sempre ragione», argomenta Salvini, «quindi se a Roma ha vinto Gualtieri, buon lavoro a Gualtieri. Penso al ruolo dei politici ma anche a quello dei giornalisti quando nell'ultimo mese di campagna elettorale si parla di vicende private, di abitudini sessuali e di assalti fascisti. Nelle tre grandi città, Roma, Torino e Trieste», aggiunge Salvini, «chi governava ha confermato i propri sindaci». Il leader del Carroccio riflette anche sul dato dell'astensionismo: «Se uno viene eletto da una minoranza della minoranza», tiene a sottolineare Salvini, «è un problema non per un partito, ma per la democrazia. Avremmo preferito vincere a Roma, piuttosto che perdere, ma i cittadini hanno sempre ragione quando scelgono, ma il dato su cui ragionare è il non voto, che in alcuni quartiere ha superato il 70%». «Il lavoro fatto da Michetti e Damilano (il candidato sindaco del centrodestra a Torino, ndr) è stato ottimo», commenta la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, «e credo che dobbiamo a loro e agli altri candidati un grande ringraziamento. Non incide la scelta del candidato, io credo abbiano inciso i tempi: il centrodestra è arrivato tardi, soprattutto quando ha scelto candidato con un profilo civico e quindi meno conosciuti. Per le prossime regionali bisogna mettersi al lavoro prima». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dipiazza-regala-un-sorriso-al-centrodestra-roberto-dipiazza-513-francesco-russo-487-2655318746.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="sotto-la-mole-torna-in-sella-il-vecchio-sistema-di-potere" data-post-id="2655318746" data-published-at="1634585156" data-use-pagination="False"> Sotto la Mole torna in sella il vecchio sistema di potere Torino grigissima. Con il voto di un elettore su quattro, il centrosinistra si riprende il capoluogo piemontese dopo la parentesi a 5 stelle. Una restaurazione in piena regola e non solo perché arriva al termine di cinque anni di «uno vale uno» e altre amenità, ma anche perché Stefano Lo Russo, 45 anni, professore di geologia al Politecnico, è il perfetto esponente del Pd subalpino: moderato, diplomatico, geneticamente modificato per non disturbare alcun potere forte locale, dalle banche a quel che resta di Mamma Fiat. Paolo Damilano, l'imprenditore cuneese appoggiato dal centrodestra e che ha corso con la sua lista «Torino bellissima», si ferma invece al 40,8% dei voti, contro il 59,2% del vincitore. Affluenza finale in calo di sei punti al 42,1%, con i numeri che sembrano indicare un fenomeno che dovrebbe far riflettere sia Enrico Letta sia Giuseppe Conte: gli elettori grillini rimangono a casa, se non possono votare uno di loro. Lo Russo conquista la fascia tricolore con appena 168.997 preferenze (59,2%), contro le 140.200 di due lunedì fa (43,9%), staccando di un bel po' il candidato del centrodestra, che alla fine ha preso 116.332 voti (40,8%) al ballottaggio e 124.327 al primo turno (38,9%). Il fatto che abbia votato appena il 42,1% dei torinesi non cancella la chiara vittoria del centrosinistra, ma le dà una patina di tristezza. Tanto è vero che Lo Russo, che con Damilano ha dato vita a un duello leale e di raro fair play, ringraziando gli elettori si è dato un obiettivo nobile per il 2026: «Spero di essere capace di far tornare a votare anche le persone che questa volta non hanno votato». Il nuovo sindaco, ex assessore con Piero Fassino ed ex segretario cittadino del partito, ha fatto due autentici colpacci. Il primo è stato quello di arrivare davanti già al primo turno, nonostante i sondaggi lo dessero tutti, invariabilmente, dietro al re del barolo. Il secondo è stato rifiutare la pace con i 5 stelle e intuire che quel 9% di torinesi che al primo turno aveva votato per Valentina Sganga, al ballottaggio se ne sarebbe rimasto a casa. Ecco perché il risultato torinese, in realtà, dovrebbe preoccupare assai chi punta a un'alleanza tra Pd e M5s nel 2023. Sul fronte del centrodestra, Damilano ha incassato facendo complimenti al nuovo sindaco. Ma un sassolino se l'è tolto: «Ho visto grande partecipazione dei leader nazionali che ringrazio; ho visto i partiti un po' più pigri a livello locale e i risultati lo dimostrano». In queste due settimane, Giorgia Meloni e Matteo Salvini erano andati a Torino per aiutarlo, ma non è bastato. Grande esibizione di fair play anche dalla sindaca uscente. «Oggi faccio gli auguri al mio sindaco e basta, faremo opposizione leale e corretta», ha promesso Chiara Appendino, che la prossima settimana entra in sala parto. Che sindaco sarà Lo Russo? Il suo modello è Sergio Chiamparino, un artista nel farsi sottovalutare, che nelle ultime settimane gli è stato al fianco con discrezione come consigliere. In campagna elettorale, Lo Russo ha giocato le solite carte: ascolto delle persone, città «multicentrica», rilancio di Torino come capitale della tecnologia e della ricerca, massima inclusione sociale. Torino però è anche la città dove decine di migliaia di lavoratori tremano per l'addio degli Agnelli Elkann, che hanno lasciato a presidiare la ritirata giusto la Juventus e il giornale unico Stampa-Repubblica. Non potendo vivere in un milione solo di cioccolato, buon cibo, turismo e bei musei, e con le banche cittadine migrate da tempo a Milano, come centri di potere sono rimaste le fondazioni (Sanpaolo e Crt) e la gestione della cultura. Con il nuovo sindaco, il famoso «Sistema Torino», fatto di porte girevoli tra Pd, università, fondazioni bancarie ed enti culturali, e corroborato da continui favori immobiliari all'ex Fiat, torna a rimettere a posto ogni tesserina. L'unica preoccupazione arriva da Palazzo di Giustizia, dove il 21 settembre la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 35 persone, coinvolte nell'inchiesta per corruzione elettorale e turbativa d'asta che ruota intorno a Giulio Muttoni, «il re dei concerti» ex patron di Set Up Live, la società che insieme a Live Nation ha ereditato gli impianti di Parcolimpico. È una storiaccia dove s'intrecciano affari privati e politica e per la quale rischiano il processo l'ex senatore del Pd Stefano Esposito e l'ex aspirante candidato sindaco Enzo Lavolta, assessore all'Innovazione della giunta Fassino. In campagna elettorale, non se n'è fatta parola.
(IStock)
Senza il pandoro, così come senza il panettone, non sarebbe Natale. È però un fatto che il pandoro è considerato un di più, un elemento dolce ancillare del panettone. Se il pandoro può mancare sulla tavola natalizia, non lo può il panettone. In realtà questa subordinazione del pandoro al panettone è abbastanza ingiusta. Il pandoro non è un dolce meno saporito del panettone, da un punto di vista tecnico non è meno complesso e dal punto di vista gustativo come il panettone soddisfa il bisogno di abbondanza, così il pandoro soddisfa quello di leggerezza, offrendo al gusto un sapore univoco non complicato da sospensioni come sono le uvette e i canditi nel panettone tradizionale e tutte quelle che passano per la mente del creatore nel panettone di ricerca. E leggera è anche la consistenza, che ricorda più una torta, un pan di Spagna o una torta paradiso, più che un pane addolcito e (assai) lievitato come invece fa il panettone. Questa nettezza di gusto lo rende aperto ad abbinamenti estemporanei: tipico di bambini e golosi è il sandwich di pandoro che si realizza con due fette di pandoro e un ripieno dolce che può andare dalla tavoletta di cioccolato al torrone.
La storia anzi la probabile storia del pandoro ci porta indietro fino agli antichi Romani. Plinio il Vecchio, infatti, raccontando le abitudini culinarie dell’antica Roma parla di un panis preparato abitualmente con fior di farina, burro e olio da Virgilius Stephanus Senex. Marco Gavio Apicio parla di un pane da liberare della crosta e poi imbibire di latte, friggere e cospargere di miele, perciò dorato. Da questi esempi di panis dorato antico-romano secondo molti deriva il levà veronese, anch’esso un pane dolce, di occasione festiva, ma più dolce del suo avo, con tanto di copertura di glassa con mandorle. Pare che nella corte veneziana il levà, come altri dolci locali, fosse ricoperto di sottilissime foglie d’oro zecchino e perciò fosse chiamato pane de oro. Dal levà deriverebbe il nadalin, nome veneto del dolce natalino ossia di Natale che si chiamerebbe così proprio perché sarebbe nato a Natale del XIII secolo per festeggiare l’investitura dei Della Scala a Signori di Verona. Il nadalin presenta un impasto morbido, una cupola decorativa di crosticina e frutta secca e una forma a stella di otto punte. Dal 2012 è anche un prodotto De.Co. del Comune di Verona, con tanto di ricette ufficiali per le due versioni, quella con lievito di birra oppure quella con lievito madre.
Questi i presunti prototipi - finora - del pandoro. Zoomiamo, quindi, sul pandoro. Del pandoro come lo conosciamo oggi abbiamo una data ufficiale di nascita. È il 14 ottobre 1894, il giorno in cui il pasticcere Domenico Melegatti brevetta la ricetta e il nome del suo dolce, Pandoro, ottenendo poi l’attestato di privativa industriale del ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia qualche tempo dopo: il 20 marzo 1895 il ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia, infatti, rilascia l’«attestato di privativa industriale della durata di anni tre per un brevetto designato col titolo Pandoro (dolce speciale)». La nascita del Pandoro con tanto di data presenta anche una… annunciazione! E già, in perfetto calco del paradigma religioso natalizio di nascita precedentemente annunciata. Sul quotidiano veronese L’Arena del 21 e 22 marzo 1894 (sei mesi prima del brevetto) compare l’avviso pubblicitario di annuncio del prodotto: «Il Pasticcere Melegatti… avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato l’autore lo reputa degno del primo posto nomandolo Pan d’oro». Nel depositare il brevetto il nome perde la sua composizione triplice e diventa un tutt’uno, quel «Pandoro» che, come succede alle grande invenzioni, per antonomasia, da nome proprio poi diventerà nome generico. Oggi pandoro è un marchionimo (così si chiamano i nomi originati da marchi) ovvero un tipo di dolce che tutti i pasticceri artigianali e industriali realizzano, non solo Melegatti e non solo i pasticceri di professione, essendo tanti i cucinieri casalinghi che si dilettano a impastare e cucinare pandori e panettoni in casa per le feste natalizie. Il Pandoro di Melegatti è un dolce ispirato alla morbidezza del levà, grazie ad un impasto diverso e allo stampo di cottura, ideato sempre da Domenico Melegatti, spiega il sito Internet dell’azienda, con forma di stella troncoconica a otto punte, brevettato anch’esso. La forma a stella del pandoro ricorda certamente quella del nadalin, rispetto al quale però è assai più alto e privo di qualsiasi topping. Secondo lo studioso Andrea Brugnoli il pandoro potrebbe però trovare altre fonti, ovvero il pane di Natale del monastero di San Giuseppe a Fidenzio: nei registri dell’economato del ministero il 21 dicembre 1790 si acquistano 500 uova, tantissimo burro e tantissimo altro zucchero. Altra fonte di ispirazione per Brugnoli sarebbe il Pan d’Oro che nel 1871 Cesare Capri di Verona porta ad un’esposizione pasticcera regionale presentandolo come «panettone di pasta dolce». Non si sa e in fondo non è nemmeno così interessante saperlo, essendo il pandoro talmente perfetto da interessarci dalla sua nascita ufficiale in poi. Tornando alla questione linguistica, perché il nome pandoro passi da proprio a generico bisogna attendere il 1927. In quell’anno, entra nella quinta edizione dell’importantissimo - per la costruzione della lingua italiana - Dizionario moderno di Alfredo Panzini. La voce «pandoro» nel dizionario recita: «Dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».
Voi siete team pandoro, team panettone o team entrambi? In tutti i casi vi, anzi ci, sarà utile una breve disamina nutrizionale del pandoro, per capire cosa mangeremo quando lo mangeremo alla tavola natalizia. Non si può certamente sostenere che il pandoro sia dietetico. Si tratta al contrario di un dolce generoso di zuccheri e grassi saturi, che sono i macronutrienti tipici delle festività, ma anche quelli che dobbiamo tenere a bada. Generoso, conseguentemente, di calorie: 100 g ne hanno tra 390 e 435. Considerato che da un pandoro di 1 kg traiamo 8 fette (sono le 8 punte) si capisce come ogni fetta pesi 125 grammi. Se ragioniamo sui 100 g, abbiamo tra i 49 e i 53 g di carboidrati di cui tra 22 e 26,5 di zuccheri. Considerato che il pandoro si mangia alla fine di un pasto in cui i primi piatti sono sontuosi e abbondanti anch’essi e che questo pasto festivo e festoso si ripete (il cenone della Vigilia, il Pranzo del Natale, il Pranzo di Santo Stefano, minimo) si capisce come introiettare ulteriori 400 calorie circa composte per lo più di carboidrati e tra questi di zuccheri sia un elemento da tenere attenzionato, cercando dunque di non mangiare troppo nel resto delle giornate festive. I carboidrati sono solo l’inizio. Abbiamo tra 20 e 21 grammi di grassi, di cui tra 10 e 13 sono saturi e sono dovuti all’abbondanza di tuorlo d’uovo e burro. Infine abbiamo tra 7 e 8 grammi di proteine che sì, abbassano lievemente l’indice glicemico del dolce e si affiancano anche all’indice lipidico, tuttavia - com’è ovvio - non li annulla. In definitiva, chi è a dieta e chi deve limitare fortemente i grassi saturi, magari perché ipercolesterolemico, ipertrigliceridico o afflitto da altra patologia del metabolismo dei grassi e in generale del metabolismo dovrebbe mangiare giusto un pezzetto, forse evitare il pandoro. Non ne deve abusare nemmeno chi ha una forma e una salute perfette, perché - ricordiamoci - un eccesso di grassi saturi fa ingrassare e aumenta il rischio cardiovascolare, oltre a sovraffaticare l’apparato digestivo. Nel caso si voglia o si desideri un consumo più virtuoso, il consiglio è quello di optare o per il panettone o per il pandoro e non mangiare entrambi alla fine dello stesso pasto, per il dispiacere del team che definiremo «entrambi e pure uno insieme all’altro». Altri consigli: mangiare mezza fetta di pandoro anziché una fetta intera, stare molto leggeri per quanto riguarda grassi e zuccheri al pasto successivo o precedente, fare una bella passeggiata dopo il pranzo della festa. Il consiglio più strong di tutti è quello di non mangiare proprio il pandoro, ma come si fa? Quello semi strong è di non mangiarlo a fine pasto, ma a merenda (con un tè o un caffè rigorosamente senza zucchero) o a colazione. Tuttavia noi preferiamo pensare che mangiare il pandoro a fine pasto vuol dire anche seguire una tradizione e quindi vi riproponiamo il «trucchetto» di mangiarne, magari, mezza fetta.
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La decisione del tribunale di La Spezia che consente a una minorenne di assumere un nome maschile è contestabile. E quando si parla di transizioni chirurgiche bisogna sapere che le difficoltà sono tantissime.
Il tributo alle vittime della strage di Bondi beach a Sydney (Ansa)
Era evidente che l’antisemitismo da un momento all’altro sarebbe esploso con morti ammazzati. Nessuno si faccia illusioni: è solo l’inizio. Sono colpevoli i giornali che hanno riportato slogan genocidi, i politici e i cardinali che ripetono le menzogne di Hamas, i media che, grazie anche al fiume di denaro che da decenni arriva dal mondo islamico, hanno demonizzato lo Stato di Israele, i governanti che hanno permesso che la bandiera delle belve di Hamas sventolasse addirittura su palazzi di sedi istituzionali, tutti coloro che l’hanno appesa o messa sui social. Chiunque gridi slogan come «globalizzare l’intifada», sta invocando più morti ammazzati.
Ancora più sconvolgente dell’attentato antisemita in Australia sono i commenti sui social ai post che danno la notizia.
L’antisemitismo si è rifugiato nelle fogne nel 1945, il nazismo gli aveva tolto ogni dignità, e nelle fogne è rimasto fino al 1975. Fino a quella data sapevamo che Israele era dalla parte della ragione, che la sua nascita non solo era legittima, ma era un raggio di giustizia nella storia. Se guardiamo una carta geografica, dal Marocco all’Indonesia è tutto islam. Ovunque sono state annientate le civiltà precedenti, al punto tale che non ce ne ricordiamo, per cui non lo riconosciamo nemmeno per quello che è: dannato colonialismo genocidiario.
Nel 1453 cade Costantinopoli, quella che noi chiamiamo Turchia era il cristiano Impero romano d’Oriente. L’Afghanistan era una culla del buddismo. Siria e Nord Africa erano culle del cristianesimo, civilissime e verdi. L’islam distrugge tutte le civiltà precedenti. Il Bangladesh, una delle culle dell’induismo, è stato reso privo di induisti nel 1971, grazie a violenze spaventose seguite dalla più grande pulizia etnica di tutta la storia dell’umanità, 10 milioni di profughi induisti hanno lasciato la terra dei loro padri. Gli induisti sono stati convinti ad andarsene con sistemi energici e creativi: donne stuprate, bambini col cranio fracassato, uomini, ragazzi e bambini costretti a calarsi le brache e, nel caso non fossero circoncisi, castrati.
Poi il popolo di Israele ritorna alla terra di suoi padri. Si tratta di un fazzoletto di terra, senza una goccia di petrolio, ma è considerato un’onta imperdonabile. Quello di Israele è l’unico popolo tra quelli occupati dall’islam che sia riuscito a riconquistare la terra dei suoi padri interamente occupata. In mano all’islam era una terra di sassi e scorpioni, quando diventa Israele diventa un giardino. Nel 1975 la narrazione cambia. Israele ha incredibilmente vinto la guerra del ’48 e quella dei 6 giorni. Riesce a vincere dopo alcune sconfitte iniziali la guerra del Kippur. L’islam perde la speranza di una vittoria militare seguita dalla distruzione di Israele, e la strategia diventa mediatica.
Attraverso la corruzione di burocrati europei e dell’Onu, testate giornalistiche, campus statunitensi, università europee e poi ogni tipo di scuola, con la complicità del Partito comunista sovietico e di tutti i suoi fratellini nel mondo occidentale, grazie a fiumi di petrodollari, Israele è stato sempre più demonizzato mentre il vittimismo palestinese è diventato una nuova religione. Questo ha portato inevitabilmente alla beatificazione anche del terrorismo contro i cristiani, contro di noi. Sacerdoti e vescovi apprezzano gli imam più violenti, ignorano i martiri cristiani della Nigeria, decine e decine di migliaia di morti, rapimenti, stupri, mutilati e feriti, chiese distrutte, scuole vandalizzate, ma ignorano anche le violenze dei palestinesi contro i cristiani. A Betlemme i cristiani erano l’80% della popolazione prima di finire sotto l’amministrazione palestinese. Ora sono il 20%. La diminuzione è ottenuta mediante una serie di angherie che finiscono per suggerire l’idea di un trasferimento altrove, in termini tecnici si chiama pulizia etnica, e mediante il rapimento di ragazzine preadolescenti, prelevate all’uscita dalla scuola, e costrette a sposare un islamico, in termine tecnico si chiama stupro etnico. L’unico Stato in Medio Oriente dove il numero di cristiani aumenta costantemente è Israele, in tutti gli altri sta drammaticamente diminuendo.
Il vittimismo palestinese è elemento fondamentale, insieme alla denatalità, per la islamizzazione dell’Europa. L’antisemitismo, manifesto dal 1975, è esploso il 7 ottobre del 2023. Le cause dell’antisemitismo sono molteplici. La più apparentemente banale è la coscienza della superiorità culturale ebraica. I numeri sono impietosi. Gli ebrei sono lo 0,2% della popolazione mondiale. Il 20% dei premi Nobel sono stati attribuiti ad ebrei. Se guardiamo solo i premi Nobel per la fisica, la statistica sale al 35%. Il 50% dei campioni di scacchi è costituito da ebrei. Tra le motivazioni di questo successo c’è una potente identità etnica, il popolo eletto, coloro che parlavano con Dio e ne hanno avuto 10 comandamenti.
Fondamentale è il maggior quantitativo di studi, tenendo presente che ogni cosa che studiamo aumenta le sinapsi che abbiamo nel cervello. La stragrande maggioranza degli ebrei conosce almeno due lingue, l’ebraico, linguisticamente complesso che si scrive da destra a sinistra, e poi la lingua gentile del popolo ospitante o comunque l’inglese. Questa ricchezza linguistica si raggiunge attraverso lo studio e quindi aumenta le sinapsi. La religione ebraica è studio. La innegabile superiorità culturale ebraica genera due sentimenti negativi, l’invidia, una delle emozioni più potentemente distruttive, e il terrore del complotto, e qui arriviamo a un’altra causa di antisemitismo.
Sono più in gamba di noi in molti campi dello scibile umano, conoscono una lingua strana con cui possono comunicare tra di loro, ergo fanno continuamente complotti a nostro danno. In questa teoria gli ebrei sono descritti come assolutamente geniali da un lato e contemporaneamente i più idioti del reame: con tutta la loro incredibile potenza, tutto quello che ottengono è di essere costantemente odiati, di subire persecuzioni come nessun altro, non poter girare per la strada con una kippà o una stella di Davide, avere uno Staterello di 19.000 chilometri quadrati senza una goccia di petrolio che tutti vogliono distruggere.
C’è un antisemitismo cristiano che ha nutrito secoli di pogrom. Molti cristiani ritengono che Gesù Cristo sia stato ucciso dagli ebrei, che sia morto per volontà del Sinedrio. Gesù Cristo è andato alla morte per prendere su di sé i nostri peccati per volontà di Dio. Il popolo eletto ha avuto il compito di custodire la sua nascita e quello di custodire la sua morte. Quello che molti rimproverano agli ebrei è il loro non convertirsi al cristianesimo. In un certo senso questo loro rifiuto è «un continuo uccidere Cristo». Noi cristiani abbiamo avuto il compito da Cristo e da San Paolo di amare gli ebrei e convertirli. Con lunghi atroci secoli di persecuzioni e di odio abbiamo reso impossibile una conversione che in realtà è ovvia.
Ora il vaso di Pandora è scoperchiato. Giustificando, anzi amando, il terrorismo palestinese abbiamo sdoganato quello contro di noi. Anche gli assassinati del Bataclan avevano «rubato la terra ai palestinesi»? Per evitarci la tentazione dell’islamofobia ci è stato celato che a molte vittime del Bataclan sono stati cavati gli occhi e tagliati i genitali, come non ci hanno raccontato le sevizie durate ore con cui sono stati massacrati i nove italiani della strage di Dacca, luglio 2016. C’era anche una donna incinta. Ci hanno nascosto che cosa le hanno fatto perché altrimenti ci viene l’islamofobia.
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Le tecnologie nucleari rappresentano un pilastro fondamentale per affiancare le fonti rinnovabili, garantendo energia continua anche quando sole e vento non sono disponibili. Oltre a fornire elettricità affidabile, il nucleare contribuisce alla sicurezza del sistema elettrico e all’indipendenza energetica nazionale, elementi essenziali per sostenere la transizione energetica.
Negli ultimi anni, i reattori modulari di nuova generazione (SMR/AMR) hanno ridefinito l’equilibrio tra costi e benefici della produzione nucleare. Pur richiedendo investimenti iniziali significativi, questi impianti offrono vantaggi strutturali che li rendono sempre più sostenibili e competitivi nel lungo periodo. I capitali richiesti sono infatti sensibilmente inferiori rispetto ai grandi impianti tradizionali: si stimano 2-3 miliardi di euro per un reattore da 300 MWe contro i 12 e i 15 miliardi di euro per produrre 1.000 megawatt di potenza (1 GWe).
La standardizzazio dei moduli e l’assemblaggio in fabbrica garantiscono efficienza industriale, riducendo tempi, costi e complessità progettuale. Inoltre, con una vita operativa prevista di oltre 60 anni e un costo globale di produzione prevedibile, il nucleare modulare assicura energia affidabile a costi stabili, riducendo l’esposizione alla volatilità dei mercati energetici.
Il nucleare è già una realtà consolidata: nell’Unione europea sono operativi circa 100 reattori, con oltre 12 Paesi che stanno rilanciando questa tecnologia. Anche in Italia, l’aggiornamento del Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030) al 2024 prevede uno scenario con una potenza nucleare installata tra gli 8 e i 16 GW al 2050, pari a circa l’11-22% del fabbisogno nazionale.
A supporto dello sviluppo della filiera nazionale, è nata Nuclitalia società costituita da Enel, Ansaldo Energia e Leonardo che si occuperà dello studio di tecnologie avanzate e dell’analisi delle opportunità di mercato nel settore del nuovo nucleare. Il suo obiettivo è valutare le tecnologie più promettenti, costruire una filiera innovativa e sostenibile e sviluppare partnership industriali e di co-design, valorizzando le competenze delle industrie italiane. Inoltre, Nuclitalia monitora e partecipa attivamente ai programmi internazionali di R&D sulle tecnologie di IV generazione, per garantire un approccio integrato e avanzato al nucleare del futuro.
In sintesi, il nucleare modulare offre all’Italia la possibilità di affiancare le rinnovabili con energia stabile e programmabile, favorendo sicurezza energetica e sviluppo industriale. Con SMR e AMR, il Paese può costruire una filiera nazionale competitiva e sicura, contribuendo in modo concreto alla transizione energetica e all’indipendenza energetica.
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