2018-09-27
Di fronte alla prima guerra mondiale la sinistra smise di capire il popolo
In Italia, il divorzio tra Paese profondo ed élite culturali ha una storia vecchia di almeno cento anni. Non comprendendo quel conflitto, i socialisti si isolarono dalla nazione. E i loro eredi oggi la scontano.Le élite hanno divorziato dal sentire popolare: lo abbiamo letto centinaia di volte, negli ultimi anni, per spiegare l'avanzata delle forze populiste mal compresa e sottovalutata da analisti e intellettuali. Ma, limitandoci all'Italia, è interessante indagare quand'è che nasca questa frattura. L'imminente centenario della vittoria italiana nella Grande guerra, e ancor più il modo dimesso e imbarazzato con cui ci stiamo avvicinando a esso, ci danno un importante indizio in proposito. È infatti dall'incomprensione di ciò che accadeva nella società italiana prima, ma soprattutto durante e dopo il conflitto mondiale che nasce l'incapacità della sinistra di comprendere l'Italia profonda.Lo scoppio della guerra, lo sappiamo, per i progressisti fu un trauma. Se nei congressi di Stoccarda del 1907, di Copenaghen del 1910 e di Basilea del 1912 l'Internazionale socialista si era impegnata a compiere ogni sforzo, nei singoli Paesi, per scongiurare lo scoppio di un'eventuale guerra, quando i cannoni cominciarono a tuonare davvero l'unanimità crollò come un castello di carte. Il 29 luglio 1914 si era riunito a Bruxelles il Bureau socialiste international, in quello che lo storico Georges Haupt definirà il «vertice dell'impotenza». Dopodiché, la gran parte dei partiti socialisti assunse sempre più posizioni ispirate alla difesa nazionale. Il primo a rompere il fronte fu il partito tedesco, il più influente, che il 4 agosto votò a favore dei crediti di guerra, imitato poco dopo dal partito austriaco. «Nell'ora del pericolo noi non abbandoniamo la patria», dichiarò il tedesco Hugo Haase in Parlamento. I socialisti francesi, il giorno dopo i funerali di Jean Jaurès, si schierarono col governo, evocando la «guerra a oltranza» contro la Germania, mentre i socialisti belgi, dopo l'invasione tedesca, non se la sentirono di passare per traditori della patria e una parte cospicua dei laburisti inglesi approvò l'entrata in guerra. La partecipazione dei socialisti ai governi di unità nazionale avviene in Inghilterra (Arthur Henderson), in Belgio (Emile Vandervelde), in Francia (Marcel Sembat e Jules Guesde). L'Italia, tuttavia, faceva eccezione. Se ne rese conto, con un fierezza decisamente ingiustificata, il socialista Giovanni Zibordi, che su La Giustizia scrisse: «Il coro pettegolo si ripete, avvalorato dall'esempio: vedete i socialisti di Germania e d'Austria? Vedete i compagni di Francia e del Belgio? Voi rimarrete soli con la vostra protervia d'ingenui e d'illusi. Ebbene. Dico subito senz'esitanza, che sento alto l'orgoglio di socialista italiano di essere ingenuo e illuso». Orgoglio quanto mai mal speso. Il risultato fu che da noi, come ha scritto Giano Accame, «si ebbe il paradosso del solo partito socialista europeo che non avesse solidarizzato con la patria in guerra, ma anche di quello che in questa posizione si trovò ad avere il minor supporto tra scrittori e artisti». Il fronte interventista, infatti, era variegato: si andava dai nazionalisti ai dannunziani, dai futuristi agli idealisti gentiliani, ma c'erano anche i sindacalisti rivoluzionari, il socialista irredentista Cesare Battisti, la frazione di ex socialisti che aveva seguito Benito Mussolini al Popolo d'Italia, parte del movimento anarchico e gli «interventisti democratici» di Gaetano Salvemini. Anche la sinistra, insomma, era stata smossa dalla stasi ideologica. La linea ufficiale del partito, tuttavia, restava ferma al più ottuso neutralismo, con tutta l'ambiguità del caso racchiusa nell'infelice slogan «né aderire, né sabotare» coniato da Costantino Lazzari. Tra coloro che si distanziarono da tale linea ufficiale, vanno citati gli allora sconosciuti Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, il primo, allo scoppio del conflitto, attestandosi su posizioni mussoliniane (nel senso del Mussolini del 1914, ovviamente), il secondo facendo seguire anche i fatti alle parole, andando al fronte. Giova ricordare, a proposito di divorzio tra popolo ed élite, che se Gramsci, in seguito, rifletterà molto sulla categoria del nazionalpopolare (o «nazionale-popolare», come scriveva lui), Togliatti si renderà famoso per aver fulminato Pietro Secchia con la celebre battuta: «E tu, pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?». Insomma, par di capire che quelli che compresero meglio quel tornante storico furono sempre anche i più attenti, in generale, ai sommovimenti del Paese reale. Il grosso del Partito socialista, tuttavia, non si smosse dalle sue posizioni. Nel corso del conflitto, L'Avanti continuò a scrivere: «Né un uomo né un soldo per la guerra della borghesia». E ancora nel 1917 parlò di scontro inutile per «le rupi del Trentino e le caverne del Carso». Qualche parola in controtendenza da Turati, Treves o dal segretario della Cgl Rigola era arrivata solo dopo Caporetto, «ma erano prese di posizione ormai troppo tardive, oltre che contraddette dalla maggioranza massimalista del partito socialista», scriveva ancora Accame. Il divorzio dalle sorti dell'Italia iniziò proprio lì.Certo, che alla vigilia l'interventismo fosse più popolare tra gli intellettuali che tra i cittadini è un fatto, ma i socialisti non capirono che proprio il conflitto stesso stava per cambiare la sensibilità popolare. Lo storico Emilio Gentile, per esempio, ha detto che nelle trincee della prima guerra mondiale «gli italiani sentirono forse per la prima volta di essere cittadini di una patria comune. Molti non avevano condiviso le ragioni degli interventisti, tuttavia – se pure in forma elementare – gli ideali risorgimentali di patria e libertà e grandezza della nuova Italia furono per la prima volta percepiti da gran parte della popolazione, come mai era accaduto prima. Per milioni d'italiani fu la prima vera esperienza nazionale vissuta collettivamente». Il collega Antonio Gibelli gli ha fatto eco: «Se è vero che l'identità nazionale può coincidere col sentimento di grande cose fatte assieme o patite assieme, possiamo senz'altro dire che nel corso della Grande guerra molte cose furono fatte, molte di più patite insieme da un grandissimo numero di italiani». Da questa esperienza collettiva, il Partito socialista fu escluso, continuando a parlare il linguaggio di un antimilitarismo ottocentesco che ormai suonava incomprensibile alle orecchie di chi era passato attraverso le tempeste d'acciaio. Anche chi era stato contrario alla guerra e, nelle trincee, si era trovato a maledire chi l'aveva voluta, nell'atmosfera festante per la vittoria si trovò a provare un inatteso orgoglio per la propria esperienza al fronte. Tanto più quando per tale orgoglio patriottico si poteva anche rischiare la pelle. Impreparato allo scoppio della guerra, infatti, il Partito socialista fu addirittura disastroso a gestire la sua fine, che vide la caccia al reduce e gli eccessi del biennio rosso. Una criminalizzazione dell'esperienza al fronte che fu fatale ai socialisti.. Questo autoghettizzarsi fuori dal tempo causerà infatti la crisi delle sinistre nel primo dopoguerra e il successo del fascismo che, a torto o a ragione (ma le ragioni non contano, nella storia), si considerava l'erede della «Italia di Vittorio Veneto». Sarà solo dopo il 1945, in seguito alla sconfitta militare del fascismo, che la sinistra si ritroverà a ereditare le sorti di una nazione della cui storia unitaria aveva mal visto praticamente ogni tappa saliente. Le origini di un'identità nazionale debole e di una crescente incomprensione progressista per l'anima del Paese sono tutte lì. E il mesto centenario della vittoria, accompagnato da vergogna e disinteresse, sta lì a dimostrare che quella ferita è ancora aperta.
Charlie Kirk (Getty Images)