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2018-04-02
La nazione con più petrolio non riesce a estrarlo: il Venezuela resta in piedi solo grazie a Trump
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Il miracolo socialista venezuelano, tanto decantato negli anni passati da Bernie Sanders, il socialista che ha sfidato Hillary Clinton alle ultime primarie del Partito democratico statunitense, e dall'economista Joseph Stiglitz, sta arrivando al capolinea. In previsione delle prossime elezioni presidenziali di maggio, Nicolás Maduro sta cercando dei palliativi con cui calmierare un'iperinflazione che a febbraio ha raggiunto il livello del 4.000% annuo e che il Fondo monetario internazionale prevede per l'intero anno del 13.000%. Il suo tentativo è anche mirato a dare qualche sollievo, seppur momentaneo, a quell'81% di famiglie venezuelane che vive in condizioni di povertà.
Il controllo dell'economia e il cambio fisso con il dollaro voluti dal predecessore Hugo Chávez 15 anni or sono non reggono più e gli avvenimenti stanno iniziando a diventare tragicomici. Solo pochi giorni dopo il lancio avveniristico della criptovaluta petro con cui il Venezuela avrebbe dovuto aggirare le sanzioni statunitensi e che avrebbe dovuto essere garantita dalle immense riserve petrolifere nazionali, Maduro è stato costretto a rispolverare metodi finanziari risalenti alla Jugoslavia socialista, in cui negli anni Ottanta, per arginare l'inflazione, i politici eliminavano gli zeri nelle banconote. Pertanto, a breve distanza dal virtuale petro, i venezuelani avrebbero dovuto ricevere il nuovo bolivar sovrano. Che però, a causa della totale mancanza di liquidità delle casse dello Stato, si è rilevato ancor più virtuale del parente tecnologico, tanto che in molte cittadine i sindaci hanno autorizzato a stampare moneta locale. A nulla è servito il rialzo del prezzo del petrolio degli ultimi mesi, essendo la produzione di greggio crollata dai 2,5 milioni di barili del 2015 al milione dello scorso anno.
La corruzione dilagante, la fuga continua di giovani insoddisfatti verso l'estero e l'annientamento politico dell'opposizione avvenuto negli ultimi due anni sono fattori che dovrebbero garantire a Maduro il nuovo mandato. Ma anche se rieletto si ritroverà pesantemente isolato nello scenario internazionale. Nonostante la propaganda parli ancora delle inossidabili amicizie anticapitaliste, la Cina, l'Iran e la Russia, alleate storiche che da sempre avevano come priorità il sostegno geopolitico del Venezuela in chiave anti Usa, stanno chiudendo i rubinetti degli aiuti finanziari e si preparano a gestire la fase dell'eventuale collasso politico del Venezuela per accaparrarsi le ricchezze del Paese. In questo caso, condividendo la medesima strategia di Washington.
L'incapacità di gestire l'economia si sta riversando negativamente sulle relazioni internazionali e le alleanze anti Yankee incominciano a ritorcersi contro Caracas. L'Iran ha cancellato ogni collaborazione strategica già nel 2014 dichiarando che aprire uffici di rappresentanza in Venezuela non ha alcuna giustificazione economica. La Cina vanta 60 miliardi di dollari di crediti nei confronti del Venezuela che diventando ogni giorno meno esigibili hanno costretto Pechino a bloccare ufficialmente qualsiasi ulteriore linea di credito e ad autorizzare la società petrolifera di bandiera Sinopec a far causa alla Pdvsa, la compagnia statale venezuelana, per i contratti non rispettati. La Russia a novembre dello scorso anno ha ristrutturato 3 miliardi di debito venezuelano in modo da aiutare Maduro a far fronte ad altre obbligazioni internazionali più pressanti. Al tempo stesso però, ha anche dichiarato che non accetterà mai pagamenti in petro e ha bloccato qualsiasi anticipo sul greggio venezuelano; un greggio di cui in verità Mosca non ha mai avuto bisogno, ma che è servito a sostenere Caracas nei momenti difficili e a far diventare la Russia, dal 2006, il primo fornitore di armi. Pur di guadagnare tempo e abbassare la pressione, Maduro ha violato le leggi del suo predecessore concedendo in uso alle società russe e cinesi le raffinerie del terzo complesso petrolifero più grande del mondo, quelle di Paraguaná.
Tuttavia, nonostante gli sforzi di diversificazione il Venezuela è rimasto sempre dipendente dal mercato statunitense, verso il quale esporta la maggioranza del proprio greggio e nel quale possiede tre delle maggiori raffinerie unitamente alla la rete di distribuzione Citgo, una sussidiaria che per ora si è salvata dalle pretese creditizie di cui è surclassata la Pdvsa - che non riceve più lettere di credito da parte di alcun istituto bancario - e che potrebbe essere l'oggetto dei desideri di Donald Trump. Nonostante il recente ampliamento delle sanzioni contro il Venezuela in cui il presidente statunitense ha inserito anche la criptovaluta bolivariana, la Casa Bianca continua a evitare di punire l'operazione con cui lo scorso anno la Goldman Sachs ha comprato sul mercato secondario 2,8 miliardi di obbligazioni Pdvsa con scadenza al 2022 e che per ora hanno provocato al gigante finanziario perdite per circa 60 milioni di dollari. E continua a evitare di colpire le operazioni della Citgo che rifornisce di derivati diversi Stati degli Usa. La Goldman Sachs conta sul fatto che in caso di fallimento la Pdvsa è una società statale con valide strutture e ricchi giacimenti. Qualora invece le difficoltà della casa madre dovessero investire anche la Citgo gli esperti consigliano a Trump di fondare ulteriormente i propri diritti di prelazione prelazioni sulla società valutando anche un piano d'emergenza sulla base del quale scambiare il grezzo venezuelano con prodotti americani per ampliare le riserve strategiche statunitensi con cui coprire eventuali ammanchi di carburante qualora in estate le strutture della Citgo dovessero entrare in crisi. Per la Cina, la Russia e l'Iran il Venezuela è una piccola e distante priorità. Per gli Usa è una questione nel cortile di casa con cui si decide il futuro assetto politico del Paese e il controllo delle sue risorse.
Laris Gaiser
INFOGRAFICA
Esportazione di greggio dimezzata. Sparito anche il business della raffinazione
LaPresse
Non è nostra abitudine utilizzare la prima persona. Ma il Venezuela è un'esperienza intima. Nel 1997 vi ho trascorso sei mesilavorando in una tenuta di tori che si trovava in estado Anzoategui non distante da Puerto La Cruz. Si trattò di un break durante gli studi universitari. Non mi dilungo a raccontare gli incontri e le amicizie. Tanto meno voglio descrivere la bellezza del llano, la pianura venezuelana che ancora oggi ispira l'horopo, una musica locale suonata con arpa, maracas e cuatro.Al tempo, Rafeal Caldera era ancora presidente a Caracas e nessuno immaginava che da lì a tre anni il Paese sudamericano sarebbe cambiato drasticamente. La doppia gestione Caldera (era già stato eletto alla fine degli anni Sessanta) ebbe il grande pregio di aver tenuto lontano dal Parlamento i militari. Corruzione e problemi ovviamente erano all'ordine del giorno e l'80% della popolazione viveva sull'orlo della povertà. Riusciva però a non cadere nel buco nero della miseria grazie a stabili rapporti con gli Stati Uniti e grazie a un'inflazione accettabile. Il duro, la moneta da cinque bolivares, consentiva tranquillamente di pagare un pasto completo con birra e caffè. Al cambio valeva all'incirca un dollaro. Oggi l'inflazione è una barzelletta se non fosse il simbolo grafico dei danni provocati dal socialismo reale di Hugo Chavez. Il cambio è un dollaro contro circa 25.000 bolivares e si tratta di stime non ufficiali perché la banca centrale di Caracas ha smesso di fornire bollettini statistici. Gli amici incontrati allora non vivono più in Venezuela. Uno è morto, gli altri due sono fuggiti all'estero ben prima che la situazione economica del Paese esplodesse. Se ne sono andati nel 2007 e nel 2009. Quando ancora l'Europa stava a guardare con interesse all'esperimento sociale bolivariano di Chavez. I residenti erano già dieci anni fa consapevoli che la bolla sarebbe esplosa. Anche se il motivo principale per espatriare sono state le continue espropriazioni che la borghesia ha sofferta già a cominciare dal 2002. Soprattutto la consapevolezza è che l'onda di crescita del prezzo del petrolio non avrebbe potuto sostenere a lungo la menzogna delle nazionalizzazioni di Caracas. Così i filo Chavez nel 2010 celebrano la vittoria sull'Argentina. Per la prima volta il Pil locale supera quello di Buenos Aires. Poi arriva il 2011, <Il Venezuela è diventato il maggiore produttore mondiale di petrolio>. A darne l'annuncio è Chavez in persona che conferma durante una seduta parlamentare di aver superato la produzione dell'Arabia Saudita. <Ne abbiamo abbastanza per i prossimi 200 anni>, spiega il dittatore paracadutista durante il suo discorso, confermando che i giacimenti che faranno del Venezuela il maggior esportatore mondiale di petrolio sono stati trovati nella zona dell'Orinoco. L'annuncio lascia l'Opec interdetta e alcuni analisti perplessi e scettici sulle reali possibilità di estrarre una quantità di petrolio stimata in circa 513 miliardi di barili. I dubbi riguardavano la geologia del territorio e il tipo di tecnologia richiesta per pompare in superficie un petrolio più pesante e di qualità inferiore rispetto a quello estratto in Arabia Saudita. In sostanza un petrolio molto più costoso.Per il quale serve tecnoloigia all'avanguardia e manager di altissimo livello. Trascorsi sette anni da quelle dichiarazioni, il Venezuela oggi è l'undicesimo produttore al mondo con poco più di 900 milioni di barili all'anno. Secondo i dati forniti da Eia, l'Energy information agency americana, la produzione di barili negli ultimi venti anni è crollata quasi di due terzi. Nel 1997 il Paese Sudamericano riusciva ad estrarre 3,2 milioni di barili al giorno. Il numero è sceso a 2,4 milioni nel 2015, per poi sprofondare a 1,6 che è il valore riportato a febbraio del 2018. L'esportazione di greggio si è dimezzata.
A sfasciare il sistema non è però solo stato un errore di previsione. Aver puntato sulle sabbie bituminose dell'Orinoco prima che crollasse l'intero mercato globale è stato un errore strategico, ma aver affidato i vertici di Pdvsa, la compagnia petrolifera di Stato, a militari e a ministri che di greggio sapevano poco o nulla è stato il cippo sulla tomba. Unica specializzazione dei manager e dei governanti è stata quella in contratti esteri soltanto per poter dirottare su banche svizzere le creste personali sottratte al popolo che nominalmente era e rimane il titolare del ministero del petrolio e delle miniere. Così che ora il paradosso. Il Venezuela ha le maggiori riserve di idrocarburi.Detiene un portafoglio da 300 miliardi di barili, il 20% in più dell'Arabia Saudita, ma non riesce più ad estrarre quantità proporzionate ai costi e da tempo ha addirittura rinunciato alla raffinazione.
La questione venezuelana è un argomento che interessa da vicino anche gli altri produttori Opec. Ai primi di marzo il presidente Suhail Mohamed Al Mazrouei (il ministro del Petrolio degli Emirati Arabi Uniti) ha spiegato come il gruppo sia pronto a fornire a Caracas adeguati aiuti tecnici; sempre Al Mazrouei ha dichiarato che il cartello è fiducioso nella capacità del Paese di recuperare il terreno perso in termini di produzione. Si tratta però solo di messaggi politici, anche l'Opec sa che il Venezuela non ha più le infrastrutture per gestire le ricchezze del sottosuolo.
Il crollo di produzione di fine 2017 è legato anche alla campagna di arresti per corruzione, che ha decimato i dirigenti di Pdvsa e portato in carcere anche l'ex ministro del Petrolio, Eulogio Del Pino. Al suo posto (oltre che al vertice della compagnia di Stato) si è insediato Manuel Quevedo, un generale senza esperienza nel settore degli idrocarburi.
Con i prezzi stabili e l'output insufficiente la conseguenza è la mancanza di valuta estera con cui gestire gli scambi con il mondo. La banca centrale ha ormai riserve valutarie per appena 10,5 miliardi di dollari, quando da qui al resto dell'anno dovrà onorare scadenze con creditori esteri per 7,2 miliardi. Non si può importare più nulla. Il resto è la cronaca fatta dai quotidiani, anche se troppo esigua a confronto delle sofferenze dei venezuelani.
Claudio Antonelli
Più il Paese va alla deriva, più il leader diventa autoritario
LaPresse
Il subbuglio venezuelano non accenna a placarsi. Prodotti comuni e generi di prima necessità risultano sempre più difficilmente acquisibili, per non parlare poi dell' l'inflazione, che nel 2017 ha raggiunto il 2.735% e sembra destinata a aumentare vertiginosamente nell'anno corrente. Il tutto, mentre gli stipendi medi sono crollati a circa 800.000 bolivar (l'equivalente di appena 7 dollari), nonostante il presidente Nicolás Maduro abbia aumentato i salari minimi. Non a caso, si contano numerose proteste, mentre molte migliaia di venezuelani stanno addirittura cercando di abbandonare il Paese. A tutto questo, si sono poi aggiunte le sanzioni economiche comminate dall'amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, che ha accusato Maduro di non rispettare i più elementari standard democratici. Lo scorso agosto, la Casa Bianca, su pressione soprattutto di alcuni senatori, tra cui Marco Rubio, ha vietato di scambiare bond emessi dal governo di Caracas. «Nel tentativo di preservare sé stesso, la dittatura di Maduro premia e arricchisce i funzionari corrotti dell'apparato di sicurezza governativo, appesantendo le future generazioni di venezuelani con debiti incredibilmente costosi» aveva tuonato la portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders. «Queste misure sono state attentamente calibrate per negare alla dittatura di Maduro una fonte fondamentale di finanziamento per mantenere il suo ruolo illegittimo, per proteggere il sistema finanziario statunitense dalla complicità nella corruzione venezuelana e nell'impoverimento del popolo e per consentire l'assistenza umanitaria». Per cercare di far fronte alla crisi, il governo venezuelano a febbraio ha introdotto il petro, una criptovaluta di Stato, il cui valore dovrebbe essere legato al petrolio. Una soluzione prontamente bocciata dagli oppositori di Maduro e dagli stessi Stati Uniti: il presidente Donald Trump ha difatti siglato un ordine esecutivo, vietandone l'utilizzo. In conseguenza di tutto questo, Caracas pochi mesi fa ha sfiorato la bancarotta, riuscendo temporaneamente a salvarsi grazie al sostegno della Russia e della Cina, che sono accorse in suo aiuto.
In un simile marasma, se per quanto riguarda la politica interna non è sbagliato parlare di una crisi umanitaria, le ripercussioni di questa situazione si notano anche sul versante internazionale. Tra le principali cause dell'aumento del prezzo del petrolio figura infatti proprio la riduzione della produzione venezuelana di greggio: produzione che oggi risulta meno della metà di quella del 1999. Un esito quasi inevitabile, viste le politiche adottate da Caracas negli ultimi vent'anni. Nel 2003, poco dopo essere diventato presidente, Hugo Chávez mise a capo della Pdvsa, l'azienda statale petrolifera, personaggi di nomina politica e tendenzialmente privi di esperienza. Una situazione che, legata a una significativa riduzione di investimenti, ha dato un duro colpo alla produzione petrolifera del Paese. Eppure, nonostante la crisi interna e le pressioni internazionali, Maduro tira dritto per la sua strada, accentuando i propri tratti autocratici. Già la sua recente riforma costituzionale, con cui il Parlamento è stato sostituito da una assemblea costituente, ha suscitato polemiche e proteste. Ma adesso si attendono le prossime elezioni (posticipate da aprile a maggio): elezioni in cui si temono brogli e che, non a caso, hanno attirato l'attenzione delle stesse Nazioni Unite. Le opposizioni restano per questo sul piede di guerra, mentre la faccenda potrebbe avere delle conseguenze anche sul prossimo Summit of the Americas che si terrà a Lima, in Perù, il 13 aprile. L'invito per Maduro è stato difatti messo in forse. E l'accentuarsi dell'isolamento nella stessa America Latina non può dirsi esattamente una buona notizia per Caracas.
Stefano Graziosi
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Riduci
Leopoldo López, l'uomo ritratto nel video qui sopra, è il fondatore del partito Voluntad popular, ex sindaco di Chacao e uno dei leader dell'opposizione al regime di Hugo Chávez prima e Nicolás Maduro poi. È prigioniero politico nel suo Paese. Il suo torto è stato quello di manifestare pacificamente il suo pensiero. Nel 2017 è stato insignito del premio Bruno Leoni 2017. Ma il riconoscimento è stato consegnato ai genitori, essendo lui agli arresti domiciliari dopo una lunga detenzione.In questo speciale di tre articoli ricostruiamo la situazione politica ed economica fallimentare di un Paese ritenuto dalla sinistra un modello per il socialismo. Nonostante i 300 miliardi di riserve di greggio, la produzione è crollata a 1,6 milioni di barili al giorno. Caracas è all'undicesimo posto nella classifica mondiale, mentre un tempo superava l'Arabia Saudita. Il miracolo socialista venezuelano, tanto decantato negli anni passati da Bernie Sanders, il socialista che ha sfidato Hillary Clinton alle ultime primarie del Partito democratico statunitense, e dall'economista Joseph Stiglitz, sta arrivando al capolinea. In previsione delle prossime elezioni presidenziali di maggio, Nicolás Maduro sta cercando dei palliativi con cui calmierare un'iperinflazione che a febbraio ha raggiunto il livello del 4.000% annuo e che il Fondo monetario internazionale prevede per l'intero anno del 13.000%. Il suo tentativo è anche mirato a dare qualche sollievo, seppur momentaneo, a quell'81% di famiglie venezuelane che vive in condizioni di povertà.Il controllo dell'economia e il cambio fisso con il dollaro voluti dal predecessore Hugo Chávez 15 anni or sono non reggono più e gli avvenimenti stanno iniziando a diventare tragicomici. Solo pochi giorni dopo il lancio avveniristico della criptovaluta petro con cui il Venezuela avrebbe dovuto aggirare le sanzioni statunitensi e che avrebbe dovuto essere garantita dalle immense riserve petrolifere nazionali, Maduro è stato costretto a rispolverare metodi finanziari risalenti alla Jugoslavia socialista, in cui negli anni Ottanta, per arginare l'inflazione, i politici eliminavano gli zeri nelle banconote. Pertanto, a breve distanza dal virtuale petro, i venezuelani avrebbero dovuto ricevere il nuovo bolivar sovrano. Che però, a causa della totale mancanza di liquidità delle casse dello Stato, si è rilevato ancor più virtuale del parente tecnologico, tanto che in molte cittadine i sindaci hanno autorizzato a stampare moneta locale. A nulla è servito il rialzo del prezzo del petrolio degli ultimi mesi, essendo la produzione di greggio crollata dai 2,5 milioni di barili del 2015 al milione dello scorso anno.La corruzione dilagante, la fuga continua di giovani insoddisfatti verso l'estero e l'annientamento politico dell'opposizione avvenuto negli ultimi due anni sono fattori che dovrebbero garantire a Maduro il nuovo mandato. Ma anche se rieletto si ritroverà pesantemente isolato nello scenario internazionale. Nonostante la propaganda parli ancora delle inossidabili amicizie anticapitaliste, la Cina, l'Iran e la Russia, alleate storiche che da sempre avevano come priorità il sostegno geopolitico del Venezuela in chiave anti Usa, stanno chiudendo i rubinetti degli aiuti finanziari e si preparano a gestire la fase dell'eventuale collasso politico del Venezuela per accaparrarsi le ricchezze del Paese. In questo caso, condividendo la medesima strategia di Washington.L'incapacità di gestire l'economia si sta riversando negativamente sulle relazioni internazionali e le alleanze anti Yankee incominciano a ritorcersi contro Caracas. L'Iran ha cancellato ogni collaborazione strategica già nel 2014 dichiarando che aprire uffici di rappresentanza in Venezuela non ha alcuna giustificazione economica. La Cina vanta 60 miliardi di dollari di crediti nei confronti del Venezuela che diventando ogni giorno meno esigibili hanno costretto Pechino a bloccare ufficialmente qualsiasi ulteriore linea di credito e ad autorizzare la società petrolifera di bandiera Sinopec a far causa alla Pdvsa, la compagnia statale venezuelana, per i contratti non rispettati. La Russia a novembre dello scorso anno ha ristrutturato 3 miliardi di debito venezuelano in modo da aiutare Maduro a far fronte ad altre obbligazioni internazionali più pressanti. Al tempo stesso però, ha anche dichiarato che non accetterà mai pagamenti in petro e ha bloccato qualsiasi anticipo sul greggio venezuelano; un greggio di cui in verità Mosca non ha mai avuto bisogno, ma che è servito a sostenere Caracas nei momenti difficili e a far diventare la Russia, dal 2006, il primo fornitore di armi. Pur di guadagnare tempo e abbassare la pressione, Maduro ha violato le leggi del suo predecessore concedendo in uso alle società russe e cinesi le raffinerie del terzo complesso petrolifero più grande del mondo, quelle di Paraguaná.Tuttavia, nonostante gli sforzi di diversificazione il Venezuela è rimasto sempre dipendente dal mercato statunitense, verso il quale esporta la maggioranza del proprio greggio e nel quale possiede tre delle maggiori raffinerie unitamente alla la rete di distribuzione Citgo, una sussidiaria che per ora si è salvata dalle pretese creditizie di cui è surclassata la Pdvsa - che non riceve più lettere di credito da parte di alcun istituto bancario - e che potrebbe essere l'oggetto dei desideri di Donald Trump. Nonostante il recente ampliamento delle sanzioni contro il Venezuela in cui il presidente statunitense ha inserito anche la criptovaluta bolivariana, la Casa Bianca continua a evitare di punire l'operazione con cui lo scorso anno la Goldman Sachs ha comprato sul mercato secondario 2,8 miliardi di obbligazioni Pdvsa con scadenza al 2022 e che per ora hanno provocato al gigante finanziario perdite per circa 60 milioni di dollari. E continua a evitare di colpire le operazioni della Citgo che rifornisce di derivati diversi Stati degli Usa. La Goldman Sachs conta sul fatto che in caso di fallimento la Pdvsa è una società statale con valide strutture e ricchi giacimenti. Qualora invece le difficoltà della casa madre dovessero investire anche la Citgo gli esperti consigliano a Trump di fondare ulteriormente i propri diritti di prelazione prelazioni sulla società valutando anche un piano d'emergenza sulla base del quale scambiare il grezzo venezuelano con prodotti americani per ampliare le riserve strategiche statunitensi con cui coprire eventuali ammanchi di carburante qualora in estate le strutture della Citgo dovessero entrare in crisi. Per la Cina, la Russia e l'Iran il Venezuela è una piccola e distante priorità. Per gli Usa è una questione nel cortile di casa con cui si decide il futuro assetto politico del Paese e il controllo delle sue risorse. 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Ma il Venezuela è un'esperienza intima. Nel 1997 vi ho trascorso sei mesilavorando in una tenuta di tori che si trovava in estado Anzoategui non distante da Puerto La Cruz. Si trattò di un break durante gli studi universitari. Non mi dilungo a raccontare gli incontri e le amicizie. Tanto meno voglio descrivere la bellezza del llano, la pianura venezuelana che ancora oggi ispira l'horopo, una musica locale suonata con arpa, maracas e cuatro.Al tempo, Rafeal Caldera era ancora presidente a Caracas e nessuno immaginava che da lì a tre anni il Paese sudamericano sarebbe cambiato drasticamente. La doppia gestione Caldera (era già stato eletto alla fine degli anni Sessanta) ebbe il grande pregio di aver tenuto lontano dal Parlamento i militari. Corruzione e problemi ovviamente erano all'ordine del giorno e l'80% della popolazione viveva sull'orlo della povertà. Riusciva però a non cadere nel buco nero della miseria grazie a stabili rapporti con gli Stati Uniti e grazie a un'inflazione accettabile. Il duro, la moneta da cinque bolivares, consentiva tranquillamente di pagare un pasto completo con birra e caffè. Al cambio valeva all'incirca un dollaro. Oggi l'inflazione è una barzelletta se non fosse il simbolo grafico dei danni provocati dal socialismo reale di Hugo Chavez. Il cambio è un dollaro contro circa 25.000 bolivares e si tratta di stime non ufficiali perché la banca centrale di Caracas ha smesso di fornire bollettini statistici. Gli amici incontrati allora non vivono più in Venezuela. Uno è morto, gli altri due sono fuggiti all'estero ben prima che la situazione economica del Paese esplodesse. Se ne sono andati nel 2007 e nel 2009. Quando ancora l'Europa stava a guardare con interesse all'esperimento sociale bolivariano di Chavez. I residenti erano già dieci anni fa consapevoli che la bolla sarebbe esplosa. Anche se il motivo principale per espatriare sono state le continue espropriazioni che la borghesia ha sofferta già a cominciare dal 2002. Soprattutto la consapevolezza è che l'onda di crescita del prezzo del petrolio non avrebbe potuto sostenere a lungo la menzogna delle nazionalizzazioni di Caracas. Così i filo Chavez nel 2010 celebrano la vittoria sull'Argentina. Per la prima volta il Pil locale supera quello di Buenos Aires. Poi arriva il 2011, <Il Venezuela è diventato il maggiore produttore mondiale di petrolio>. A darne l'annuncio è Chavez in persona che conferma durante una seduta parlamentare di aver superato la produzione dell'Arabia Saudita. <Ne abbiamo abbastanza per i prossimi 200 anni>, spiega il dittatore paracadutista durante il suo discorso, confermando che i giacimenti che faranno del Venezuela il maggior esportatore mondiale di petrolio sono stati trovati nella zona dell'Orinoco. L'annuncio lascia l'Opec interdetta e alcuni analisti perplessi e scettici sulle reali possibilità di estrarre una quantità di petrolio stimata in circa 513 miliardi di barili. I dubbi riguardavano la geologia del territorio e il tipo di tecnologia richiesta per pompare in superficie un petrolio più pesante e di qualità inferiore rispetto a quello estratto in Arabia Saudita. In sostanza un petrolio molto più costoso.Per il quale serve tecnoloigia all'avanguardia e manager di altissimo livello. Trascorsi sette anni da quelle dichiarazioni, il Venezuela oggi è l'undicesimo produttore al mondo con poco più di 900 milioni di barili all'anno. Secondo i dati forniti da Eia, l'Energy information agency americana, la produzione di barili negli ultimi venti anni è crollata quasi di due terzi. Nel 1997 il Paese Sudamericano riusciva ad estrarre 3,2 milioni di barili al giorno. Il numero è sceso a 2,4 milioni nel 2015, per poi sprofondare a 1,6 che è il valore riportato a febbraio del 2018. L'esportazione di greggio si è dimezzata. A sfasciare il sistema non è però solo stato un errore di previsione. Aver puntato sulle sabbie bituminose dell'Orinoco prima che crollasse l'intero mercato globale è stato un errore strategico, ma aver affidato i vertici di Pdvsa, la compagnia petrolifera di Stato, a militari e a ministri che di greggio sapevano poco o nulla è stato il cippo sulla tomba. Unica specializzazione dei manager e dei governanti è stata quella in contratti esteri soltanto per poter dirottare su banche svizzere le creste personali sottratte al popolo che nominalmente era e rimane il titolare del ministero del petrolio e delle miniere. Così che ora il paradosso. Il Venezuela ha le maggiori riserve di idrocarburi.Detiene un portafoglio da 300 miliardi di barili, il 20% in più dell'Arabia Saudita, ma non riesce più ad estrarre quantità proporzionate ai costi e da tempo ha addirittura rinunciato alla raffinazione. La questione venezuelana è un argomento che interessa da vicino anche gli altri produttori Opec. Ai primi di marzo il presidente Suhail Mohamed Al Mazrouei (il ministro del Petrolio degli Emirati Arabi Uniti) ha spiegato come il gruppo sia pronto a fornire a Caracas adeguati aiuti tecnici; sempre Al Mazrouei ha dichiarato che il cartello è fiducioso nella capacità del Paese di recuperare il terreno perso in termini di produzione. Si tratta però solo di messaggi politici, anche l'Opec sa che il Venezuela non ha più le infrastrutture per gestire le ricchezze del sottosuolo. Il crollo di produzione di fine 2017 è legato anche alla campagna di arresti per corruzione, che ha decimato i dirigenti di Pdvsa e portato in carcere anche l'ex ministro del Petrolio, Eulogio Del Pino. Al suo posto (oltre che al vertice della compagnia di Stato) si è insediato Manuel Quevedo, un generale senza esperienza nel settore degli idrocarburi. Con i prezzi stabili e l'output insufficiente la conseguenza è la mancanza di valuta estera con cui gestire gli scambi con il mondo. La banca centrale ha ormai riserve valutarie per appena 10,5 miliardi di dollari, quando da qui al resto dell'anno dovrà onorare scadenze con creditori esteri per 7,2 miliardi. Non si può importare più nulla. Il resto è la cronaca fatta dai quotidiani, anche se troppo esigua a confronto delle sofferenze dei venezuelani.Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/venezuela-crisi-maduro-socialismo-2554805236.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="piu-il-paese-va-alla-deriva-piu-il-leader-diventa-autoritario" data-post-id="2554805236" data-published-at="1765489244" data-use-pagination="False"> Più il Paese va alla deriva, più il leader diventa autoritario LaPresse Il subbuglio venezuelano non accenna a placarsi. Prodotti comuni e generi di prima necessità risultano sempre più difficilmente acquisibili, per non parlare poi dell' l'inflazione, che nel 2017 ha raggiunto il 2.735% e sembra destinata a aumentare vertiginosamente nell'anno corrente. Il tutto, mentre gli stipendi medi sono crollati a circa 800.000 bolivar (l'equivalente di appena 7 dollari), nonostante il presidente Nicolás Maduro abbia aumentato i salari minimi. Non a caso, si contano numerose proteste, mentre molte migliaia di venezuelani stanno addirittura cercando di abbandonare il Paese. A tutto questo, si sono poi aggiunte le sanzioni economiche comminate dall'amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, che ha accusato Maduro di non rispettare i più elementari standard democratici. Lo scorso agosto, la Casa Bianca, su pressione soprattutto di alcuni senatori, tra cui Marco Rubio, ha vietato di scambiare bond emessi dal governo di Caracas. «Nel tentativo di preservare sé stesso, la dittatura di Maduro premia e arricchisce i funzionari corrotti dell'apparato di sicurezza governativo, appesantendo le future generazioni di venezuelani con debiti incredibilmente costosi» aveva tuonato la portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders. «Queste misure sono state attentamente calibrate per negare alla dittatura di Maduro una fonte fondamentale di finanziamento per mantenere il suo ruolo illegittimo, per proteggere il sistema finanziario statunitense dalla complicità nella corruzione venezuelana e nell'impoverimento del popolo e per consentire l'assistenza umanitaria». Per cercare di far fronte alla crisi, il governo venezuelano a febbraio ha introdotto il petro, una criptovaluta di Stato, il cui valore dovrebbe essere legato al petrolio. Una soluzione prontamente bocciata dagli oppositori di Maduro e dagli stessi Stati Uniti: il presidente Donald Trump ha difatti siglato un ordine esecutivo, vietandone l'utilizzo. In conseguenza di tutto questo, Caracas pochi mesi fa ha sfiorato la bancarotta, riuscendo temporaneamente a salvarsi grazie al sostegno della Russia e della Cina, che sono accorse in suo aiuto. In un simile marasma, se per quanto riguarda la politica interna non è sbagliato parlare di una crisi umanitaria, le ripercussioni di questa situazione si notano anche sul versante internazionale. Tra le principali cause dell'aumento del prezzo del petrolio figura infatti proprio la riduzione della produzione venezuelana di greggio: produzione che oggi risulta meno della metà di quella del 1999. Un esito quasi inevitabile, viste le politiche adottate da Caracas negli ultimi vent'anni. Nel 2003, poco dopo essere diventato presidente, Hugo Chávez mise a capo della Pdvsa, l'azienda statale petrolifera, personaggi di nomina politica e tendenzialmente privi di esperienza. Una situazione che, legata a una significativa riduzione di investimenti, ha dato un duro colpo alla produzione petrolifera del Paese. Eppure, nonostante la crisi interna e le pressioni internazionali, Maduro tira dritto per la sua strada, accentuando i propri tratti autocratici. Già la sua recente riforma costituzionale, con cui il Parlamento è stato sostituito da una assemblea costituente, ha suscitato polemiche e proteste. Ma adesso si attendono le prossime elezioni (posticipate da aprile a maggio): elezioni in cui si temono brogli e che, non a caso, hanno attirato l'attenzione delle stesse Nazioni Unite. Le opposizioni restano per questo sul piede di guerra, mentre la faccenda potrebbe avere delle conseguenze anche sul prossimo Summit of the Americas che si terrà a Lima, in Perù, il 13 aprile. L'invito per Maduro è stato difatti messo in forse. E l'accentuarsi dell'isolamento nella stessa America Latina non può dirsi esattamente una buona notizia per Caracas. Stefano Graziosi
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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