Il bello degli immobili è che, a meno che siano bunker o parcheggi sotterranei, si vedono. E se tiri su un grattacielo o un condominio alberato dove prima c’era una casa a due piani, anche quello, prima o poi, si nota. E se il via libera del Comune lo dà una un organismo che si chiama commissione Paesaggio, in primo luogo vuole dire che si tratterebbe di tutelare il paesaggio (lo dice la Costituzione italiana, all’articolo 9) e in secondo luogo significa che non è roba da carbonari. Se poi, una volta partite le indagini della magistratura, ci si fa anche promotori di una legge chiamata «Salva Milano», c’è pure la confessione, come ha scritto ieri sulla Stampa Salvatore Settis.
Eppure, in casa Pd e nell’ufficio di Beppe Sala, è calata una strana nebbia agostana e sembra che non si veda più nulla di tutto ciò che è accaduto sotto gli occhi di tutti. Il sindaco di Milano «festeggia» la caduta dell’accusa di induzione indebita che però, allora, politicamente è fin peggio perché lo fa passare per una «res nullius» nelle mani dello Stefano Boeri, o del palazzinaro di turno. Mentre Emily Schlein tenta di stare contemporaneamente con Sala e con la Procura di Milano.
«A settembre o si fa sul serio, o si va a casa». Parole pronunciate dal sindaco milanese negli ultimi giorni (mentre ieri sera, con una storia su Instagram, ha annunciato l’intenzione di staccare, tra una settimana, per godersi una quindicina di giorni di ferie, ndr). Il messaggio è chiaro: se entro l’autunno non verranno approvati il nuovo Piano di governo del territorio, il piano casa e la vendita di San Siro, lui è pronto a lasciare. Ma più che un ultimatum politico, è un segnale di isolamento: Sala è sempre più solo, stretto tra scadenze cruciali, una maggioranza logorata e un’inchiesta che, pur alleggerita nei capi d’accusa, continua a tenerlo sotto pressione e, forse, anche in scacco.
L’induzione indebita a lui inizialmente contestata è stata archiviata dal giudice sul caso Pirellino. Ma resta l’indagine per falso ideologico, legata alla conferma di Giuseppe Marinoni nella commissione per il Paesaggio, avvenuta nel novembre 2024. Secondo i pm, Sala avrebbe attestato formalmente l’assenza di conflitti d’interesse, nonostante fosse già noto che Marinoni era oggetto di un’indagine penale in corso da mesi. A rafforzare il sospetto c’è un fatto nuovo: due giorni fa, Marinoni è stato messo agli arresti domiciliari con le accuse di corruzione, falso e turbativa d’asta. Non è ancora chiaro che tipo di rapporto personale vi fosse tra i due. Quello che si sa è che Marinoni era stato componente di quella commissione così strategica già fin dal 2009 e che, nel gennaio 2023, il Comune concesse il patrocinio istituzionale a un suo progetto: lo studio «Nodi e porte metropolitane Milano 2050». A firmare fu lo stesso Sala, quando Marinoni non era ancora indagato. Per la Procura, però, quel patrocinio non fu mera cortesia: servì a legittimare pubblicamente un tecnico che, parallelamente, stava lavorando con operatori immobiliari privati attivi proprio nelle aree interessate dallo studio. Un’operazione che oggi si deve guardare con occhi nuovi : un sigillo politico dato a un progetto che, secondo gli inquirenti, nascondeva un’agenda privata.
I numeri che emergono dalle carte dell’inchiesta sono rilevanti. Marinoni avrebbe incassato oltre 395.000 euro in parcelle professionali e, tra le somme, spiccano migliaia di euro per incarichi su progetti urbanistici in via Palizzi e via Pisani, su cui la commissione si era ovviamente espressa con parere favorevole. Una posizione, quella di Marinoni, che per gli inquirenti mescolava senza filtri interessi pubblici e compensi privati.
Gli ultimi sviluppi giudiziari gettano una luce quasi beffarda anche sui sedicenti «anticorpi» della politica. Negli ultimi anni, Palazzo Marino ha promosso vari strumenti contro le infiltrazioni nella macchina pubblica: un comitato per la legalità, la nomina nel 2024 di Marco Ciacci alla direzione Legalità e controlli, regolamenti anti-conflitto, audit interni. Ma nessuno di questi strumenti è riuscito a intercettare il funzionamento del sistema che oggi è al centro dell’inchiesta. Eppure, non erano crimini informatici transnazionali, ma secchiate di cemento. Nessuno si è accorto di nulla e l’ex giudice Gerardo Colombo si era dimesso solo a marzo 2025 dal Comitato per la legalità, dopo l’arresto del dirigente comunale Giovanni Oggioni.
Anche il Pd si muove nel buio. Ieri Schlein ha risposto agli attacchi di Giuseppe Conte cavillando: «L’alleanza col M5s si costruisce Regione per Regione. A Milano il Movimento non è in maggioranza e io non condivido quelle valutazioni. Ho confermato il pieno supporto al sindaco Sala». Insomma, a Milano, vietato spaccarsi su Sala, il sindaco che di mattone ne capisce benissimo fin dai tempi dell’Expo e del famoso patto non scritto Napolitano-Renzi con la Procura, ma che questa volta si faceva dettare la linea dall’archistar Boeri persino sul problema sicurezza. E chissà come farà, a gennaio, a presentare le Olimpiadi invernali come nulla fosse, per giunta in quello stadio di San Siro che stava tentando di svendere a Inter e Milan. Schlein difende Sala, ma se si va a vedere ciò che disse il 18 luglio, si capisce che è in un vicolo cieco: «Abbiamo fiducia nel lavoro della magistratura […] ma il Pd è al fianco di Sala». Prima o poi, anche lei dovrà scegliere.
Washington striglia Zelensky e lui si riallinea: «Pronti a firmare l’intesa con gli Usa»
- Il leader ucraino riceve l’inviato Kellogg e ringrazia l’America dopo l’ammonimento di Waltz («Abbassi i toni»). Per gli Stati Uniti al G7 la Russia non è l’«aggressore».
- A tre anni dall’inizio del conflitto il capo della Commissione Ue, escluso dalle trattative, visiterà la Capitale degli invasi. Con lei Costa, Sánchez (e Calenda). Macron si sfila.
Lo speciale contiene due articoli.
Prove di disgelo tra Washington e Kiev? Ieri, l’inviato americano per l’Ucraina, Keith Kellogg, è stato ricevuto da Volodymyr Zelensky nella Capitale ucraina. Nonostante al termine del colloquio la parte americana abbia chiesto e ottenuto l’annullamento della conferenza stampa congiunta dei due, il leader ucraino ha cercato di gettare acqua sul fuoco dopo le fibrillazioni degli ultimi giorni. Zelensky ha definito il colloquio con Kellogg una «buona discussione», dicendosi inoltre «grato agli Stati Uniti per tutta l’assistenza e il supporto bipartisan a favore dell’Ucraina e del popolo ucraino». «L’Ucraina», ha aggiunto, «è pronta per un accordo d’investimento e sicurezza forte ed efficace con il presidente degli Stati Uniti». Insomma, sembrerebbe essere tornato timidamente il sereno tra Washington e Kiev. Ricordiamo che, l’altro ieri, Donald Trump ha duramente criticato il presidente ucraino, definendolo un «dittatore» per aver posticipato le elezioni che avrebbero teoricamente dovuto tenersi l’anno scorso. L’inquilino della Casa Bianca era notevolmente irritato dopo che Zelensky si era lamentato dei colloqui tra americani e russi a Riad. Il presidente ucraino aveva inoltre affermato che l’omologo statunitense fosse circondato da disinformazione russa.
Tornando a ieri, alcune ore prima che la conferenza stampa a Kiev fosse annullata, il consigliere per la sicurezza nazionale americano, Mike Waltz, aveva rilasciato un’intervista a Fox News, sostenendo che l’Ucraina avrebbe dovuto «abbassare i toni, riflettere attentamente e firmare l’accordo» sui minerali strategici, che era stato proposto da Washington. «Abbiamo offerto agli ucraini un’incredibile e storica opportunità per far sì che gli Stati Uniti d’America co-investano con l’Ucraina, investano nella sua economia, investano nelle sue risorse naturali e diventino davvero un partner per il futuro dell’Ucraina in un modo che sia sostenibile, ma che rappresenti anche, credo, la migliore garanzia di sicurezza a cui possano mai sperare, molto più di un altro mucchio di munizioni», aveva aggiunto Waltz, per poi negare che Kiev fosse stata marginalizzata a livello diplomatico. «Portare tutti al tavolo contemporaneamente non ha funzionato in passato. Quindi abbiamo coinvolto una parte, abbiamo coinvolto l’altra parte e poi avremo un processo che andrà avanti sotto la direzione e la leadership del presidente Trump», aveva detto.
Nel frattempo, il Financial Times ha riportato che gli Stati Uniti si sarebbero rifiutati di definire Mosca un «aggressore» nell’ambito di una dichiarazione del G7 dedicata all’anniversario dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Dall’altra parte, Reuters ha riferito che Washington non avrebbe intenzione di co-sponsorizzare una bozza di risoluzione Onu, che sostiene l’integrità territoriale ucraina e che invoca al contempo il ritiro delle truppe russe.
Ora, per quanto possano apparire controverse alcune posizioni di Trump, va comunque tenuto presente che ci troviamo nel mezzo di un processo diplomatico, in cui il presidente americano bilancia bastone e carota, mettendo - in modo alternato - sotto pressione i due belligeranti. Era il 22 gennaio scorso quando il tycoon minacciò di colpire Mosca con «tariffe e sanzioni» se non avesse avviato le trattative diplomatiche sull’Ucraina. Ricordiamo inoltre che Trump ha recentemente imposto dazi aggiuntivi del 10% a quella stessa Cina che, negli ultimi tre anni, ha appoggiato economicamente Mosca. Tra l’altro, durante i recentissimi colloqui di Riad, le delegazioni americana e russa hanno concordato di trattare anche altri dossier geopolitici: un implicito riferimento alle questioni di Iran e Siria, che entreranno probabilmente nel processo diplomatico ucraino.
Non dimentichiamo infatti che la caduta di Bashar Al Assad ha notevolmente indebolito il Cremlino nello scacchiere mediorientale: un elemento, questo, su cui Trump potrebbe far leva nelle trattative ucraine con Vladimir Putin. Lo zar teme lo strapotere turco in Siria. E sta cercando di recuperare terreno nell’area dopo l’ascesa di Mohammed Al Jolani. Guarda caso, proprio ieri è stato reso noto da Middle East Eye che il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, dovrebbe recarsi ad Ankara la settimana prossima. Trump, dal canto suo, potrebbe manovrare affinché Turchia e Russia si mettano sotto pressione vicendevolmente. Potrebbe usare la pressione turca per indebolire la posizione negoziale di Mosca sull’Ucraina; dall’altra parte, potrebbe contemporaneamente sfruttare la sponda russa, per contenere l’incremento d’influenza di Recep Tayyip Erdogan in Siria. La situazione, come si vede, è complessa. Prima di tacciare semplicisticamente Trump di appeasement, bisognerebbe quindi forse essere un poco più cauti. La partita in corso è molto più ampia e articolata rispetto alla sola triangolazione tra Washington, Kiev e Mosca. Il presidente americano lo ha capito. E sta cercando di comportarsi di conseguenza. Avrà successo? Non lo sappiamo. Ma i giudizi affrettati andrebbero evitati.
Ursula invece va a Kiev con l’elmetto
Ci sono molti modi per perdere una guerra. Si può farlo con onore, come sta facendo l’Ucraina, oppure scivolare nel ridicolo e nell’inutilità, come sta facendo l’Unione europea. E allora, mentre gli assetti della futura Ucraina verranno decisi da Donald Trump e Vladimir Putin, Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio d’Europa, Antonio Costa, lunedì andranno in gita a Kiev per il terzo anniversario dell’invasione russa. Assai probabile che non ci sia Emmanuel Macron, che proprio ieri ha messo a punto un piano per la pace. Con il collega britannico Keir Starmer, mica con la povera Ursula.
Un anniversario è sempre meglio di niente, quando l’agenda politica è tristemente vuota, e allora il presidente della Commissione Ue ieri ha annunciato il viaggio in Ucraina per il 24. Dal suo staff, dopo i duri attacchi del presidente Usa al presidente ucraino, ci si limita a sottolineare che «Zelensky è stato legittimamente eletto in elezioni libere, corrette e democratiche» e che «l’Ucraina è una democrazia, mentre la Russia di Putin no».
Al viaggio di testimonianza ha subito aderito anche Costa, che su «X» ha scritto: «Lunedì 24 febbraio segna il terzo anniversario dell’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina. Ho deciso di essere a Kiev per quell’occasione, con Ursula von der Leyen, per riaffermare il nostro sostegno all’eroico popolo ucraino e al presidente eletto democraticamente Volodymyr Zelensky». Tra le prime adesioni, da registrare per il momento solo quelle dello spagnolo Pedro Sánchez e di Carlo Calenda, che ieri ha definito Giuseppe Conte «un traditore dell’Europa perché sta con Trump». Il sillogismo è un po’ azzardato, perché se l’Europa cincischia su tutto e si è fatta guidare da Joe Biden per quasi tre anni il concetto di «tradimento dell’Europa» va considerato con maggior precisione. Anche non onorare il proprio mandato è un tradimento.
E siccome la tenaglia Putin-Trump evidentemente non bastava per mettere spalle al muro, ieri ci si sono messi anche Regno Unito e Francia. Al momento non sembra che né Macron né Starmer parteciperanno alla simbolica gita di lunedì. Più che altro, hanno trovato di meglio da fare. In particolare, il primo ministro britannico presenterà all’inizio della prossima settimana al presidente americano, direttamente a Washington, un piano anglo-francese che prevede l’invio di circa 30.000 soldati europei in Ucraina per mantenere l’eventuale cessate il fuoco mediato dalla Casa Bianca. È appena il caso di ricordare che Londra, con la Brexit, ha formalmente salutato Bruxelles.
Il piano prevede che il comando delle truppe di pace sia affidato a non meglio precisati «Paesi europei» e che riguardi il presidio delle principali città ucraine, dei porti e di altri siti infrastrutturali critici come le centrali nucleari. Ci sarà anche un monitoraggio più tecnologico, affidato ad aerei dell’intelligence, droni, satelliti. Secondo l’inglese Telegraph, poi, saranno inviate anche navi da pattugliamento nel Mar Nero, in modo da monitorare le minacce (non solo russe) alle rotte di navigazione commerciale.
Anche Macron ha in programma un viaggio a Washington la prossima settimana per parlare con Trump. Il presidente francese, come ha spiegato il ministro per l’Ue, Benjamin Haddad, attraversa l’Atlantico per un colloquio a quattr’occhi che servirà a «difendere gli interessi europei» e a mettere le basi per una pace in Ucraina «stabile e sostenibile».
E così, mentre la pace si decide altrove e con iniziative concrete, la missione della Von der Leyen a Kiev rischia di essere buona per qualche foto e nulla più. Oltre al fatto che, considerato il livello delle polemiche di questi giorni, la gita potrebbe diventare una mezza pagliacciata anti Trump con tanto di elmetto. Giusto per continuare a promettere sempre più armi europee e, di fatto, disprezzando una tregua.
- In collegamento video con Davos il leader degli Usa stronca i progetti di transizione: «Sono un imbroglio da 2.000 miliardi». E annuncia: «Faremo dell’America la capitale delle criptovalute». Poi se la prende con l’Ue: «Ci tratta sempre molto male».
- Il presidente argentino Javier Milei demolisce le ideologie dominanti: «Alibi per lo statalismo».
Lo speciale contiene due articoli.
Qui di notte la temperatura scende a -15. Ma nello sfavillante centro congressi con il soffitto a nido d’ape è più bassa già a metà pomeriggio, quando sul maxischermo compare Donald Trump in collegamento dalla Casa Bianca. È il momento clou del World economicfForum di Davos, santuario dell’economia planetaria, con numerosi presidenti, delegati, tecnocrati del progressismo mondialista, raggelati nell’ascoltare il simbolo della restaurazione. Applaudono ma sono quasi tutti increduli nell’essere risvegliati a schiaffi dal sonno del politicamente corretto, davanti alle cime rese immortali da Thomas Mann, che qui scrisse La montagna incantata.
A suonare la sveglia è l’uomo che vorrebbe mettere fine alle loro invenzioni a tavolino: la globalizzazione senza identità, le derive woke, il catastrofismo climatico, la carestia globale, la transizione energetica in salsa Greta Thurnberg, le mollezze dell’Europa radical. Alla faccia di Francis Fukuyama è ora di rientrare nella Storia. Nella sua prima uscita su un palcoscenico internazionale, il presidente americano con il capello color polenta impiega pochi minuti a farlo capire alla platea globale. «È stata una settimana storica per gli Stati Uniti, è iniziata l’età dell’oro», esordisce con un ottimismo da eredità elettorale. «Presto saremo più, forti, più ricchi, più uniti e il pianeta sarà pacifico e prospero. La mia amministrazione ha dato il via a una rivoluzione del buon senso e sta agendo con una velocità senza precedenti, anche perché Joe Biden, con il suo gruppo di inetti, aveva perso il controllo di ciò che stava accadendo nel paese e ha provocato la peggiore crisi inflazionistica dell’era moderna».
Sulla transizione verde Trump ha idee in totale controtendenza rispetto al Wef e lancia la prima stilettata agli euroburocrati. «L’industria green è un imbroglio, il Green deal è un grande imbroglio costato 2.000 miliardi. Lasceremo che la gente compri le auto che vuole». Sull’energia: «Il carbone è una buona a risorsa di backup. Costa poco e negli Stati Uniti ne abbiamo tantissimo, così come abbiamo tantissimo gas e petrolio». Dalla transizione ai tassi, continua a parlare a Ursula von der Leyen. «L’Unione europea ci tratta molto male, con tasse e Iva molto consistenti. Non prendono i nostri prodotti agricoli e non prendono le nostre auto. Eppure ci mandano auto a milioni e mettono tasse su cose che vogliamo fare».
Trump si lamenta per le imposte alte a Google e Apple (è il conto da pagare alle nuove alleanze) e torna a guardare verso Bruxelles. «Amo l’Europa, ma il sistema europeo rende molto difficile portare prodotti laggiù e tuttavia si aspettano di vendere i loro prodotti negli Usa». La conseguenza è un consiglio che suona come una minaccia o una ricetta cinese: «Il mio messaggio a tutte le aziende del mondo è semplice, producete negli Usa e avrete le tasse al 15%, più basse di qualsiasi nazione della Terra. Ma se non produrrete il vostro prodotto in America dovrete pagare un dazio, una tariffa che indirizzerà trilioni di dollari nel nostro Tesoro».
Liquidata l’economia con la certezza che il Congresso approverà i tagli fiscali («I tassi d’interesse dovrebbero calare in tutto il mondo»), The Donald passa alle guerre, non solo commerciali. «Chiederò all’Opec e a Riad di abbassare i prezzi del petrolio. Se il petrolio costasse meno, la guerra fra Russia e Ucraina finirebbe subito». Sull’altro incendio, quello in Medio Oriente, conferma: «Ancora prima di entrare in carica il mio team ha negoziato un accordo a Gaza che senza di noi non sarebbe mai avvenuto». E ribadisce l’alleanza con l’Arabia Saudita annunciando: «Farà un investimento di 600 miliardi negli Stati Uniti, sto lavorando per portarlo a 1000».
Dal grande schermo svizzero Trump ribadisce la tolleranza zero sui migranti: «Lo stop all’invasione dal Messico è necessario». E annuncia: «Faremo degli Stati Uniti la capitale dell’intelligenza artificiale e delle criptovalute». Poi ha ancora qualcosa da dire al vecchio continente: «Chiederò ai paesi Nato di aumentare la spesa per la difesa al 5% del pil. Era solo al 2% e la maggior parte delle nazioni non ha pagato finché non sono arrivato io». La botta è forte, il dossier è alto mezzo metro. E per ora Von der Leyen non può che abbozzare: «Se Trump mette i dazi siamo pronti a negoziare». Più battagliera la presidente della Bce Christine Lagarde, che aveva anticipato: «Questa è una sfida esistenziale, siamo pronti a rispondere».
The Donald scompare dal video e il gotha scosso torna nel conformismo consueto. Mentre a Davos si ripetono scene viste da anni (i cecchini sui tetti delle gasthaus, i delegati che pascolano fra la gioielleria Staüble e la pasticceria Weber, le piste notturne illuminate a giorno e le escort che salgono da Zurigo), viene consegnata alla stampa la lettera aperta di 370 miliardari - azionisti di fondi, banchieri, tecnocrati - che chiedono ai governi «di mettere un freno all’enorme concentrazione di ricchezza che compromette la coesione sociale». I paperoni che piangono per il povero all’angolo; un lavacro delle coscienze, nella certezza che non avverrà mai.
Milei sfrenato: «Il woke? Un cancro». Ed elogia la Meloni: «Grande amica»
Giornata di amarezza globale, sulle Alpi svizzere. Ieri ai banchieri e ai miliardari riuniti a Davos è toccata una predica ultra liberista e da parte di Javier Milei. Il presidente argentino, accolto l’anno scorso con curiosità e sorrisetti di compassione, quest’anno ha chiesto a Lorsignori di «rinunciare al cancro dell’ideologia woke e del femminsmo radicale», definiti due trucchetti per spingere «un nuovo statalismo». E ha sbattuto in faccia ai massimi teorici della globalizzazione economica e del multilateralismo il fatto che a distanza di soli 12 mesi lui non è più solo. Milei ha sbandierato la vittoria di Donald Trump, l’impegno , del «meraviglioso Elon Musk», della «mia cara amica Giorgia Meloni», di Benjamin Netanyahu in Israele e di Viktor Orban in Ungheria. Tutti insieme «per difendere l’Occidente».
Un segno dei tempi è andare a ripescare il titolo del Forum economico mondiale di Davos del 2019, l’anno prima della pandemia cinese: «La globalizzazione 4.0: plasmare un’architettura globale nell’era della quarta rivoluzione industriale». Vedendo come andata, ieri, costretti ad ascoltare la dura rampogna di Milei, verrebbe da dire che andarono per plasmare e furono plasmati. Del resto senza i soldi dei governi, Washington per primo, si fanno pochi affari.
Milei, vestito blu, camicia azzurra e cravatta blu, comincia il suo intervento con una notazione che sembra banale, ma è una mezza dichiarazione di guerra a chi negli anni ha coccolato i Soros, gli Obama, i Prodi: «Non mi sento più solo, perché nel corso di un anno nuovi alleati hanno abbracciato le idee di libertà in ogni angolo del mondo». E fa l’elenco di cui sopra, tutti governanti che nella vulgata di moda a Davos avrebbero dovuto far esplodere il debito pubblico e far schizzare gli spread, e invece sono stati ampiamente «digeriti» dai mercati. Musk, l’uomo del momento, viene difeso a spada tratta: «Il mio caro amico Elon è ingiustamente vilipeso», non ha fatto nessun saluto fascista, «ma solo un gesto innocente che riflette semplicemente il suo entusiasmo e la sua gratitudine verso le persone».
Poi spiega, indirettamente, il perché di una serie di risultati elettorali: «Ci vuole un’alleanza internazionale delle nazioni che combattono per la libertà (…) Bisogna combattere il virus mentale dell’ideologia woke, una sorta di epidemia che sta distruggendo le fondamenta della civiltà occidentale». Non solo, ma ai banchieri in grisaglia e doposcì, il presidente argentino fa un elenco di temi che conosco benissimo, visto che molti di loro hanno avuto e hanno larga influenza sui media: «Femminismo, uguaglianza, ideologia gender, cambiamenti climatici, aborto, immigrazione, sono tutte teste del medesimo mostro, usate con l’unico scopo di giustificare l’avanzata dello Stato».
Milei sa bene che per parlare in certi contesti bisogna aver «fatto i compiti» delle varie Troike e del Fmi. E allora ne approfitta per ricordare che in un anno il suo paese ha fatto miracoli: «L’Argentina è diventata un esempio globale di responsabilità fiscale, di mantenimento degli impegni, di contenimento dell’inflazione e di una nuova politica, capace di dire alla gente come stanno le cose». Poi passa Ursula von der Leyen, che con la sua cotonatura rappresenta anche l’opposto tricologico di Millei. Il presidente della Commissione Ue gioisce perché nel 2024 «il mondo ha investito 2.000 miliardi in energie rinnovabili» e quindi ne ricava che «in tutta evidenza, la transizione verde è in atto». In politica si può anche perdere un’elezione, ma non capire perché è davvero imbarazzante.




