Alberto Bagnai, economista e responsabile economia della Lega: nonostante i malumori europei si sancirà per legge che l’oro italiano appartiene al popolo.
«Non comprendo il clamore suscitato da questa ovvietà, che peraltro altri ordinamenti nazionali recepiscono da sempre. Si intuisce che qualcuno faceva finta di non capire. Ciò rende molto opportuna la battaglia iniziata dal senatore Borghi e portata avanti oggi dal senatore Malan, e l’intervento del ministro Giorgetti che ha chiarito e chiuso la questione».
Quindi le riserve non aiuteranno a ridurre il debito pubblico?
«Questa idea bislacca del commissario Dombrovskis dipinge l’inadeguatezza delle élite europee. Dodici anni fa il vicepresidente della Bce Constâncio chiarì che la crisi europea era stata causata dal debito privato. D’altra parte, il debito pubblico fatto per contrastare la pandemia evidentemente non ci ha mandato in dissesto. Ma oggi Dombrovskis ne è ancora ossessionato, come certi zero tituli nostrani. I mercati no, e infatti ce lo comprano a man bassa facendo scendere lo spread».
L’Europa a maggioranza decide per il congelamento dei beni russi, e la Banca centrale di Mosca fa causa. Italia e Belgio votano a favore, ma nel contempo chiedono «opzioni alternative».
«Mi sembra un altro esempio di inadeguatezza delle nostre élite. Questa scelta, sostenuta con argomenti di dubbia consistenza giuridica, mette a rischio la fiducia dei mercati internazionali nel sistema finanziario europeo. Ma ancora più pericolosa è la violazione del principio di unanimità. Si sta operando sostanzialmente al di fuori del perimetro dei Trattati, cedendo alle sollecitazioni di leader che hanno già mostrato in tanti campi (si pensi all’ideologia green) di prendere decisioni avventate nella certezza di non essere chiamati a risponderne».
Questi fondi potrebbero costituire garanzie per i finanziamenti alla ricostruzione dell’Ucraina.
«Così sembra, ma ci saranno strascichi legali. E se a seguito di un contenzioso si scoprisse che i fondi russi non possono essere usati a garanzia, a garantire il prestito sarebbero i Paesi europei».
In pratica?
«Faccio un calcolo a spanne. Gli italiani dovrebbero pagare 25 miliardi di tasca loro: questa sarebbe la quota per essere entrati in uno schema senza valide coperture legali. Ci accolleremmo costi esorbitanti per dare retta a chi per anni ci ha bollato come “scialacquatori”».
Nel suo piano di sicurezza nazionale Trump scarica l’Europa?
«È esattamente il contrario. Non è un attacco all’Europa, ma al sistema politico-economico dell’Unione. Partiamo da una premessa: l’Unione europea è antitetica all’Europa, alla sua prosperità e quindi alla sua stabilità politica. Lo dimostrano i risultati, anche politici, dell’austerità imposta da Bruxelles».
Ciò premesso?
«Semplice: fra Europa e Unione europea gli Stati Uniti scelgono esplicitamente la prima. Il documento di Trump è chiaro: agli Stati Uniti serve un’Europa prospera. La depressione e l’instabilità causate dall’attuale governance europea rendono l’Europa inaffidabile come partner strategico. Chi vorrebbe allearsi con governi instabili perché non sostenuti da maggioranze solide, e incapaci di contribuire a progetti comuni perché incapaci di creare valore?».
E la Nato?
«Il documento dice che va posta fine alla percezione di una Nato in perenne espansione. Per le due istituzioni del dopoguerra funzionali alla Pax americana, la cosiddetta “Europa” (prima come Cee poi come Ue) e la Nato, arriva un’esplicita richiesta di ridimensionamento. L’integrazione è andata troppo oltre, i suoi rendimenti sono diventati decrescenti».
Dunque Trump sta dicendo: in Europa o riforme o morte economica?
«Non è difficile capire che cosa cambiare, quale “Europa” non funziona: quella del Patto di stabilità e crescita, che ha funzionato solo quando è stato sospeso, dell’eccesso normativo, che soffoca le imprese, delle decisioni imposte con la forza, per le quali nessuno mai paga un costo politico. Il problema resta quello che vedeva Bossi nel 1998: un’Europa politica non potrà mai nascere».
La Germania, ex alfiere dell’austerity, oggi si riarma.
«Inquietante, ma prevedibile».
Prevedibile?
«Certo. Il keynesismo bellico, la giustificazione della spesa pubblica in nome del riarmo, è lo sbocco inevitabile del modello di sviluppo tedesco, che affida la propria competitività al taglio dei redditi, avvitandosi inesorabilmente verso il basso. Oggi lo dice perfino Draghi. Le fughe in avanti belliciste cui assistiamo non sono solo una reazione isterica causata dall’insicurezza politica di molti governanti attuali. Sono anche una via obbligata per non sconfessare anni di austerità. Dopo aver ripetuto fino alla nausea che la spesa pubblica è il Male, quando se ne ha bisogno si è costretti a giustificarla in nome di un male ancora peggiore: l’aggressione (reale o presunta) da parte di un nemico esterno. La storia insegna che questo gioco è pericoloso. Contiamo sulla ritrovata autorevolezza del nostro Paese per evitare il peggio».
Stupore in Europa dopo la pubblicazione della «dottrina Trump», contenuta del documento della sicurezza nazionale americana che striglia il vecchio continente: «O si cambia, o scomparirete». Giorgio Starace, ex ambasciatore italiano a Mosca, è una rivoluzione?
«Non mi sorprenderei più di tanto. Già durante il suo primo mandato Trump ci aveva avvertito: le sue idee avrebbero preso corpo in una vera e propria “dottrina”, in un manifesto strategico. Che ha il pregio di essere oggi più chiaro che mai».
Chiaro ma terribile. Trump sta abbandonando l’Europa sul piano militare?
«Al contrario, la vedo come un’opportunità straordinaria. Gli Usa incoraggiano l’Europa ad assumere addirittura la leadership della Nato».
Appunto, le pare possibile che dal 2027 la difesa del continente sia solo in mano agli europei?
«Una sfida gigantesca, che oggi ci appare incredibile, un po’ come dare un Harley Davidson in mano a un ragazzino. Anche perché, soprattutto in Francia e Germania, oggi abbiamo a che fare con governi fragili e una classe dirigente non all’altezza. Ma una punta di speranza ce l’ho».
Speranza?
«Sì, spero che questa ultima mossa di Trump costituisca la scossa decisiva per varare quelle riforme che, colpevolmente, in Europa abbiamo sempre rimandato».
Vale a dire?
«Aggiornare il trattato di Maastricht, che ormai ha una certa età. Creare un direttorio europeo, cioè uno stretto collegamento tra i principali leader, per sfornare proposte da mettere sul tavolo dei grandi. Riformare finalmente il processo di decision making europeo».
In che modo?
«Fare in modo, insomma, che in questa Europa allargata si decida a maggioranza su tutte le questioni, perché l’alternativa è la palude. Insomma, diventare grandi, autorevoli, e avere fiducia in sé stessi. Una visione che in queste ore il premier Meloni ha saputo intuire con spregiudicato realismo».
E l’esercito europeo?
«Quella è un’utopia. Ma un coordinamento comune degli eserciti, in una Nato più europea, sarebbe certamente fattibile. In ogni caso, una partnership con gli Stati Uniti sarà comunque imprescindibile, soprattutto sul cyber e sulla tecnologia satellitare».
La Germania ha reagito malissimo al documento trumpiano: «Non ci servono consigli», ha detto Berlino rivolgendosi alla Casa Bianca.
«Questi arroccamenti non hanno molto senso. Non è con un tardivo orgoglio europeo che possiamo impostare un rapporto sano con gli Stati Uniti».
Sbaglia chi parla di un Trump che consegna gli Usa a un nuovo isolazionismo?
«Sbaglia di grosso. Unilateralismo non è sinonimo di isolazionismo. Tutte le iniziative portate avanti da Washington hanno come unico scopo quello di arginare la minaccia cinese. Dunque non è corretto dire che l’America si sta ritirando nel cortile di casa. È una proiezione globale, quella di Trump, nella consapevolezza che nel Pacifico si decide il destino del mondo».
L’Europa rischia di sparire entro 20 anni, come dice il presidente Usa?
«Quella è una dichiarazione di tipo ideologico che va oltre il tema sicurezza. Il modello Trump è poco esportabile, ma è chiaro che sul tema migratorio si stabilirà il futuro politico e sociale dell’Europa».
Anche Mario Draghi, recentemente, ha puntato il dito contro i passi falsi dell’Europa contro sé stessa.
«E ha ragione: gli auto-dazi, le costrizioni imposte alle aziende europee, sono proposte non in linea con i tempi, in questa fase geopolitica. Draghi però non ha fatto cenno al nanismo politico europeo: quando lui era a Palazzo Chigi, io ero a Mosca. Tutti i diplomatici attendevano proposte europee sull’Ucraina: non arrivarono. Né dall’Europa, né dal governo italiano».
Una paralisi?
«Non siamo stati in grado nemmeno di nominare un inviato speciale europeo in Ucraina, un gesto minimo di attenzione verso una crisi nel cuore dell’Europa».
Vladimir Putin rilancia le sue pretese sul Donbass. E si inaspriscono i bombardamenti. Siamo in alto mare con le trattative di pace?
«Gli Usa trattano separatamente con Kiev e Mosca, nella speranza di chiudere. Ma le posizioni sono ancora molto distanti, malgrado i grandi sforzi americani. Sulle questioni territoriali i russi sembrano inamovibili, rivendicano l’annessione delle zone russofone, e in sostanza vorrebbero un’Ucraina alla mercé di Mosca. L’altro tema è il congelamento dei fondi russi, che sarebbe disastroso per l’economia di Mosca. Per questo Putin alza il livello delle minacce».
Si riferisce alle frasi del presidente russo lanciate dall’India? «Nascerà un nuovo ordine mondiale».
«La visita di Putin a Modi rivela effettivamente questa preoccupazione. Le sanzioni indirette sull’India, grande importatore di greggio russo, fanno male al Cremlino».
Dunque?
«I russi si pongono sempre delle scadenze. La prossima data importante è il 9 maggio, il loro giorno della Vittoria. Putin per quella data desidera avere qualche risultato concreto da annunciare, che per adesso non ha».
Nel frattempo?
«Nel frattempo scava il solco tra Usa ed Europa, e ci intimidisce con la narrazione bellica. L’obiettivo è fiaccare la resistenza e ottenere in tempi brevi da Kiev ciò che necessita, sul campo, di tempi lunghi».
Dunque è semplicistico dire che gli Stati Uniti stanno scaricando l’Ucraina?
«È un azzardo. Certo, gli americani vorrebbero chiudere al più presto la vicenda. Ma un totale disengagement da Kiev è altamente improbabile: priverebbe Trump di un’arma di pressione nei confronti di Mosca, utile nella sfida finale con la Cina».
Tuttavia, il presidente francese Macron, da Pechino, dice che Trump potrebbe «tradire Kiev». Come legge queste uscite?
«Francia e Germania hanno un disperato bisogno di leadership. La Germania la cerca riarmandosi, Macron tenta invece di costruire un’immagine autorevole in vista del futuro negoziato».
Ci riuscirà?
«In realtà l’asse franco-tedesco, cioè l’alleanza politica che ha retto l’Europa per tanto tempo, sta visibilmente traballando. Forse subentrerà un altro asse, quello franco-britannico: un’alleanza non solo nucleare, ma strettamente politica».
E Zelensky? I suoi collaboratori sono stati colpiti da clamorose inchieste giudiziarie, e qualcuno ipotizza che sia giunto al capolinea.
«Non sparirà così in fretta. Una transizione caotica a Kiev non fa comodo a nessuno, soprattutto agli Stati europei che confinano con l’Ucraina, che oggi come ieri è un Paese cuscinetto di vitale importanza. Zelensky resterà un figura di rilievo, in questa partita».
L’Italia. Approva la posizione prudente del governo?
«Nonostante le divisioni a livello parlamentare circa il rapporto con la Russia, finora siamo riusciti a fare sintesi, con una apprezzabile continuità di indirizzo. Per il resto, siamo sotto attacco anche noi, come ha detto il ministro Crosetto. Ma non parlo solo di condizionamenti russi».
Cioè?
«L’inchiesta contro Mogherini e Sannino non mi convince. Di Sannino, mio collega, conosco la professionalità e l’onestà. Dietro l’indagine ci vedo un’iniziativa di forze europee contrarie alle politiche pro-Mediterraneo. Qualcuno vuole smontare gli impulsi europei a favore del Sud dell’Europa».
Una crociata anti-italiana? Anche all’estero, abbiamo a che fare con una magistratura sospettata di portare avanti interessi politici?
«Dico soltanto che certe “irregolarità”, a livello europeo, non arrivano solo dagli italiani. Mi rifiuto di pensarlo. Non dimentichiamo poi che tutta Europa è sotto attacco. Abbiamo assistito alle dure critiche di Trump e Putin all’edificio europeo e Elon Musk si è augurato la fine dell’Ue. Non escludo nemmeno la guerra ibrida. Colpire la burocrazia europea fa parte di un disegno più vasto per indebolire i già fragili centri decisionali di Bruxelles».
Chiudiamo con un pensiero sul Vaticano.
«Nella crisi ucraina, ci sono due uomini che dobbiamo ringraziare. Il primo è Papa Francesco».
Lei lo cita nel suo libro La Pace difficile, come una figura chiave.
«È stato il primo a gettare il sasso nello stagno dell’immobilismo europeo. Il primo a ricordare che quando c’è una guerra, si negozia non solo con l’agnello, ma anche con il lupo. Trump, in buona sostanza, ha seguito lo schema di Bergoglio».
E poi?
«E poi Papa Leone, che ha avuto il merito di appoggiare, con discrezione e pragmatismo, il piano americano sull’Ucraina. Anche questo pontefice ha compreso che è meglio portare avanti una piattaforma imperfetta, piuttosto che restare “perfettamente” fermi. Il risultato è che il piano americano ha portato in ogni caso delle utilità, tra cui quella di suscitare qualche proposta europea, per reazione, sul piano diplomatico».
Insomma, nel caos mondiale, Roma torna protagonista?
«Roma e il Vaticano, per buon senso e autorevolezza, tornano le capitali morali d’Europa, in questi tempi smarriti».
«Non basta la separazione delle carriere: serve la separazione dei “palazzi”. Giudici e pm non devono neanche incontrarsi». Giuseppe Benedetto, avvocato siciliano di lungo corso, è il presidente della Fondazione Einaudi, storico punto di riferimento della cultura liberale. Da quel centro studi è nato il Comitato «Sì separa», in prima linea per il sì al referendum sulla riforma della giustizia. «L’Anm è solo un sindacato privato, e con questa riforma smetterà di dettare legge sulle nomine. Serve un cambio culturale: le toghe sono dipendenti pubblici, non i sacerdoti dell’etica, che oggi mettono piede persino in camera da letto».
Il magistrato Nicola Gratteri ha detto che il vero obiettivo del governo è mettere al guinzaglio i pubblici ministeri. Cosa risponde?
«Purtroppo Gratteri si rifiuta di confrontarsi pubblicamente con il comitato del sì. Sarebbe bello discutere anche con lui».
Per dirgli cosa?
«Lo inviterei a leggere il nuovo articolo 104 della Costituzione, così come modificato dalla riforma: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Cosa c’è di più limpido?».
I critici dicono che, nella prassi, alla fine il governo renderà subalterni i pubblici ministeri alla sua volontà. Con tanti saluti alla separazione dei poteri.
«Per fare una cosa del genere bisognerebbe introdurre un’altra riforma costituzionale. Non si possono sottoporre i pm al governo con legge ordinaria. Anche perché la legge ordinaria, a voler ben vedere, lo stabilisce già».
Come sarebbe?
«Le faccio una piccola rivelazione. Già oggi le leggi ordinarie sancirebbero la subalternità del pm al governo. Le cito l’articolo 69 dell’ordinamento giudiziario: “Il pubblico ministero esercita, sotto la vigilanza del ministro di Grazia e Giustizia, le funzioni che la legge gli attribuisce».
Dunque?
«Dunque, a dispetto di quanto si dice, questa riforma della giustizia garantisce maggiore indipendenza ai magistrati. Ci rendiamo conto?»
Quindi sgombriamo il campo? Non ci sarà una magistratura eterodiretta dal governo?
«Esatto, però ricordiamoci anche un piccolo particolare. Nella democratica Francia i pm rispondono al governo. E non solo in Francia».
In Italia non è mai stato accettato questo concetto.
«L’Italia da questo punto di vista rappresenta una rara eccezione in Europa, con una compagnia non proprio commendevole: Turchia, Bulgaria e Romania».
Nel suo libro Non diamoci del tu (Rubbettino), con prefazione del ministro Carlo Nordio, ha elencato gli argomenti a favore della separazione delle carriere. I sostenitori del No dicono che questa separazione esiste già, perché negli ultimi anni sono pochissimi i magistrati che sono saltati da un ruolo all’altro.
«Altolà, questo non c’entra nulla. Continuiamo a confondere la separazione delle carriere con quella delle funzioni. Stampiamocelo in testa: separare le carriere vuol dire intervenire sul Csm».
Cioè?
«Bisogna intervenire su quell’organismo all’interno del quale pm e giudici si valutano a vicenda. È questo il cuore della riforma, che crea due Csm, con l’aggiunta di un’Alta Corte disciplinare. Dunque la separazione dev’essere, per così dire, “fisica”. Io non limiterei a parlare di separazione delle carriere, ma di “separazione dei palazzi”».
Dei palazzi?
«Certo. Mica penseremo di mettere nello stesso palazzo i due Csm. Ci vuole un palazzo della pubblica accusa, e un palazzo separato per i giudici. I magistrati inquirenti e giudicanti non si devono nemmeno salutare. E dovrebbe essere così in ogni palazzo di giustizia».
Lo considera naturale?
«Sarà una questione da porre subito all’ordine del giorno, con le leggi attuative, una volta approvata la riforma tramite referendum. D’altra parte, quale fiducia posso riporre in un tribunale dove gip e pm sono vicini di ufficio? Si può immaginare una vera terzietà se le due figure restano contigue?».
Il sorteggio per la scelta dei membri non le sembra una soluzione raffazzonata?
«Quella è una vera rivoluzione, che stroncherà la malapianta delle correnti. Ricordiamoci che questa riforma è l’ultimo scalino di un percorso iniziato nel 1989, con il codice Vassalli, medaglia d’argento alla Resistenza. Dieci anni dopo il Parlamento ha introdotto l’articolo 111 della Costituzione, quello che introduce la figura del “giudice terzo”. L’ultimo step è la riforma Nordio, che aggiunge un corollario: se il giudice è terzo, allora non può essere collega del pm. Da qui la separazione delle carriere».
In questa lunga campagna elettorale referendaria si è citato a sproposito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
«I ragazzi della Fondazione Einaudi hanno scovato persino il documento audio in cui Giovanni Falcone promuove chiaramente la separazione delle carriere, sostenendo che il sistema non può reggere senza questa riforma».
Perché l’Anm è salito sulle barricate, in difesa della Costituzione?
«Perché l’unico organismo che esce ridimensionato dalla riforma sarebbe proprio l’Anm. Il quale è un sindacato privato, come la Cgil, che tuttavia è stato sempre considerato erroneamente un’istituzione dello Stato e finora ha dettato legge, soprattutto sulle nomine. Il problema vero è di carattere culturale. In Italia è stato deciso che negli ultimi 30 anni l’etica pubblica dovesse essere in mano ai magistrati. Io penso invece che un magistrato non debba occuparsi della morale, ma perseguire e valutare reati. Dove sta scritto che le toghe devono mettere piede nella stanza da letto?».
Si riferisce per caso al ddl sulla violenza sessuale, che verrà riscritto dalla maggioranza dopo giorni di polemiche?
«Ho letto un’intervista del presidente tribunale di Milano che plaude al concetto di “consenso attuale”. Non me ne capacito: siamo fuori dal mondo».
Non condivide quella legge?
«Una donna può dire di aver negato il consenso senza addurre prove? E come si possono provare certe cose? Potranno esserci abusi e vendette?».





