«Non basta la separazione delle carriere: serve la separazione dei “palazzi”. Giudici e pm non devono neanche incontrarsi». Giuseppe Benedetto, avvocato siciliano di lungo corso, è il presidente della Fondazione Einaudi, storico punto di riferimento della cultura liberale. Da quel centro studi è nato il Comitato «Sì separa», in prima linea per il sì al referendum sulla riforma della giustizia. «L’Anm è solo un sindacato privato, e con questa riforma smetterà di dettare legge sulle nomine. Serve un cambio culturale: le toghe sono dipendenti pubblici, non i sacerdoti dell’etica, che oggi mettono piede persino in camera da letto».
Il magistrato Nicola Gratteri ha detto che il vero obiettivo del governo è mettere al guinzaglio i pubblici ministeri. Cosa risponde?
«Purtroppo Gratteri si rifiuta di confrontarsi pubblicamente con il comitato del sì. Sarebbe bello discutere anche con lui».
Per dirgli cosa?
«Lo inviterei a leggere il nuovo articolo 104 della Costituzione, così come modificato dalla riforma: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Cosa c’è di più limpido?».
I critici dicono che, nella prassi, alla fine il governo renderà subalterni i pubblici ministeri alla sua volontà. Con tanti saluti alla separazione dei poteri.
«Per fare una cosa del genere bisognerebbe introdurre un’altra riforma costituzionale. Non si possono sottoporre i pm al governo con legge ordinaria. Anche perché la legge ordinaria, a voler ben vedere, lo stabilisce già».
Come sarebbe?
«Le faccio una piccola rivelazione. Già oggi le leggi ordinarie sancirebbero la subalternità del pm al governo. Le cito l’articolo 69 dell’ordinamento giudiziario: “Il pubblico ministero esercita, sotto la vigilanza del ministro di Grazia e Giustizia, le funzioni che la legge gli attribuisce».
Dunque?
«Dunque, a dispetto di quanto si dice, questa riforma della giustizia garantisce maggiore indipendenza ai magistrati. Ci rendiamo conto?»
Quindi sgombriamo il campo? Non ci sarà una magistratura eterodiretta dal governo?
«Esatto, però ricordiamoci anche un piccolo particolare. Nella democratica Francia i pm rispondono al governo. E non solo in Francia».
In Italia non è mai stato accettato questo concetto.
«L’Italia da questo punto di vista rappresenta una rara eccezione in Europa, con una compagnia non proprio commendevole: Turchia, Bulgaria e Romania».
Nel suo libro Non diamoci del tu (Rubbettino), con prefazione del ministro Carlo Nordio, ha elencato gli argomenti a favore della separazione delle carriere. I sostenitori del No dicono che questa separazione esiste già, perché negli ultimi anni sono pochissimi i magistrati che sono saltati da un ruolo all’altro.
«Altolà, questo non c’entra nulla. Continuiamo a confondere la separazione delle carriere con quella delle funzioni. Stampiamocelo in testa: separare le carriere vuol dire intervenire sul Csm».
Cioè?
«Bisogna intervenire su quell’organismo all’interno del quale pm e giudici si valutano a vicenda. È questo il cuore della riforma, che crea due Csm, con l’aggiunta di un’Alta Corte disciplinare. Dunque la separazione dev’essere, per così dire, “fisica”. Io non limiterei a parlare di separazione delle carriere, ma di “separazione dei palazzi”».
Dei palazzi?
«Certo. Mica penseremo di mettere nello stesso palazzo i due Csm. Ci vuole un palazzo della pubblica accusa, e un palazzo separato per i giudici. I magistrati inquirenti e giudicanti non si devono nemmeno salutare. E dovrebbe essere così in ogni palazzo di giustizia».
Lo considera naturale?
«Sarà una questione da porre subito all’ordine del giorno, con le leggi attuative, una volta approvata la riforma tramite referendum. D’altra parte, quale fiducia posso riporre in un tribunale dove gip e pm sono vicini di ufficio? Si può immaginare una vera terzietà se le due figure restano contigue?».
Il sorteggio per la scelta dei membri non le sembra una soluzione raffazzonata?
«Quella è una vera rivoluzione, che stroncherà la malapianta delle correnti. Ricordiamoci che questa riforma è l’ultimo scalino di un percorso iniziato nel 1989, con il codice Vassalli, medaglia d’argento alla Resistenza. Dieci anni dopo il Parlamento ha introdotto l’articolo 111 della Costituzione, quello che introduce la figura del “giudice terzo”. L’ultimo step è la riforma Nordio, che aggiunge un corollario: se il giudice è terzo, allora non può essere collega del pm. Da qui la separazione delle carriere».
In questa lunga campagna elettorale referendaria si è citato a sproposito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
«I ragazzi della Fondazione Einaudi hanno scovato persino il documento audio in cui Giovanni Falcone promuove chiaramente la separazione delle carriere, sostenendo che il sistema non può reggere senza questa riforma».
Perché l’Anm è salito sulle barricate, in difesa della Costituzione?
«Perché l’unico organismo che esce ridimensionato dalla riforma sarebbe proprio l’Anm. Il quale è un sindacato privato, come la Cgil, che tuttavia è stato sempre considerato erroneamente un’istituzione dello Stato e finora ha dettato legge, soprattutto sulle nomine. Il problema vero è di carattere culturale. In Italia è stato deciso che negli ultimi 30 anni l’etica pubblica dovesse essere in mano ai magistrati. Io penso invece che un magistrato non debba occuparsi della morale, ma perseguire e valutare reati. Dove sta scritto che le toghe devono mettere piede nella stanza da letto?».
Si riferisce per caso al ddl sulla violenza sessuale, che verrà riscritto dalla maggioranza dopo giorni di polemiche?
«Ho letto un’intervista del presidente tribunale di Milano che plaude al concetto di “consenso attuale”. Non me ne capacito: siamo fuori dal mondo».
Non condivide quella legge?
«Una donna può dire di aver negato il consenso senza addurre prove? E come si possono provare certe cose? Potranno esserci abusi e vendette?».
Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, ha appena dato un colpo di acceleratore al grande sogno leghista dell’autonomia differenziata. Quattro accordi preliminari con altrettante Regioni del Nord - Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria - su materie precise: Protezione civile, previdenza complementare, professioni, e coordinamento della finanza pubblica in ambito sanitario.
Con queste pre intese è stato servito l’«antipasto» dell’autonomia, e si è attirato ancora una volta le ire dell’opposizione: perché l’ha fatto?
«Abbiamo trattato per un anno con le Regioni. Otto ministeri coinvolti, più il dipartimento della Protezione civile. Siamo arrivati a un testo che accontenta molti e scontenta pochi».
E gli alleati?
«C’è stato un vertice di maggioranza con tutti i leader. Giorgia Meloni ha condiviso i contenuti e il metodo. I governatori hanno preteso un’autorizzazione specifica del premier, e questa delega si è materializzata una settimana fa. E poi abbiamo firmato. Avendo un testo in mano, potrò portare questo schema di intesa in Consiglio dei ministri entro dicembre».
E intanto?
«Intanto lancerò un appello a tutti i governatori, soprattutto quelli che saranno neo-eletti, e gli dirò: studiate bene questa opportunità. Per alcune Regioni del Mezzogiorno la pre intesa sarebbe un bel passo in avanti. Si è fatto un gran parlare per slogan intorno all’autonomia differenziata, e poco si è parlato dei contenuti».
Per esempio: cosa cambia sulla Protezione civile con queste pre intese?
«In caso di evento catastrofico, invece di aspettare per mesi che lo Stato dichiari una Regione in emergenza nazionale, il presidente di Regione potrà emanare una prima ordinanza. E potrà affrontare gli eventi con maggiore tempestività. Fa comodo a tutti, sia in Calabria che in Lombardia».
Nelle pre intese è finita anche la gestione della sanità: ma sotto quale punto di vista?
«Ci sono troppi parametri a livello nazionale che mettono un tetto alla spesa farmaceutica, ai gas medicali, al personale, alla medicina convenzionata. Alcune Regioni hanno degli avanzi economici ma non riescono a spenderli. Con queste intese concediamo autonomia nella gestione di alcune spese sanitarie, senza far pagare un euro in più allo Stato. È l’unico strumento con cui si potrà concretamente affrontare il tema delle liste d’attesa».
Grandi proteste arrivano dal centrosinistra e dai sindacati. Dicono che prima di muoversi sull’autonomia bisogna fissare i livelli minimi che lo Stato deve garantire su tutto il territorio nazionale. Altrimenti si spacca il Paese.
«Se uno non capisce ciò che è stabilito per legge, non so cosa farci. Nove materie sono già cedibili alle Regioni e si può procedere tranquillamente».
Ma la Consulta non vi ha smontato la legge?
«Al contrario, ha confermato l’intero impianto. Di più: ha detto che possiamo procedere anche sulla sanità».
Il cammino dei cosiddetti Lep sembra davvero accidentato…
«Mercoledi prossimo inizierà l’incardinamento della legge delega per la definizione dei Lep. Io dico di partire intanto con le pre-intese, dove possibile. Poi, strada facendo, procederemo anche con le altre materie».
Tempi?
«Gli obiettivi di legislatura sono questi: la conferma delle pre intese con le Regioni che ci stanno, e la definizione dei Lep. Durante il cammino parlamentare, che durerà almeno un anno, si potrà andare avanti a negoziare una parte delle materie coinvolte».
Parallelamente, c’è anche una scadenza importante da rispettare: quella sul federalismo fiscale. Pena la perdita dei fondi europei.
«È stata introdotta da Mario Draghi una tappa del Pnrr che prevede l’attuazione del federalismo fiscale, entro il marzo del 2026. Ci siamo portati avanti nella legge di Bilancio, e poi prevediamo un decreto legislativo ad hoc, ma devo dire che siamo abbastanza avanti. Penso che l’approvazione di questo decreto entro marzo sia un’ipotesi assolutamente realizzabile».
Il candidato del centrosinistra in Campania, Roberto Fico, dice che il progetto di autonomia è la «rovina del Sud».
«Ricordo a Fico che 5 stelle e Lega firmarono un “patto di governo”, quando lui era presidente della Camera. E l’articolo 20 dava più autonomia alle Regioni, applicando le intese già sottoscritte dal governo Gentiloni. Fico rinnega sé stesso?».
Edmondo Cirielli, anche lui candidato in Campania, dice: «Chiederò l’autonomia ma solo in cambio di risorse». E Occhiuto continua a sollevare dubbi.
«Nella legge di Bilancio abbiamo stanziato 200 milioni sulle materie di valore sociale, e 250 milioni sul diritto allo studio universitario. Sul capitolo sanità, certe Regioni potranno ottenere risorse quando metteranno in regola i conti e saranno in grado di garantire gli attuali Livelli essenziali di assistenza».
Sta dicendo che le Regioni del Sud potranno avvantaggiarsi dell’autonomia se prima faranno i «compiti a casa»?
«Esatto, anche perché ciò che chiediamo alle Regioni è giustificare sulla base del principio di sussidiarietà, se sia davvero conveniente che una materia sia gestita sul territorio. La domanda da fare alle Regioni è questa: hai dimostrato di essere efficiente oppure no?».
In sintesi: l’autonomia non divide l’Italia, ma i buoni amministratori dai meno buoni?
«Proprio così. Non è colpa mia se le Regioni che garantiscono oggi i livelli essenziali sono di un certo tipo. Dicono che l’autonomia alimenta le sperequazioni? Ma quelle ci sono già e sono i cattivi amministratori a determinarle, perché non concedono ai cittadini i servizi di cui hanno diritto».
Non pensa che debba esserci solidarietà e la parte del Paese più ricca debba aiutare l’altra?
«Luca Zaia dice: “Ci sono Regioni dove ci vorrebbe più Stato, perché c’è già troppa autonomia”. Ha ragione. Basta andare a vedere le carte della Corte dei Conti per capire quali Regioni meritano più autonomia e quali invece più Stato».
Più Stato vorrebbe dire anche presidenzialismo o premierato?
«Io ho sempre pensato che il premierato, con un capo del governo eletto dal popolo, sia complementare all’autonomia».
Perché?
«Perché le regioni virtuose vanno premiate con la fiducia e l’autonomia, mentre le altre hanno bisogno di un maggior controllo centrale. In certi casi, quando le Regioni non riescono nemmeno a gestire bene le competenze che hanno oggi, i poteri sostitutivi dello Stato devono essere attivati».
Quindi sta dicendo che vanno commissariate le Regioni male amministrate?
«Sì, ma con buon senso. Se il commissario del governo, come accade in Italia, è il presidente della Regione stessa che ha combinato guai, è come mettere la volpe nel pollaio. Serve semmai, in certi casi, un super tecnico che possa davvero risolvere i problemi».
Cosa ha pensato quando ha letto le frasi pronunciate al ristorante del consigliere della presidenza della Repubblica, Francesco Saverio Garofani?
«Sarebbe una cosa da ridere, se non fosse un consigliere del presidente della Repubblica. Ci sono ruoli che obbligano ad avere un certo atteggiamento: certe cose le puoi pensare, ma non dire in pubblico».
Non può restare al suo posto?
«Quelle sono decisioni che riguardano il Quirinale e poi ci sono le valutazioni personali che spettano all’interessato. Non mi piace chi grida ogni giorno alle dimissioni di questo o quell’altro».
C’è chi dice che, in caso di fallimento del referendum sulla giustizia, il governo vacillerà. Qualcun altro sostiene che possa essere la stessa Meloni a staccare la spina per andare a nuove elezioni. Lei cosa dice?
«Non ti curar di loro, ma guarda e passa. Io sono stato in prima linea sul fronte giustizia, con i cinque referendum della Lega che intervenivano anche sulla separazione della carriere. Li ho promossi e sottoscritti personalmente, e abbiamo portato a votare milioni di persone. Stavolta il quorum non c’è, sono convinto che il referendum passerà: gli italiani sosterranno convintamente una riforma di buon senso. I critici si mettano il cuore in pace: questo governo arriverà a fine legislatura e vincerà anche le prossime elezioni».
«Non ho problemi a dire che Zohran Mamdani farà più danni a New York degli attentatori dell’11 settembre».
Mario Adinolfi, giornalista, presidente del movimento cattolico del Popolo della Famiglia, nonché fondatore del Partito democratico, ai tempi di Veltroni. Sta davvero parlando del neosindaco di New York, socialista e musulmano?
«Proprio lui. Chiamarlo socialista mi pare esagerato, parliamo pur sempre della sinistra dei dem americani. È semplicemente un ragazzo nato stra-bene, non certo un campione dell’ultraproletariato. Il vero dato identitario, però, è l’islamismo».
Perché?
«Un musulmano sciita, sposato con una siriana musulmana, che durante la campagna elettorale si è fatto fotografare deliberatamente mentre prega in moschea inginocchiato con altri uomini? Non comprendiamo la potenza propagandistica di questa immagine?».
Cosa significherebbe?
«Il dato religioso di quella fotografia è che le donne in quei luoghi non possono entrare, perché sottomesse all’uomo. Per me quell’immagine spiega perfettamente chi è davvero Mamdani».
Guardi che è la stessa persona che ha promesso di rendere New York un «santuario Lgbt».
«Quello è un cavallo di Troia. La considero un’espressione della tipica menzogna islamica: nel Corano è legittimata la menzogna se finalizzata alla conquista e alla sottomissione al volere di Allah».
Dunque?
«Dunque a mio parere Mamdani è un islamista che recita la parte del politicamente corretto, per far penetrare più facilmente il suo credo nella città più ferita dagli attacchi islamici, cioè New York».
E la sua ricetta economica, dove punta anche sulla patrimoniale?
«Quel programma, che provocherà una fuga di capitali, serve fondamentalmente a danneggiare la città. In tutti i suoi aspetti, a cominciare dalla sua tradizione di ricchezza e potenza economica».
Ma è stato eletto, ed è certamente un segnale interessante.
«È stato votato in una condizione di delirio, una sindrome di Stoccolma: molto spesso ci si innamora del proprio carnefice. Ma non è l’unico esempio. Il ministro dell’Interno britannico è una donna che ha preteso di giurare sul Corano e non sulla Bibbia. Ha spiegato questa scelta dicendo che l’islam è “il motore della sua vita”, e parliamo del ministro dell’Interno. Ci rendiamo conto di dove stiamo andando?».
Nel suo libro Wokismo e Islamismo ha elaborato una teoria originale. Una sorta di alleanza perversa che minaccerebbe l’Occidente.
«La più grande minaccia dei nostri tempi arriva proprio dal punto di incontro tra “wokismo” e “islamismo”, uniti contro un nemico comune: la tradizione giudaico-cristiana occidentale. È già accaduto in passato, la storia non si ripete ma risuona alla stessa maniera».
Cioè, cos’è accaduto in passato di simile?
«L’alleanza tra wokismo e islamismo ricalca l’ascesa, nel Novecento, di comunismo e nazismo. Due ideologie sostanzialmente antitetiche, che tuttavia per un certo periodo hanno trovato un punto di incontro per interesse di potere. Il patto Molotov-Ribbentrop, con la spartizione della Polonia, aprì la stagione più tragica della storia dell’umanità. Oggi, come negli anni Venti del Novecento, quando si affermarono fascismi e bolscevismi, abbiamo ancora due ideologie dominanti che si tengono per mano».
Sta paragonando la teoria “woke” al comunismo? Sembra un salto piuttosto ardito…
«Guardiamo meglio, e troveremo dei punti di contatto. L’uomo comunista puntava al paradiso passando per la dittatura del proletariato, mentre l’egualitarismo wokista propugna l’ideologia dell’autodeterminazione: siamo tutti uguali nei diritti, e dunque ognuno fa un po’ come gli pare».
Sarebbe a dire?
«Sono maschio ma in realtà voglio diventare femmina? Ho il diritto di farlo. Mi voglio togliere la vita? Ho il diritto di farlo, e lo Stato mi deve addirittura aiutare. In base a questa visione ideologica, nessuno ha il diritto di ostacolare le intenzioni dell’individuo, e chi ci prova è un residuato di “patriarcato”, da combattere con la guerriglia della “cancel culture”. Anche intonare Tu scendi dalle stelle alla recita di Natale diventa proibito».
Anche l’altra gamba della sua metafora sembra azzardata: che c’entra il nazismo con l’islam?
«Mi rifaccio a papa Benedetto XVI, che nel celebre discorso di Ratisbona nel 2006, espose un argomento fortissimo: da Maometto null’altro è venuto fuorché violenza e spada. A seguito di questa considerazione, a quel Papa, uno dei più grandi intellettuali del ventunesimo secolo, fu impedito di parlare nell’Università La Sapienza di Roma, cioè nella capitale della cristianità. Un obbrobrio che in tanti hanno dimenticato».
Sì, ma fare dell’islam un blocco unico non le pare eccessivo?
«È ovvio che non tutti i musulmani sono terroristi o fondamentalisti, ma le esultanze dopo l’11 settembre e dopo il 7 ottobre 2023 mi portano a dire che ,nell’intimo, l’islam ha una radice violenta. Che spinge parte di quel mondo a definire azioni orrende come atti di resistenza eroica».
Questa saldatura tra wokismo e islamismo nasce in seno alla sinistra, dice lei, che ha contribuito alla nascita del Partito democratico, quasi 20 anni fa.
«E soffro moltissimo nel vedere la sinistra, e il partito che ho fondato, ridotto così. Condannato all’opposizione perenne. Temo addirittura che il Pd desideri quella condizione».
Vale a dire?
«Esattamente come i comunisti italiani stavano comodi all’opposizione, oggi gli “wokisti” del Pd si accontentano di gridare al fascismo, senza mai assumersi la responsabilità di governo. Anche perché Schlein continua ad apparire francamente inadeguata».
Insomma, un partito irriconoscibile, rispetto agli inizi?
«Mi candidai alla segreteria del Pd, in principio, sull’onda di una novità che si chiamava di Barack Obama, uno che non arrivava dalle Ztl, non era miliardario, e si dichiarava contro i matrimoni omosessuali. Nel programma che presentammo con Veltroni riprendemmo quelle convinzioni cristiane».
Sta dicendo che nel Dna del Pd c’era un’anima cattolica che oggi è scomparsa?
«Faccia lei. Nel poster che campeggia davanti all’ufficio di Elly Schlein al Nazareno, c’è la mia faccia, insieme a Veltroni, Prodi, Enrico Letta e Rosy Bindi. Quattro cattolici su cinque».
E adesso?
«Nel Pd i cattolici non li vedo più. D’altra parte, come fa un cattolico a militare in un partito che teorizza l’abortismo, l’eutanasia, e che vota per 800 miliardi di riarmo europeo? I veri cattolici hanno lasciato il partito da tempo: quelli che restano, sono abbarbicati alla poltrona per ragioni di potere».
Questo spiega, negli anni, il calo dei consensi?
«Certo, il tracollo elettorale del Pd, che in 10 anni ha perso la metà dei voti, si spiega proprio con l’abbandono dell’elettorato cattolico. Doveva essere il nuovo partito della Democrazia cristiana, o perlomeno il partito della nazione. Oggi invece il partito della nazione è Fratelli d’Italia».
Sono spariti solo i partiti cattolici, o anche gli elettori?
«Sono ancora lì i cattolici, sebbene sparpagliati. E meritano un po’ più di attenzione dal governo. Se dopo tre anni di ministro Roccella abbiamo toccato il record negativo di natalità, forse riscoprire il reddito di paternità sarebbe opportuno. Se oggi i moduli burocratici recano ancora l’asterisco quando si tratta di scegliere tra maschio o femmina, forse serve un po’ più di coraggio. Il governo prenda esempio da Trump, che come primo atto della presidenza ha varato un ordine esecutivo per ricordare a tutti che i generi sono solo due».
È diventato trumpiano?
«Per me oggi Trump è il defensor fidei: ed è paradossale che sia proprio lui, con quell’aura da puttaniere lontano dai precetti religiosi. Però, di fatto, è l’unico leader mondiale che parla chiaramente dello sterminio dei cristiani in Nigeria. E l’unico che ha scelto un vice quarantenne, cattolico e antiabortista militante. Non sto cercando un sant’Ignazio di Loyola, ma politici all’altezza, e se la sfida è quella di Mamdani, ben venga Trump».
E Meloni?
«Si ricordi di essere donna, madre e cristiana. Donna, quindi obiettivo da colpire dell’ideologia transgender. Madre, e quindi consapevole che le iniezioni per preparare i bambini al cambio di sesso in età prepuberale sono una follia, e mi aspetto che il governo vieti certe pratiche, visto che lo fanno già all’ospedale Careggi di Firenze. E poi cristiana, e quindi con un’attenzione diversa sul tema dell’aborto, perché mi pare incredibile che un’Italia con nascite sottozero continui ad avere 70.000 aborti ogni anno».
Ha picchiato sulla sinistra, ma anche questo centrodestra non la fa felice?
«A me sembra che il centrodestra soffra ancora di un pesante complesso di inferiorità. È come se avesse paura del sospiro di Michele Serra su Repubblica. Se stanno ancora al punto zero, a patire la cosiddetta subalternità culturale, nominino ministro direttamente Nanni Moretti».
Quello che a D’Alema gridava: «Dì qualcosa di sinistra»?
«Ecco, mi verrebbe da dire: “Meloni, fai qualcosa di destra!”».





