Generale Carlo Jean, la narrativa russa incrimina l’allargamento della Nato e l’Ue per l’invasione. Dobbiamo sentirci colpevoli?
«Assolutamente no. Per il semplice motivo che la Russia non ha nulla da temere dalla Nato. La deterrenza della Russia è basata su 5.000 testate nucleari. Per di più la Nato è un’alleanza difensiva e Putin lo sa benissimo. A mio parere Putin teme l’Ue che rappresenta democrazia, benessere, libertà di circolazione ed espressione, diritti civili. Questo potrebbe innescare in Russia una rivoluzione come quelle di Maidan nel 2014 capace di rovesciare il suo potere e lui lo sa benissimo».
Lei ritiene Putin ancora una persona razionale?
«La sua razionalità, come ogni razionalità, è limitata. È una razionalità da autocrate: tanto più limitata quanto è il tempo passato al potere. Il cerchio magico dei suoi consiglieri, selezionati più per fedeltà e sempre meno per competenza, diminuisce con il tempo. È verosimile che lo abbiano informato in maniera disastrosamente sbagliata. Pensava di avere un altro tipo di reazione in Ucraina. È partito in quarta e si è infangato di brutto e ora non sa come uscirne».
Qual è la strategia dell’esercito russo sul terreno?
«Disastrosa in quanto fondata su informazioni sbagliate. Ragionavano su un blitzkrieg, con Zelensky in fuga e l’imposizione di un governo fantoccio russofilo e soprattutto su una reazione flebile d’un Occidente diviso. Invece è andata diversamente. Gli ucraini si difendono, Zelensky si è dimostrato un buon comunicatore e l’Occidente unito come mai prima nella storia. Putin, pensando di fare una guerra lampo, ha mandato truppe per lo più corazzate, senza fanteria. Risultato: forte velocità sulle strade ma obiettivo facile per attacchi ai fianchi e nelle retrovie. Gli ucraini hanno dimostrato di saper usare bene le armi anticarro ricevute dagli occidentali. Lo dimostrano le immagini dei danni provocati ai corazzati che si ricevono dal terreno».
Putin potrebbe pensare d’allargare il conflitto se si trovasse senza vie d’uscita?
«Lo credo quasi impossibile. Gli rimangono pochi consiglieri. Patushev, Sechin, Shoigu sono i più vicini ma tutti gli altri incominciano a chiedersi se non siano davvero nelle mani di un uomo che prende decisioni avventate per la Patria».
Esclude che la Russia vada a prendersi Kaliningrad?
«Dovrebbe attraversare il territorio polacco o lituano. Data la performance negativa delle sue truppe, credo che passeranno anni prima che la Russia possa pensare di muoversi un’altra volta».
Crede che la minaccia nucleare possa essere reale e che in tal caso la catena di comando obbedisca?
«Per la conoscenza diretta che ho dei generali russi dalle riunioni del passato, dalle conferenze e dagli incontri al Centro alti studi per la difesa, la vecchia guardia fortemente patriottica non lo sosterrebbe. Rimango dubbioso sulle giovani generazioni poiché non so su che basi siano state reclutate. Ma gente come Gerasimov non girerebbe la chiave nucleare».
Se usassero bombe nucleari di limitata portata?
«No! Avrebbe un effetto psicologico di portata mondiale. Cina compresa. Si supererebbe il tabù nucleare di Nagasaki e Hiroshima. Prima d’arrivare alla bomba nucleare la Russia ha tante altre opzioni per un’escalation. Innanzitutto non ha ancora impiegato i bombardieri. Per ora si son visti caccia-bombardieri con efficacia limitata, 500 chili d’esplosivo. Robetta confronto a quelli con cui potrebbero radere a suolo città intere. Ha una dozzina di Tupolev 34 e 60 Tupolev 160 con capacità di carico fino a 15 tonnellate. Sa perché non li usa? S’immagini se a Mosca si venisse a sapere che ha distrutto la chiesa di Santa Sofia a Kiev da cui nasce la chiesa russa! I suoi patriarchi dovrebbero andare da lui a dirgli di non fare lo scemo».
Se si trovasse a breve un accordo, Putin ne esce vincitore…
«Non credo che Putin prenda la cosa molto sul serio. E di certo non potrà mai accettare una neutralità dell’Ucraina garantita da Usa o britannici o turchi. Sarebbe una sconfitta da coglione».
Lo combatteremo a oltranza finché non riusciremo a fargli perdere il potere?
«Un autocrate non può permettersi di perdere una guerra. Rischia la pelle, non solo il potere».
Zelensky invita i cinesi alle trattative. Una nuova posizione di forza per Pechino?
«Se gli Usa imponessero sanzioni secondarie e quindi colpissero anche le banche cinesi che negoziano con la Russia in yuan sarebbero guai per Pechino, che comunque dipende economicamente dall’Occidente. Comunque anche la Cina sta subendo un’involuzione simile a quella russa. Pure Xi Jinping sta diventando un autocrate sempre più isolato, molto verosimilmente sempre più distaccato dalla realtà, circondato da sicofanti che si accusano l’un con l’altro per farsi strada e far contento il leader ottenendone favori. Gli provocano decisioni sempre più irrealistiche e sempre meno pragmatiche».
Ritiene la destabilizzazione a lungo termine dell’Ucraina con truppe mercenarie lo scenario più probabile?
«Li fanno fuori. Già i ceceni hanno preso una brutta botta a Kiev e Mariupol. I russi li hanno usati come carne da macello. Come fanteria che ha subito la resistenza ucraina tra le rovine delle città. Han dovuto ripiegare in Crimea per riorganizzarsi in questi giorni. Anche i siriani, per quanto bravi combattenti, faranno una brutta fine. Anche se gli promettono donne e bottini! Si accorgeranno che i russi li strumentalizzano come carne da cannone».
L’Ue ne esce rinforzata?
«A chiacchiere. Decantiamo le grandi misure sanzionatorie e poi non riusciamo neppure a spegnere il riscaldamento. Ne esce rafforzata la Germania. Olaf Scholz ha preso una decisione alla tedesca. Ha aumentato di 100 miliardi di euro il bilancio della difesa e dato armi anticarro e stinger agli ucraini».
E l’Italia dov’è?
«Con un governo come questo, di ampia coalizione, in cui l’obiettivo essenziale è l’unità e in cui tutti piangono perché il prezzo del petrolio è aumentato - e certamente non è aumentato per la guerra in Ucraina, ma per speculazione - che altro può fare? Si barcamena. L’Italia è indebolita dal quadro politico nazionale. La proiezione esterna del Paese è tutt’altro che sicura. Quando mandiamo in giro un Di Maio o un Di Stefano, per forza gli altri sghignazzano».
Vuol commentare la circolare dello stato maggiore dell’esercito sulla necessità d’avere reparti pronti e operativi?
«L’esercito deve essere preparato a combattere? Ai miei tempi lo era».
La sconfitta più bruciante per il governo di Lubiana è stata il fallimento del vertice sul futuro dell’Europa nel quale la presidenza non è riuscita a imporre una visione temporale condivisa sul futuro allargamento dell’Ue verso i Paesi dei Balcani occidentali. Tuttavia, il Paese è riuscito a sfruttare la presidenza a proprio vantaggio almeno nel riposizionamento internazionale.
Si chiude in questi giorni la presidenza di turno dell’Unione europea slovena. Da gennaio toccherà alla Francia di Emmanuel Macron.
Come quasi tutte le presidenze di turno, anche quella slovena è stata dedicata per lo più alla coordinazione amministrativa e formale delle riunioni a Bruxelles e del vertice semestrale dei capi di governo e Stato, che ha avuto luogo a Lubiana nel mese di ottobre.
La Slovenia si era data quattro priorità per il suo semestre: migliorare l’autonomia strategica dell’Unione, aumentare gli spazi dello Stato di diritto, accrescere l’affidabilità dell’Europa rendendola capace di assicurare la sicurezza dei confini e del vicinato e organizzare una conferenza sul futuro del Vecchio Continente.
Il governo di Lubiana, guidato da Janez Jansa, accusato d’essere eccessivamente vicino alle posizioni polacche e ungheresi, in fatto di Sato di diritto non è certamente riuscito a portare una ventata di novità nell’oramai già sgradevole conflitto di facciata tra liberali e sovranisti che imperversa a Bruxelles. Per impedire qualsiasi azione di avvicinamento tra le due sponde i rappresentanti dell’opposizione slovena hanno cercato d’impantanare Jansa minandone la credibilità sull’argomento. Il Parlamento europeo ha dovuto discutere tanto in commissione quanto in seduta plenaria sulla presunta avversione del premier sloveno nei confronti del sistema mediatico nazionale e la Commissione anticorruzione di Lubiana ha aperto una, nuova, inchiesta nei suoi confronti.
La sconfitta più bruciante per il governo sloveno è stata, però, il fallimento del vertice sul futuro dell’Europa nel quale la presidenza non è riuscita a imporre una visione temporale condivisa sul futuro allargamento dell’Ue verso i Paesi del Balcani occidentali. Anzi, per la prima volta questi sono rimasti completamente senza alcun orizzonte di riferimento, nemmeno teorico. Nessun governo ha voluto condividere la responsabilità di una data limite che potesse regalare ai cittadini della regione la speranza di un futuro migliore, nonché la possibilità di liberarsi delle elites politiche corrotte ed incompetenti che li governano. Nel mese di ottobre, a Lubiana, l’Ue ha perso ancora una volta l’occasione di dimostrarsi un’istituzione credibile ed attraente lasciando i Balcani occidentali nel limbo del deterioramento politico ed economico, da cui sempre più giovani cercano di scappare emigrando. Se si tiene conto che la Bosnia ed Erzegovina sta sperimentando livelli di emigrazione vicina al 10% annuo della propria popolazione e che il Kosovo copre un quarto del proprio Pil con le rimesse dall’estero, si comprende come l’abbandono dei Balcani da parte di Bruxelles possa solo aumentare le distanze tra le parti. I governanti balcanici, ufficialmente contrariati, segretamente ringraziano, consci di poter continuare ad approfittare dei propri feudi.
L’impauperimento sociale della regione non potrà che aumentare le faglie di destabilizzazione geopolitica a oriente dell’Adriatico.
Gran parte della responsabilità di tale infausta decisione autunnale è stata della Germania di Angela Merkel, all’epoca desiderosa di non apportare eccessivi sconvolgimenti al sul suo cambio di mandato alla Cancelleria e soprattutto di Macron. Il Capo di Stato della Francia, Paese a cui spetta la prossima presidenza di turno, non aveva alcun interesse di destabilizzare con una nuova, eventuale, questione balcanica la sua campagna elettorale per la conferma all’Eliseo. Il fatto che la Francia debba affrontare le elezioni presidenziali ad aprile rende la sua guida dell’Unione monca fin da principio. Ci si può attendere un’eventuale guizzo solo verso la fine del semestre, qualora Macron venga confermato.
Tuttavia, il governo di Lubiana è riuscito a sfruttare la presidenza a proprio vantaggio almeno nel riposizionamento internazionale del piccolo Paese centroeuropeo. In questi mesi, spesso anche contrastando le visioni di Berlino – da cui dipende economicamente – Lubiana ha cercato di riavvicinarsi a Washington.
Segno tangibile di tale desiderio è stata la richiesta di veder investire Google nell’economia del Paese.
Il gigante americano ha colto la palla al balzo e promesso di guidare la ristrutturazione digitale della Slovenia investendo 2,5 milioni di euro. Una mossa dichiaratamente anti cinese, in uno Stato per il quale Huawei mostrava eccessivo interesse, di cui l’Ambasciata statunitense ringrazia.
Da molti anni l’Unione si è allontanata dalle sue origini, si è dimenticata di Richard Coudenhove Kalergi, convinta della necessità di istituzioni centrali con sempre maggiori competenze. Dal punto di vista geopolitico si tratta di un suicidio. Le potenze dominanti non vogliono vedere il Vecchio Continente controllato da una sola persona o da un’istituzione.
L’anno prossimo si festeggeranno i cento anni della prima pubblicazione con cui il conte austriaco, di origini veneziane, Richard Coudenhove Kalergi lanciò l’idea di un’unione tra le nazioni europee. La sua visione, di un’Europa fatta di Paesi collegati da un mercato unico, conviventi in pace grazie allo Stato di diritto e al principio di sussidiarietà, fu poi trasferita nel 1923 nel libro Paneuropa e pochi anni dopo presentata alla Società delle Nazioni dal primo ministro francese, Aristide Briand. L’idea paneuropea basata sulla sussidiarietà, cioè su larghe autonomie e pochissimo centralismo di vertice, anticipa di ben venti anni quella spinelliana, assai più centralista e federativa.
Da molti anni oramai l’Unione europea si è allontanata dalle sue origini, si è dimenticata di Kalergi, e sta perseguendo un progetto più unionale, convinta della necessità di istituzioni centrali con sempre maggiori competenze. Dal punto di vista geopolitico si tratta di un suicidio. Le potenze dominanti non vogliono vedere il Vecchio Continente controllato da una sola persona o da un’istituzione. Il più ricco ed importante mercato al mondo, quello europeo, deve essere funzionante, dinamico, cooperativo ma mai politicamente unito. La paura in passato del Regno Unito e degli Usa oggi è che qualcuno possa ripetere il blocco continentale di napoleonica memoria. Washington ha favorito le Comunità europee in quanto funzionali alla stabilità nordatlantica ma ha sempre contrastato le proposte franco-tedesche di maggiore unione politica del continente forzando la presenza della fedele Londra oppure provocando alla bisogna scollature tra gli Stati membri. Ora, uscita la Gran Bretagna dall’Ue, Francia e Germania vedono all’orizzonte la possibilità di perseguire la costruzione della loro idea di Europa. Un’idea che comunque coincide solo nella parte iniziale del cammino e non certamente nei risultati finali.
Se Emmanuel Macron ha bisogno ad aprile d’essere confermato all’Eliseo per poter sostenere con maggiore determinazione la propria visione di futuro comune, il nuovo governo tedesco di Olaf Scholz parte in vantaggio di qualche mese. Per la prima volta nella storia la Germania è guidata da un governo formato da socialisti, verdi e liberali. L’eterogeneità degli attori ha imposto obiettivi che potessero accontentare tutti. In merito alle politiche europee il governo tedesco accontenta i liberali chiarendo nell’accordo di coalizione come il recovery found vada ritenuto una misura temporanea, accontenta i verdi garantendo loro la possibilità d’esprimere il futuro commissario tedesco ed accontenta i socialisti nel momento in cui ribadisce l’importanza dello Stato di diritto, la condanna delle posizioni polacche ed ungheresi e la necessità di utilizzare i finanziamenti come strumento di pressione politica. Ma è sulla necessità di rivedere tutti i trattati fondativi che i tre partiti trovano la più assoluta sintonia. Secondo il nuovo governo tedesco si dovrebbe partire dalle proposte che verranno avanzate dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa, in fase di svolgimento in questi mesi tra i cittadini e le organizzazioni del continente, per arrivare ad una nuova Convenzione costituzionale che fondi un’Europa veramente federale.
Si tratta di una proposta tanto ambiziosa, quanto difficilmente realizzabile vista la cacofonia di visioni politiche oggi dilagante tra i Paesi membri. Tuttavia, se tale proiezione spinelliana dovesse combinarsi con la volontà francese di maggiore autonomia militare, che per Parigi significa autonomia strategica dal mondo Nato, è realisticamente possibile attendersi una nuova fase di destabilizzazione dell’Europa. Soprattutto ora che gli Usa non possono più contare sulla rassicurante garanzia della presenza britannica nelle istituzioni di Bruxelles.
L’Europa è stata e potrebbe tornare un giorno ad essere un serio attore geopolitico. Ma l’intelligenza dei leader deve basarsi sulla lungimiranza, il corretto calcolo delle convenienze e il rispetto della realtà politica. Oggi, per il bene di tutti i cittadini del Vecchio Continente, sarebbe maggiormente auspicabile una riforma dell’Unione in senso paneuropeo ovvero lavorare per rilanciare la stabilità della casa comune sgravando di responsabilità le istituzioni di Bruxelles. Puntare su una politica più centralista, pianificata, significa aumentare la disaffezione dei cittadini nei confronti di un’Unione che diverrebbe il capo espiatorio dell’inefficienza degli Stati e posizionarla agli occhi di Washington come un potenziale minaccia da contrastare.
Entrambi i risultati sarebbero un pericolo per la pace e lo sviluppo del continente. Una vera sussidiarietà che renda i politici locali e nazionali nuovamente responsabili delle loro azioni e preservi l’Unione dalle critiche ingiustificate sarebbe la soluzione più efficiente per ritrovarci tra qualche decennio ancora uniti e maggiormente pronti a cavalcare i cambiamenti politici internazionali.





