2025-07-14
        «Convivremo con la minaccia atomica»
    
 
        Giulio Sapelli (Getty Images)
    
Lo storico Giulio Sapelli: «L’Iran arriverà alla bomba. La Cina economicamente è fragile, ma militarmente fa paura Col declino Usa arriva l’ora delle medie potenze, come la Turchia. E l’Italia, che adesso in Africa dà le carte».«Rassegnamoci: vivremo all’ombra della minaccia nucleare. Dobbiamo essere preparati. E purtroppo affronteremo questa fase storica con un’Europa che si è impiccata da sola con il Green deal. Impossibile pensare a un vero riarmo europeo, finché abbiamo la mordacchia ideologica del green». Giulio Sapelli, storico ed economista, intellettuale finissimo, nel suo libro Verso la fine del mondo, lo sgretolarsi delle relazioni internazionali, traccia con estremo realismo i contorni del nuovo disordine mondiale. «Non esiste più diplomazia, e a ben vedere non esistono più neanche gli Stati. Esiste solo il mercato. Ma l’Italia, paradossalmente, può dare le carte»In cosa consiste questa sua «fine del mondo» preconizzata nel suo libro?«Il nostro “vecchio” mondo è stato governato per secoli da una grande diplomazia internazionale capace di costruire un ordine globale funzionante. Oggi è tutto scomparso: anche il patrimonio intellettuale che faceva del realismo la base dei rapporti internazionali. Per questo oggi regna l’instabilità del mondo “nuovo”».Oggi siamo nelle mani di Donald Trump, e della sua politica protezionistica?«Trump non ha cultura politica, e per questo non lo apprezzo. Tuttavia, pur con i suoi tratti farseschi – e noi italiani alla farsa dovremmo essere abituati, da Mussolini in poi – il presidente altro non rappresenta che la reazione alla globalizzazione estrema, alla cultura woke, alla criminalizzazione dell’uomo bianco, all’ateismo di massa».Criminalizzazione dell’uomo bianco?«Mettiamo che io sia un operaio americano, mi spacco la schiena, vedo il mio stipendio assottigliarsi e patisco i colpi della deindustrializzazione. Cerco di garantire un futuro a mio figlio, che però all’università è penalizzato dalla politica delle quote per le minoranze etniche. Come potrò mai reagire, se non votando Trump? Che tra l’altro incassa anche i consensi di chi è esasperato dal fondamentalismo “green”». Che tuttavia sembra un fenomeno specificamente europeo.«Per capire la genesi dell’ambientalismo estremo, che è una branca del politically correct, bisogna prendersela con i pensatori francesi, come Foucault. Quelli che invasero le università americane, propagandando l’idea che l’Occidente, per sopravvivere, debba odiare sé stesso. Niente di più sbagliato».Ma torniamo a Trump, che rilancia i dazi contro Europa, Canada e Brasile e tanti altri. Sembra un «prendere o lasciare». Non la spaventa il neo-protezionismo?«Per affrontare il discorso sui dazi di Trump bisognerebbe partire dal classico scritto del 1945 dell’economista Albert Hirschman, Potenza nazionale e commercio estero. Diciamolo chiaramente: la questione dei dazi non ha alcun fondamento economico. Ma è molto di più. È uno degli strumenti della politica di potere. La posta in gioco è proprio quella: il potere mondiale».Dunque?«Dunque i dazi rappresentano un modo per fare pressione internazionale. È il mezzo con cui gli Stati Uniti stanno cercando di mantenere disperatamente il loro potere globale. L’altro strumento fondamentale – che le anime belle fanno finta di non vedere – è la minaccia di espansione territoriale. La politica di conquista torna ad essere un tassello imprescindibile della politica mondiale».Espansione territoriale? Intende dire che quando Trump minaccia di mettere le mani sulla Groenlandia, fa sul serio?«Certo che fa sul serio. Partendo dal presupposto che il nemico è la Cina e la Russia, gli Usa si alleano con le monarchie petrolifere del Golfo, e riarmano persino il Giappone».Di conseguenza?«In questo quadro, l’espansione imperiale non può che avvenire verso l’Indopacifico e l’Artico. In futuro i traffici passeranno da lì, e la Groenlandia è una piattaforma strategica fondamentale».Sembra un risiko di scenari incredibili.«Eppure, a bene vedere, Trump si rifà alla tradizione di Theodore Roosevelt, presente in un certo tipo di borghesia nordamericana. Ricordate la guerra americana contro la Spagna per il dominio su Panama e sulle Filippine? Le politiche di espansione territoriale coincisero anche in quella fase con un acceso protezionismo. Anche oggi va così».Come ci siamo arrivati?«Facciamo un ripasso storico della postura americana. Dopo Pearl Harbor gli Stati Uniti si sono legati a doppio filo all’Europa, e la cosa bene o male ha funzionato fino a Barack Obama, il quale decise che il centro degli interessi americani dovesse essere l’Indopacifico, non più il vecchio continente. Joe Biden, in aggiunta, ha inaugurato la rottura con la Cina, celebrando la “Via del Cotone”, un progetto di corridoio economico tra Europa, Medio Oriente e India, in contrapposizione alla cinese “Via della Seta”. Peccato che nessuno si aspettava la reazione aggressiva a questo piano di Cina e Iran».Quale reazione?«Pechino e Teheran si sono scatenati, e hanno armato l’estremismo antisemita di Hamas contro Israele. È in questo contesto che si colloca la strage del 7 ottobre, che dal mio punto di vista è paragonabile all’assassinio di Sarajevo, quello che diede inizio alla prima guerra mondiale. Non amo affatto la destra di Netanyahu, ma il neo-antisemitismo che vedo in giro mi fa orrore».Dunque siamo davanti a una guerra mondiale a pezzi, in cui il vero nemico è la Cina?«Militarmente parlando, sì. È come l’Unione sovietica: economicamente ha piedi d’argilla, perché non ha materie prime e manodopera specializzata. Ma sul piano bellico è indubbiamente una minaccia».A cosa dobbiamo prepararci? Nel suo libro lei parla di «terzo shock esogeno al ciclo economico mondiale: quello dopo la contaminazione pandemica e la guerra imperiale e inter-imperialistica della Russia nei confronti dell’Ucraina».«Bisogna essere realisti, e dirci le cose in faccia. Dovremo convivere per venti o trent’anni con il pericolo nucleare, un equilibrio del terrore punteggiato da tanti conflitti locali».Insomma un ritorno alla guerra fredda?«Un mondo di potenze ostili, l’una contro l’altra armate. Con l’Iran che arriverà alla bomba, nonostante l’intervento americano».E Mosca?«La Russia ha una formidabile aristocrazia, un pugno di uomini in un territorio immenso, perennemente spaventata dai movimenti ai suoi confini. Reagiranno come hanno sempre fatto: attaccando. L’Europa, da questo punto di vista, non ha avuto alcuna visione strategica, non ha mai voluto sistemare i rapporti con Mosca. Nel 2014, quando i russi hanno invaso l’Ucraina, c’era un accordo che non è stato fatto rispettare. Serviva l’Unione europea, servivano le Nazioni Unite. E invece nulla». E oggi l’Europa si riarma, con un piano senza precedenti. E si forma quasi un nuovo asse Londra-Parigi.«Impossibile. Non si può avere una politica bellica e contemporaneamente inginocchiarsi all’ambientalismo ideologico. Gli F-16 non decollano con il bio-fuel. Se dobbiamo ricostruire l’Ucraina, con il suo immenso territorio agricolo, non possiamo inviare trattori dotati di pale eoliche».Insomma, il mondo unipolare americano è al tramonto?«Diciamo che sta declinando, sebbene non sarà facile sostituire il dollaro come valuta di riserva, nonostante le trame delle potenze ostili. D’altro canto, il lento declino dell’impero americano favorisce l’emergere di medie potenze. Pensiamo alla Turchia, che ha esteso la sua influenza fino alla Libia. O pensiamo anche all’Italia».L’Italia?«Per anni, da noi, il perseguimento l’interesse nazionale è stato inteso come apologia di fascismo. Ma oggi il premier Meloni, proprio per il fatto di perseguire questo interesse, ha molto più peso internazionale di quanto sembri».Nonostante i detrattori?«Certo, è molto criticata dall’establishment, dai socialisti, e dalle burocrazie europee vicine a Von der Leyen. Ma l’attuale contesto internazionale caotico, in qualche modo, favorisce un ruolo italiano: grazie alla Meloni e all’Eni, per esempio, siamo noi a dare le carte in Africa, in contrapposizione a russi e cinesi».
        Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
    
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico. 
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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