«Fondare una corrente politica? Per carità, non diciamo parolacce. Ma una cosa è certa: Forza Italia deve camminare su gambe nuove, altrimenti sarà solo la cheerleader degli altri».
Anche quando si affronta la pesantezza della politica, le conversazioni con Andrea Ruggieri scivolano piane e leggere come certi vini bianchi in orario aperitivo. Forse anche per via di questa capacità di smussare gli angoli e sintonizzarsi con l’interlocutore, il giornalista ed ex parlamentare oggi viene inquadrato come uno dei tessitori del nuovo corso del partito. Tutto questo in vista di un congresso decisivo, che potrebbe contrapporre Antonio Tajani a Roberto Occhiuto. Ma Ruggieri frena, sollevando ombre sulla regolarità: «Non parlatemi di congresso. Sono liturgie ridicole. Per giunta si fonderebbe su tessere di dubbia provenienza».
Eppure la sfida alla dirigenza storica sembra essere ormai nei fatti. Il convegno intitolato «In libertà» organizzato da Ruggieri, alla presenza di un battaglione di parlamentari di Forza Italia, ha destato un certo clamore. La scelta scenografica di celebrare l’evento in via del Plebiscito, nella storica residenza romana di Silvio Berlusconi, è carica di simbologia. «Forza Italia non mi invita più ai convegni, e allora il convegno me lo sono fatto da solo, a Palazzo Grazioli, che per me è la capitale romana della cultura liberale. È stato un successo». Obiettivo: «Tornare allo spirito del ’94, come voleva il fondatore».
Diamo prima un’occhiata al curriculum. Avvocato penalista. Giornalista televisivo in Rai. Nipote di Bruno Vespa.
«Quattordici anni in Rai, senza mai arrivare alla conduzione proprio per via della parentela. È quella che io chiamo simpaticamente “la tassa Vespa”, che ho sempre dovuto sostenere. Ovviamente non per colpa sua».
Ma le avrà insegnato il mestiere.
«Assolutamente sì, zio Bruno è il numero uno, grande fonte di ispirazione e apprendimento. Mi dà suggerimenti e consigli insuperabili. Ma nessun dirigente tv può dire di aver mai ricevuto una sua telefonata in mio favore».
Primo incontro con Silvio Berlusconi?
«Nel 2015. Aveva adocchiato una puntata di un mio programma tv dedicato agli errori giudiziari, si chiamava Presunto colpevole. Mi telefonò sul cellulare: “Venga a Palazzo Grazioli”».
Faccia a faccia.
«L’incontro doveva durare 15 minuti: parlammo per un’ora e mezza. Poi ci siamo rivisti più volte, sempre in via del Plebiscito. Finché non mi disse: “Perché non lasci il lavoro e vieni a darmi una mano?”. Già all’epoca ero convinto che il partito andasse profondamente riformato».
Diventa collaboratore del leader, e poi parlamentare nelle file di Forza Italia. Ma poi non viene ricandidato.
«Lo sapevano tutti che i colonnelli del partito volevano farmi fuori. Ma avrei potuto continuare. Ho rifiutato tante offerte di rielezione provenienti da altri partiti: volevo mantenere intatta la stima degli elettori e la lealtà verso Berlusconi».
Una parentesi con Matteo Renzi, da direttore de Il Riformista.
«Gli voglio bene, è un politico di talento che però gioca nella squadra sbagliata. Sta personalizzando un po’ troppo gli attacchi contro Giorgia Meloni: purtroppo con lui la tattica prevale sulla strategia».
E arriviamo all’oggi. Da dove è partita l’idea di organizzare quel convegno proprio a Palazzo Grazioli?
«È stata un’idea mia, concretizzata con la mia società di comunicazione. Ufficialmente non ho invitato nessuno, a parte i 12 relatori di assoluto livello. Ma tutti erano benvenuti, e per tutti sarebbe stata un’opportunità».
Non è una corrente, si ripete, ma piuttosto una «scossa»?
«Questa in realtà è la prima di una lunga serie di scosse. Dopodiché, chi scambia un convegno per una corrente non capisce nulla di politica. Per fare una corrente bisogna stare in Parlamento, e io sono fuori».
La vecchia guardia del partito come l’ha presa?
«Qualcuno maligna e sparge veleno, ma non è una novità. A febbraio sicuramente replicheremo con un altro convegno a Milano».
Obiettivo finale?
«Condivido in pieno le parole di Pier Silvio Berlusconi: Forza Italia per vincere deve ritrovare freschezza, con idee e programmi rinnovati».
Cioè?
«Il partito va pesantemente aggiornato, perché continuando così si rischia di finire fuori mercato».
Fuori mercato?
«Oggi il mondo è cambiato, e non puoi continuare a vendere il Nokia prima generazione. Devi costruire l’ultimo modello e farlo bene».
Che significa?
«Bisogna importare personalità brillanti, dalla società civile e dalla tv. Tornare a puntare sulla capacità comunicativa, che è fondamentale. Chi parla di legame col territorio mi fa ridere. Tutto questo, ovviamente, rispettando il portato culturale del partito. E riscoprendo lo spirito liberale degli albori».
Antonio Tajani deve lasciare?
«Guardi, non avrei problemi a criticare il partito, anzi, avrei tutto il diritto di farlo, senza chiedere il permesso a nessuno».
Però?
«Però Tajani l’ho sempre rispettato, vanta rapporti internazionali fortissimi, sarebbe un perfetto presidente della Repubblica».
Lo sta candidando?
«Tuttavia, la storia italiana ci insegna che è quasi impossibile per un segretario di partito in carica salire al Quirinale. E io auguro a Tajani di avere davvero una chance per la presidenza».
Abbandonando la leadership, dunque?
«È proprio perché voglio bene a Forza Italia che immagino per questo partito un futuro diverso. Ci sono praterie di voti a disposizione, se solo riuscissimo a metterci al passo coi tempi».
Con il governatore calabrese Roberto Occhiuto?
«Ha fatto alcune mosse sacrosante. Si è scontrato con un governo amico, pur di liberalizzare il trasporto privato. Introduce l’intelligenza artificiale come elemento di meritocrazia nei bandi pubblici. Accetta e alimenta la concorrenza. Fatti alla mano, Occhiuto rappresenta bene, e meglio di altri, lo spirito di cui c’è bisogno».
Il congresso sarà una resa dei conti?
«I congressi sono una liturgia ridicola, non è questa la strada. E questo congresso in particolare si fonderebbe su tessere di dubbia provenienza».
Teme un congresso falsato?
«Fratelli d’Italia ha il 30% dei voti e 254.000 iscritti. Forza Italia con il 7% avrebbe 200.000 iscritti? Mi sembra un po’ anomalo».
Quindi si aspetta un cambio al vertice consensuale, senza spargimenti di sangue?
«Sì, nell’interesse di Forza Italia e della nazione. La dirigenza del partito dovrebbe prendere esempio dalla famiglia Berlusconi, che ha sempre mantenuto armonia ed unità, e che sta raggiungendo traguardi industriali giganteschi. Sono il simbolo di un’Italia che accetta le sfide del presente, e che non fa mai catenaccio».
Giorgia Meloni?
«Meno male che c’è lei a Palazzo Chigi, perché l’alternativa è il caos di una sinistra impresentabile».
Tuttavia?
«Tuttavia, una colonna liberale nella coalizione farebbe bene a tutti, anche in termini elettorali. Se liberali come Pera e Nordio sono finiti a orbitare intorno a Fratelli d’Italia, forse in Forza Italia c’è qualcosa di sbagliato nei meccanismi di selezione. Una Forza Italia più forte potrebbe favorire un cambiamento nel Ppe, aiutando Meloni a rivincere».
Quale è il rischio? Morire elettoralmente?
«Il rischio è che il partito si riduca a fare la “cheerleader” di chi vince. Come ha detto Nicola Porro, sulle battaglie di libertà non dobbiamo essere moderati, ma “estremisti liberali”».
Da dove dovrebbe partire la rivoluzione liberale?
«Dal riconoscimento di un principio: è solo l’iniziativa privata che crea ricchezza, non lo Stato. E quindi occorre invertire l’onere della prova nel processo tributario, esaltare il venture capitalism privato, dare in concessione ai privati i beni culturali, liberalizzare il settore taxi, togliere un anno di liceo e università abolendo la riforma Berlinguer. Meno tasse e burocrazia, più garantismo nei tribunali e più diritti civili».
Diritti civili?
«Il mondo cambia. È ora di riconoscere la cittadinanza automatica a chi la matura da straniero, e poi si discuta liberamente di eutanasia e delle adozioni dei single».
Con buona pace di Salvini?
«Competition is competition. Adesso sto andando negli Stati Uniti, dove affitterò l’auto di un privato cittadino che fa profitto, guidata da un immigrato che lavora e non delinque, visiterò località della Florida che richiamano turisti e producono posti di lavoro. Se ci riescono gli americani, perché in Italia, con la storia che abbiamo, non si può fare?».
Si immagina un partito alleato con Renzi e Calenda?
«Non finché continuano a frequentare personaggi come Bonelli e Silvia Salis».
Nel pantheon di Forza Italia, nelle ultime ore, ci è finito persino il sindaco di New York Mamdani, icona della sinistra.
«Io francamente preferisco Ronald Reagan e Tony Blair. Sono i punti di riferimento perfetti, con Silvio Berlusconi, per un partito che riscopre la sua natura originaria, riformista e liberale».
Alberto Bagnai, economista e responsabile economia della Lega: nonostante i malumori europei si sancirà per legge che l’oro italiano appartiene al popolo.
«Non comprendo il clamore suscitato da questa ovvietà, che peraltro altri ordinamenti nazionali recepiscono da sempre. Si intuisce che qualcuno faceva finta di non capire. Ciò rende molto opportuna la battaglia iniziata dal senatore Borghi e portata avanti oggi dal senatore Malan, e l’intervento del ministro Giorgetti che ha chiarito e chiuso la questione».
Quindi le riserve non aiuteranno a ridurre il debito pubblico?
«Questa idea bislacca del commissario Dombrovskis dipinge l’inadeguatezza delle élite europee. Dodici anni fa il vicepresidente della Bce Constâncio chiarì che la crisi europea era stata causata dal debito privato. D’altra parte, il debito pubblico fatto per contrastare la pandemia evidentemente non ci ha mandato in dissesto. Ma oggi Dombrovskis ne è ancora ossessionato, come certi zero tituli nostrani. I mercati no, e infatti ce lo comprano a man bassa facendo scendere lo spread».
L’Europa a maggioranza decide per il congelamento dei beni russi, e la Banca centrale di Mosca fa causa. Italia e Belgio votano a favore, ma nel contempo chiedono «opzioni alternative».
«Mi sembra un altro esempio di inadeguatezza delle nostre élite. Questa scelta, sostenuta con argomenti di dubbia consistenza giuridica, mette a rischio la fiducia dei mercati internazionali nel sistema finanziario europeo. Ma ancora più pericolosa è la violazione del principio di unanimità. Si sta operando sostanzialmente al di fuori del perimetro dei Trattati, cedendo alle sollecitazioni di leader che hanno già mostrato in tanti campi (si pensi all’ideologia green) di prendere decisioni avventate nella certezza di non essere chiamati a risponderne».
Questi fondi potrebbero costituire garanzie per i finanziamenti alla ricostruzione dell’Ucraina.
«Così sembra, ma ci saranno strascichi legali. E se a seguito di un contenzioso si scoprisse che i fondi russi non possono essere usati a garanzia, a garantire il prestito sarebbero i Paesi europei».
In pratica?
«Faccio un calcolo a spanne. Gli italiani dovrebbero pagare 25 miliardi di tasca loro: questa sarebbe la quota per essere entrati in uno schema senza valide coperture legali. Ci accolleremmo costi esorbitanti per dare retta a chi per anni ci ha bollato come “scialacquatori”».
Nel suo piano di sicurezza nazionale Trump scarica l’Europa?
«È esattamente il contrario. Non è un attacco all’Europa, ma al sistema politico-economico dell’Unione. Partiamo da una premessa: l’Unione europea è antitetica all’Europa, alla sua prosperità e quindi alla sua stabilità politica. Lo dimostrano i risultati, anche politici, dell’austerità imposta da Bruxelles».
Ciò premesso?
«Semplice: fra Europa e Unione europea gli Stati Uniti scelgono esplicitamente la prima. Il documento di Trump è chiaro: agli Stati Uniti serve un’Europa prospera. La depressione e l’instabilità causate dall’attuale governance europea rendono l’Europa inaffidabile come partner strategico. Chi vorrebbe allearsi con governi instabili perché non sostenuti da maggioranze solide, e incapaci di contribuire a progetti comuni perché incapaci di creare valore?».
E la Nato?
«Il documento dice che va posta fine alla percezione di una Nato in perenne espansione. Per le due istituzioni del dopoguerra funzionali alla Pax americana, la cosiddetta “Europa” (prima come Cee poi come Ue) e la Nato, arriva un’esplicita richiesta di ridimensionamento. L’integrazione è andata troppo oltre, i suoi rendimenti sono diventati decrescenti».
Dunque Trump sta dicendo: in Europa o riforme o morte economica?
«Non è difficile capire che cosa cambiare, quale “Europa” non funziona: quella del Patto di stabilità e crescita, che ha funzionato solo quando è stato sospeso, dell’eccesso normativo, che soffoca le imprese, delle decisioni imposte con la forza, per le quali nessuno mai paga un costo politico. Il problema resta quello che vedeva Bossi nel 1998: un’Europa politica non potrà mai nascere».
La Germania, ex alfiere dell’austerity, oggi si riarma.
«Inquietante, ma prevedibile».
Prevedibile?
«Certo. Il keynesismo bellico, la giustificazione della spesa pubblica in nome del riarmo, è lo sbocco inevitabile del modello di sviluppo tedesco, che affida la propria competitività al taglio dei redditi, avvitandosi inesorabilmente verso il basso. Oggi lo dice perfino Draghi. Le fughe in avanti belliciste cui assistiamo non sono solo una reazione isterica causata dall’insicurezza politica di molti governanti attuali. Sono anche una via obbligata per non sconfessare anni di austerità. Dopo aver ripetuto fino alla nausea che la spesa pubblica è il Male, quando se ne ha bisogno si è costretti a giustificarla in nome di un male ancora peggiore: l’aggressione (reale o presunta) da parte di un nemico esterno. La storia insegna che questo gioco è pericoloso. Contiamo sulla ritrovata autorevolezza del nostro Paese per evitare il peggio».
Stupore in Europa dopo la pubblicazione della «dottrina Trump», contenuta del documento della sicurezza nazionale americana che striglia il vecchio continente: «O si cambia, o scomparirete». Giorgio Starace, ex ambasciatore italiano a Mosca, è una rivoluzione?
«Non mi sorprenderei più di tanto. Già durante il suo primo mandato Trump ci aveva avvertito: le sue idee avrebbero preso corpo in una vera e propria “dottrina”, in un manifesto strategico. Che ha il pregio di essere oggi più chiaro che mai».
Chiaro ma terribile. Trump sta abbandonando l’Europa sul piano militare?
«Al contrario, la vedo come un’opportunità straordinaria. Gli Usa incoraggiano l’Europa ad assumere addirittura la leadership della Nato».
Appunto, le pare possibile che dal 2027 la difesa del continente sia solo in mano agli europei?
«Una sfida gigantesca, che oggi ci appare incredibile, un po’ come dare un Harley Davidson in mano a un ragazzino. Anche perché, soprattutto in Francia e Germania, oggi abbiamo a che fare con governi fragili e una classe dirigente non all’altezza. Ma una punta di speranza ce l’ho».
Speranza?
«Sì, spero che questa ultima mossa di Trump costituisca la scossa decisiva per varare quelle riforme che, colpevolmente, in Europa abbiamo sempre rimandato».
Vale a dire?
«Aggiornare il trattato di Maastricht, che ormai ha una certa età. Creare un direttorio europeo, cioè uno stretto collegamento tra i principali leader, per sfornare proposte da mettere sul tavolo dei grandi. Riformare finalmente il processo di decision making europeo».
In che modo?
«Fare in modo, insomma, che in questa Europa allargata si decida a maggioranza su tutte le questioni, perché l’alternativa è la palude. Insomma, diventare grandi, autorevoli, e avere fiducia in sé stessi. Una visione che in queste ore il premier Meloni ha saputo intuire con spregiudicato realismo».
E l’esercito europeo?
«Quella è un’utopia. Ma un coordinamento comune degli eserciti, in una Nato più europea, sarebbe certamente fattibile. In ogni caso, una partnership con gli Stati Uniti sarà comunque imprescindibile, soprattutto sul cyber e sulla tecnologia satellitare».
La Germania ha reagito malissimo al documento trumpiano: «Non ci servono consigli», ha detto Berlino rivolgendosi alla Casa Bianca.
«Questi arroccamenti non hanno molto senso. Non è con un tardivo orgoglio europeo che possiamo impostare un rapporto sano con gli Stati Uniti».
Sbaglia chi parla di un Trump che consegna gli Usa a un nuovo isolazionismo?
«Sbaglia di grosso. Unilateralismo non è sinonimo di isolazionismo. Tutte le iniziative portate avanti da Washington hanno come unico scopo quello di arginare la minaccia cinese. Dunque non è corretto dire che l’America si sta ritirando nel cortile di casa. È una proiezione globale, quella di Trump, nella consapevolezza che nel Pacifico si decide il destino del mondo».
L’Europa rischia di sparire entro 20 anni, come dice il presidente Usa?
«Quella è una dichiarazione di tipo ideologico che va oltre il tema sicurezza. Il modello Trump è poco esportabile, ma è chiaro che sul tema migratorio si stabilirà il futuro politico e sociale dell’Europa».
Anche Mario Draghi, recentemente, ha puntato il dito contro i passi falsi dell’Europa contro sé stessa.
«E ha ragione: gli auto-dazi, le costrizioni imposte alle aziende europee, sono proposte non in linea con i tempi, in questa fase geopolitica. Draghi però non ha fatto cenno al nanismo politico europeo: quando lui era a Palazzo Chigi, io ero a Mosca. Tutti i diplomatici attendevano proposte europee sull’Ucraina: non arrivarono. Né dall’Europa, né dal governo italiano».
Una paralisi?
«Non siamo stati in grado nemmeno di nominare un inviato speciale europeo in Ucraina, un gesto minimo di attenzione verso una crisi nel cuore dell’Europa».
Vladimir Putin rilancia le sue pretese sul Donbass. E si inaspriscono i bombardamenti. Siamo in alto mare con le trattative di pace?
«Gli Usa trattano separatamente con Kiev e Mosca, nella speranza di chiudere. Ma le posizioni sono ancora molto distanti, malgrado i grandi sforzi americani. Sulle questioni territoriali i russi sembrano inamovibili, rivendicano l’annessione delle zone russofone, e in sostanza vorrebbero un’Ucraina alla mercé di Mosca. L’altro tema è il congelamento dei fondi russi, che sarebbe disastroso per l’economia di Mosca. Per questo Putin alza il livello delle minacce».
Si riferisce alle frasi del presidente russo lanciate dall’India? «Nascerà un nuovo ordine mondiale».
«La visita di Putin a Modi rivela effettivamente questa preoccupazione. Le sanzioni indirette sull’India, grande importatore di greggio russo, fanno male al Cremlino».
Dunque?
«I russi si pongono sempre delle scadenze. La prossima data importante è il 9 maggio, il loro giorno della Vittoria. Putin per quella data desidera avere qualche risultato concreto da annunciare, che per adesso non ha».
Nel frattempo?
«Nel frattempo scava il solco tra Usa ed Europa, e ci intimidisce con la narrazione bellica. L’obiettivo è fiaccare la resistenza e ottenere in tempi brevi da Kiev ciò che necessita, sul campo, di tempi lunghi».
Dunque è semplicistico dire che gli Stati Uniti stanno scaricando l’Ucraina?
«È un azzardo. Certo, gli americani vorrebbero chiudere al più presto la vicenda. Ma un totale disengagement da Kiev è altamente improbabile: priverebbe Trump di un’arma di pressione nei confronti di Mosca, utile nella sfida finale con la Cina».
Tuttavia, il presidente francese Macron, da Pechino, dice che Trump potrebbe «tradire Kiev». Come legge queste uscite?
«Francia e Germania hanno un disperato bisogno di leadership. La Germania la cerca riarmandosi, Macron tenta invece di costruire un’immagine autorevole in vista del futuro negoziato».
Ci riuscirà?
«In realtà l’asse franco-tedesco, cioè l’alleanza politica che ha retto l’Europa per tanto tempo, sta visibilmente traballando. Forse subentrerà un altro asse, quello franco-britannico: un’alleanza non solo nucleare, ma strettamente politica».
E Zelensky? I suoi collaboratori sono stati colpiti da clamorose inchieste giudiziarie, e qualcuno ipotizza che sia giunto al capolinea.
«Non sparirà così in fretta. Una transizione caotica a Kiev non fa comodo a nessuno, soprattutto agli Stati europei che confinano con l’Ucraina, che oggi come ieri è un Paese cuscinetto di vitale importanza. Zelensky resterà un figura di rilievo, in questa partita».
L’Italia. Approva la posizione prudente del governo?
«Nonostante le divisioni a livello parlamentare circa il rapporto con la Russia, finora siamo riusciti a fare sintesi, con una apprezzabile continuità di indirizzo. Per il resto, siamo sotto attacco anche noi, come ha detto il ministro Crosetto. Ma non parlo solo di condizionamenti russi».
Cioè?
«L’inchiesta contro Mogherini e Sannino non mi convince. Di Sannino, mio collega, conosco la professionalità e l’onestà. Dietro l’indagine ci vedo un’iniziativa di forze europee contrarie alle politiche pro-Mediterraneo. Qualcuno vuole smontare gli impulsi europei a favore del Sud dell’Europa».
Una crociata anti-italiana? Anche all’estero, abbiamo a che fare con una magistratura sospettata di portare avanti interessi politici?
«Dico soltanto che certe “irregolarità”, a livello europeo, non arrivano solo dagli italiani. Mi rifiuto di pensarlo. Non dimentichiamo poi che tutta Europa è sotto attacco. Abbiamo assistito alle dure critiche di Trump e Putin all’edificio europeo e Elon Musk si è augurato la fine dell’Ue. Non escludo nemmeno la guerra ibrida. Colpire la burocrazia europea fa parte di un disegno più vasto per indebolire i già fragili centri decisionali di Bruxelles».
Chiudiamo con un pensiero sul Vaticano.
«Nella crisi ucraina, ci sono due uomini che dobbiamo ringraziare. Il primo è Papa Francesco».
Lei lo cita nel suo libro La Pace difficile, come una figura chiave.
«È stato il primo a gettare il sasso nello stagno dell’immobilismo europeo. Il primo a ricordare che quando c’è una guerra, si negozia non solo con l’agnello, ma anche con il lupo. Trump, in buona sostanza, ha seguito lo schema di Bergoglio».
E poi?
«E poi Papa Leone, che ha avuto il merito di appoggiare, con discrezione e pragmatismo, il piano americano sull’Ucraina. Anche questo pontefice ha compreso che è meglio portare avanti una piattaforma imperfetta, piuttosto che restare “perfettamente” fermi. Il risultato è che il piano americano ha portato in ogni caso delle utilità, tra cui quella di suscitare qualche proposta europea, per reazione, sul piano diplomatico».
Insomma, nel caos mondiale, Roma torna protagonista?
«Roma e il Vaticano, per buon senso e autorevolezza, tornano le capitali morali d’Europa, in questi tempi smarriti».





