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2019-05-17
All'Aero Club d'Italia è tutto fermo. La politica mira a far tornare Leoni e gli aviatori restano senza ali
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Ansa
Pare non esserci pace per la situazione in cui versa l'Aero Club d'Italia. Dopo oltre un decennio di presidenza e commissariamento affidati all'ex senatore della Lega Giuseppe Leoni, dopo la condanna in primo grado di quest'ultimo per peculato e un primo commissariamento affidato al professor Pierluigi Matera, avvocato legato al Coni di Giovanni Malagò il cui mandato scaduto non è stato rinnovato dopo il cambio del governo, ora l'amministrazione straordinaria di AeCI è stata affidata a un altro giurista, il professor Guido Valori, con l'incarico di traghettare a nuove elezioni l'ente entro tre mesi dalla nomina del marzo scorso. Tempo che Valori ha già dichiarato essere insufficiente e che dovrebbe pertanto essere prorogato. Nel frattempo, il 14 maggio, il commissario ha licenziato il direttore generale Giuseppe D'accolti (ex Aeronautica militare), che ricopriva a titolo gratuito il suo ruolo e che, stando ai pareri degli aviatori sportivi italiani, lo faceva molto bene.
Ora mentre Valori sceglie il nuovo dirigente, figura indispensabile per mandare avanti le attività, gli iscritti si interrogano sul futuro dell'Aero Club d'Italia anche con il sospetto che Valori stia allungando i tempi per attendere il parere del Consiglio di Stato sulla eleggibilità di Giuseppe Leoni, spodestato dalla sentenza della magistratura ma di fatto vincitore delle ultime elezioni avvenute nel 2017 per un mandato che avrebbe dovuto terminare nel 2021. Non manca neppure chi vede in questa situazione una guerra di spoil system tra chi appartiene alla linea di Malagò e del Coni, secondo la quale Leoni non avrebbe più i requisiti di onorabilità necessari per presiedere AeCI, e chi pensa che il governo voglia applicare anche agli sport aeronautici, affiliati al Coni tramite AeCI, la nuova organizzazione dello sport pensata dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti, linea che potrebbe favorire un rientro di Leoni e quindi temuta da chi lo ha contrastato. A subire il massimo disagio restano però i club non federati ma le organizzazioni definite «enti aggregati», ovvero quasi tutte le scuole di volo appartenenti al Volo da diporto sportivo obbligate per legge ad affiliarsi, nonché la gestione tecnico amministrativa delle flotte, compresa l'identificazione dei mezzi, l'emissione dei titoli di pilota e di istruttore delle varie specialità, la loro formazione, standardizzazione e l'aggiornamento. Questo comparto comprende la maggioranza dei praticanti italiani di volo e anche gli aeromodellisti, ma è storicamente mal rappresentato in seno all'Ente stesso quando è tempo di elezioni: ogni presidente di aeroclub federato porta un voto, ma tutti gli enti aggregati ne contano insieme uno soltanto pur comprendendo la maggioranza di praticanti.
Un nodo complicato da sciogliere in quanto la legge italiana affida all'AeCI la gestione del comparto ultraleggero, ma con una speranza: il nuovo regolamento basico europeo sull'aviazione (CE1139/2018) dice invece che a occuparsi dei mezzi volanti sotto i 600 chilogrammi di massa massima (tutti gli ultraleggeri), possano anche essere organizzazioni private purché riconosciute dall'Agenzia europea per la sicurezza del volo (Easa) o dall'autorità nazionale (Enac) come entità qualificate. Da questo concetto nasce la corrente dei piloti che vorrebbero un Aero Club d'Italia più snello e moderno, la cui funzione sia soltanto la gestione degli sport dell'aria, dei campionati riconosciuti dalla Federazione aeronautica internazionale. Una soluzione non facile da attuare ma che certamente ridurrebbe le dimensioni di un ente visto a torto come un carrozzone (tra dipendenti e collaboratori, sono soltanto una trentina di persone), ma di fatto sempre meno in grado di assolvere al suo compito primario, ovvero la diffusione e promozione dell'aviazione in senso popolare.
Del resto AeCI, ente di diritto pubblico, nacque il 22 novembre 1911 per divenire ente morale con il regio decreto 1452 del 23 luglio 1926. Lo scopo allora era portare piloti alla patria, compito oggi affidato a organizzazioni professionali e all'Aeronautica militare, ma anche creare porte di accesso all'aviazione a costi ridotti. C'è una ragione per la quale finora ogni sforzo di rinnovamento profondo di AeCI naufraga spesso sabotato dal suo interno: gli aviatori italiani, circa 30.000 appassionati per 12 specialità differenti, soltanto attraverso la federazione all'AeCi e al Coni fruiscono di canoni ridotti per l'affitto di spazi demaniali dentro gli aeroporti (la riduzione è del 90%), in quanto aventi lo statuto di associazioni sportive dilettantistiche. Questo consente loro di fornire servizi ai soci, come hangaraggio di mezzi a minor costo (e non soltanto di quelli appartenenti alle flotte sociali, come dovrebbe essere), e licenze di pilotaggio che soltanto in rari casi sono più economiche di quelle offerte da scuole private non federate, poiché sul sistema gravano comunque i costosi fardelli normativi delle certificazioni Easa. Nessuno vuole perdere queste facilitazioni, che esistono anche nella maggioranza delle altre nazioni, dove però sono le camere di commercio o le istituzioni regionali a garantirle e non l'aero club centrale, che è soltanto un'organizzazione riconosciuta e non un ente di diritto pubblico soggetto al controllo di cinque ministeri e della Corte dei conti.
A questo grande pasticcio bisogna aggiungere che in molti aeroporti minori le aziende private (scuole di volo, officine, società di lavoro aereo), ritengono per questi motivi di subire concorrenza sleale da parte degli aeroclub federati, anche se, sovente, sono questi che nel dopoguerra hanno creato fisicamente gli aeroporti (la legge Gex prevedeva una pista aeroturistica per ogni provincia), e che oggi sono in grado di gestirli nel migliore dei modi. Per uscire dal guazzabuglio sarebbe necessaria la stabilità, un rifacimento totale in senso moderno dello statuto dell'Aero Club d'Italia e naturalmente un nuovo accordo con l'Enac che fissi in modo chiaro e per sempre i diritti e i doveri dei club affidatari di spazi demaniali in concessione, nonché fare accordi di non concorrenza con le scuole di volo private, magari facendo sistema con esse. A perderci, nel frattempo, sono i giovani italiani che trovano costi troppo alti per accedere alle discipline aeronautiche rispetto ai loro coetanei europei, e che quando vogliono divenire piloti professionisti si rivolgono all'estero.
C'è poi da difendere lo sport aeronautico nazionale. Nel 1939 l'Italia deteneva 32 dei 33 record aerei riconosciuti dalla Federazione internazionale, e oggi nonostante le mille difficoltà dei nostri atleti ne conserviamo ancora qualcuno, mentre ogni anno vinciamo parecchie medaglie nelle varie discipline. Infine sarebbero da rinnovare gli accordi tra Aero Club d'Italia e Aeronautica militare. Un tempo l'Arma azzurra dava agli aeroclub gli aeroplani scuola da essa dismessi, e l'ente per questo ha sempre nominato come suo direttore un generale dell'Aeronautica prossimo alla pensione. Ma oggi di aeroplani l'Aeronautica non ne può più regalare, mentre per ragioni di evoluzione del settore, al posto di un generale servirebbe come direttore un manager competente in sport aeronautici più che una persona formata per la guerra aerea. Insomma, una parte dell'Aero Club d'Italia è ancora agganciata ai regi decreti, un 'altra è rimasta ai tempi di Italo Balbo. Ma l'aviazione nel frattempo è evoluta.
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Indispensabile per lo sport aeronautico, l'Aero Club d'Italia è da tempo in subbuglio. Dopo oltre un decennio di presidenza e commissariamento affidati all'ex senatore della Lega Giuseppe Leoni, dopo la condanna in primo grado di quest'ultimo per peculato, il nuovo amministratore straordinario prende tempo. E le elezioni dei vertici si allontanano. Eppure, occorre una riforma profonda che dia rappresentanza a tutte le specialità e ripristini lo scopo fondamentale per il quale l'ente è stato creato: avvicinare la gente all'aviazione.Pare non esserci pace per la situazione in cui versa l'Aero Club d'Italia. Dopo oltre un decennio di presidenza e commissariamento affidati all'ex senatore della Lega Giuseppe Leoni, dopo la condanna in primo grado di quest'ultimo per peculato e un primo commissariamento affidato al professor Pierluigi Matera, avvocato legato al Coni di Giovanni Malagò il cui mandato scaduto non è stato rinnovato dopo il cambio del governo, ora l'amministrazione straordinaria di AeCI è stata affidata a un altro giurista, il professor Guido Valori, con l'incarico di traghettare a nuove elezioni l'ente entro tre mesi dalla nomina del marzo scorso. Tempo che Valori ha già dichiarato essere insufficiente e che dovrebbe pertanto essere prorogato. Nel frattempo, il 14 maggio, il commissario ha licenziato il direttore generale Giuseppe D'accolti (ex Aeronautica militare), che ricopriva a titolo gratuito il suo ruolo e che, stando ai pareri degli aviatori sportivi italiani, lo faceva molto bene.Ora mentre Valori sceglie il nuovo dirigente, figura indispensabile per mandare avanti le attività, gli iscritti si interrogano sul futuro dell'Aero Club d'Italia anche con il sospetto che Valori stia allungando i tempi per attendere il parere del Consiglio di Stato sulla eleggibilità di Giuseppe Leoni, spodestato dalla sentenza della magistratura ma di fatto vincitore delle ultime elezioni avvenute nel 2017 per un mandato che avrebbe dovuto terminare nel 2021. Non manca neppure chi vede in questa situazione una guerra di spoil system tra chi appartiene alla linea di Malagò e del Coni, secondo la quale Leoni non avrebbe più i requisiti di onorabilità necessari per presiedere AeCI, e chi pensa che il governo voglia applicare anche agli sport aeronautici, affiliati al Coni tramite AeCI, la nuova organizzazione dello sport pensata dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti, linea che potrebbe favorire un rientro di Leoni e quindi temuta da chi lo ha contrastato. A subire il massimo disagio restano però i club non federati ma le organizzazioni definite «enti aggregati», ovvero quasi tutte le scuole di volo appartenenti al Volo da diporto sportivo obbligate per legge ad affiliarsi, nonché la gestione tecnico amministrativa delle flotte, compresa l'identificazione dei mezzi, l'emissione dei titoli di pilota e di istruttore delle varie specialità, la loro formazione, standardizzazione e l'aggiornamento. Questo comparto comprende la maggioranza dei praticanti italiani di volo e anche gli aeromodellisti, ma è storicamente mal rappresentato in seno all'Ente stesso quando è tempo di elezioni: ogni presidente di aeroclub federato porta un voto, ma tutti gli enti aggregati ne contano insieme uno soltanto pur comprendendo la maggioranza di praticanti.Un nodo complicato da sciogliere in quanto la legge italiana affida all'AeCI la gestione del comparto ultraleggero, ma con una speranza: il nuovo regolamento basico europeo sull'aviazione (CE1139/2018) dice invece che a occuparsi dei mezzi volanti sotto i 600 chilogrammi di massa massima (tutti gli ultraleggeri), possano anche essere organizzazioni private purché riconosciute dall'Agenzia europea per la sicurezza del volo (Easa) o dall'autorità nazionale (Enac) come entità qualificate. Da questo concetto nasce la corrente dei piloti che vorrebbero un Aero Club d'Italia più snello e moderno, la cui funzione sia soltanto la gestione degli sport dell'aria, dei campionati riconosciuti dalla Federazione aeronautica internazionale. Una soluzione non facile da attuare ma che certamente ridurrebbe le dimensioni di un ente visto a torto come un carrozzone (tra dipendenti e collaboratori, sono soltanto una trentina di persone), ma di fatto sempre meno in grado di assolvere al suo compito primario, ovvero la diffusione e promozione dell'aviazione in senso popolare.Del resto AeCI, ente di diritto pubblico, nacque il 22 novembre 1911 per divenire ente morale con il regio decreto 1452 del 23 luglio 1926. Lo scopo allora era portare piloti alla patria, compito oggi affidato a organizzazioni professionali e all'Aeronautica militare, ma anche creare porte di accesso all'aviazione a costi ridotti. C'è una ragione per la quale finora ogni sforzo di rinnovamento profondo di AeCI naufraga spesso sabotato dal suo interno: gli aviatori italiani, circa 30.000 appassionati per 12 specialità differenti, soltanto attraverso la federazione all'AeCi e al Coni fruiscono di canoni ridotti per l'affitto di spazi demaniali dentro gli aeroporti (la riduzione è del 90%), in quanto aventi lo statuto di associazioni sportive dilettantistiche. Questo consente loro di fornire servizi ai soci, come hangaraggio di mezzi a minor costo (e non soltanto di quelli appartenenti alle flotte sociali, come dovrebbe essere), e licenze di pilotaggio che soltanto in rari casi sono più economiche di quelle offerte da scuole private non federate, poiché sul sistema gravano comunque i costosi fardelli normativi delle certificazioni Easa. Nessuno vuole perdere queste facilitazioni, che esistono anche nella maggioranza delle altre nazioni, dove però sono le camere di commercio o le istituzioni regionali a garantirle e non l'aero club centrale, che è soltanto un'organizzazione riconosciuta e non un ente di diritto pubblico soggetto al controllo di cinque ministeri e della Corte dei conti.A questo grande pasticcio bisogna aggiungere che in molti aeroporti minori le aziende private (scuole di volo, officine, società di lavoro aereo), ritengono per questi motivi di subire concorrenza sleale da parte degli aeroclub federati, anche se, sovente, sono questi che nel dopoguerra hanno creato fisicamente gli aeroporti (la legge Gex prevedeva una pista aeroturistica per ogni provincia), e che oggi sono in grado di gestirli nel migliore dei modi. Per uscire dal guazzabuglio sarebbe necessaria la stabilità, un rifacimento totale in senso moderno dello statuto dell'Aero Club d'Italia e naturalmente un nuovo accordo con l'Enac che fissi in modo chiaro e per sempre i diritti e i doveri dei club affidatari di spazi demaniali in concessione, nonché fare accordi di non concorrenza con le scuole di volo private, magari facendo sistema con esse. A perderci, nel frattempo, sono i giovani italiani che trovano costi troppo alti per accedere alle discipline aeronautiche rispetto ai loro coetanei europei, e che quando vogliono divenire piloti professionisti si rivolgono all'estero.C'è poi da difendere lo sport aeronautico nazionale. Nel 1939 l'Italia deteneva 32 dei 33 record aerei riconosciuti dalla Federazione internazionale, e oggi nonostante le mille difficoltà dei nostri atleti ne conserviamo ancora qualcuno, mentre ogni anno vinciamo parecchie medaglie nelle varie discipline. Infine sarebbero da rinnovare gli accordi tra Aero Club d'Italia e Aeronautica militare. Un tempo l'Arma azzurra dava agli aeroclub gli aeroplani scuola da essa dismessi, e l'ente per questo ha sempre nominato come suo direttore un generale dell'Aeronautica prossimo alla pensione. Ma oggi di aeroplani l'Aeronautica non ne può più regalare, mentre per ragioni di evoluzione del settore, al posto di un generale servirebbe come direttore un manager competente in sport aeronautici più che una persona formata per la guerra aerea. Insomma, una parte dell'Aero Club d'Italia è ancora agganciata ai regi decreti, un 'altra è rimasta ai tempi di Italo Balbo. Ma l'aviazione nel frattempo è evoluta.
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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