
La Croazia identitaria, 4 milioni di abitanti, è arrivata a giocarsi la finalissima di Mosca. Di fronte avrà la Francia mondialista: su 23 calciatori, 18 hanno passaporti extra Ue.Ogni rigore parato, un boato, nel grande bar sul lungomare di Zara dove dicono che il tramonto del sole nell'acqua sia più spettacolare di quello di Key West. Tre boati e tre giri di birra contro la Danimarca, uno contro la Russia. In Croazia, dove gli stranieri sono tollerati solo come turisti, 25 anni dopo la guerra al massimo si festeggia un mezzo serbo quando si rimbocca le maniche. Come Danijel Subasic, 34 anni, portiere della nazionale, nato da mamma cattolica dalmata e da papà ortodosso serbo, e diventato (almeno dal punto di vista mediatico) il personaggio chiave della strana finalista. La sua storia di bambino nella Zara sotto le bombe con compagni e conoscenti che gli dicevano «A spararci addosso sono i tuoi amici» dimenticandosi del suo passaporto croato, è l'approccio più bohémien e più diretto al domandone che sta dietro la partitissima di domenica a Mosca: riuscirà la piccola Croazia nazionalista, identitaria, gelosa delle proprie tradizioni a tenere testa alla grande Francia multicult, multifashion, multimiliardaria e multirazziale che rappresenta il mondialismo compiuto, l'Internazionale del pallone digitale da Playstation?Per una specie di contrappasso da fumetto, i croati stanno nel villaggio di Asterix e i francesi sono gli assedianti romani, con etnie dalla Tracia alla Numidia per non parlare dei Sanniti. Qui si spera che un druido con il nome che finisce in «ic» scopra la pozione magica per rendere almeno più equilibrata la sfida, visto che i balcanici hanno giocato una partita in più (tre supplementari consecutivi), hanno un giorno in meno per recuperare dall'ultima fatica, appaiono stremati e acciaccati come minatori dopo il turno. Già contro l'Inghilterra uomini decisivi come Luka Modric e Ivan Rakitic sembravano sulle gambe, piegati dal peso di un mondiale giocato a mille. E al loro posto sono diventati decisivi Mario Mandzukic, Ivan Perisic, Marcelo Brozovic, Ante Rebic. E ad ogni nome ti viene da rispondere: presente. Una falange, un gruppo di uomini tenuti insieme da un'identità forte che si è sempre trasferita direttamente dalla politica al pallone. Quando non c'era ancora la Croazia come stato indipendente, c'era già la nazionale, messa insieme a Zagabria nell'ottobre 1990 per un'amichevole con gli Stati Uniti che aveva un forte sapore provocatorio; la proclamazione della repubblica sarebbe arrivata un anno dopo (ottobre 1991). Il primo presidente croato e padre riconosciuto della patria, Franjo Tudjman, era solito dire: «Dopo la guerra, il calcio è la prima cosa con cui le nazioni si distinguono le une dalle altre». È la vecchia Europa mitteleuropea delle piazze di Zagabria, è la terra dei padri. Sarà poco «urban melting pot», ma è così. Poi c'è il romanticismo culinario, ci sono i rašnici e la Slivovitza (come dire pizzoccheri e Sassella in Valtellina) di quello che il ct Zlatko Dalic definisce «il Paese con più cascate naturali dopo il Brasile». E c'è l'orgoglio di 4 milioni di abitanti sintetizzato da una frase dell'allenatore: «Abbiamo giocato con il cuore e continueremo a farlo anche quando saremo sulle ginocchia. Se si vince con il cuore vinciamo noi». Ieri a Zagabria tutti i membri del Consiglio dei ministri in seduta indossavano la maglietta a scacchi bianchi e rossi.È la sindrome dell'assedio, Asterix insegna, ed è utilissima per compattare un gruppo stanco, che dopo avere battuto Argentina, Russia, Inghilterra, si prepara all'ultima carica, a una finale da mediani. Probabilmente non basterà, come non bastò nel 1998 a Parigi quando lo squadrone di Zvonimir Boban e Davor Suker (comunque meno forte di questo) venne fermato in semifinale proprio dalla Francia e da una insolita doppietta in rimonta del suo primo intellò di riferimento, Lilian Thuram. La piccola Croazia ha tutto, anche il reprobo: Nikola Kalinic, il ribelle che non voleva fare la riserva, cacciato via dopo la prima partita per non fungere da mela marcia. Per lui né gloria, né premio.Dall'altra parte del campo, radunato con un cenno della mano dal furbo Didier Deschamps, si schiera l'esercito del nuovo ordine mondiale. Miliardari multietnici di seconda generazione, figli di coloro che mandarono in soffitta il socialismo alla francese di Lionel Jospin al grido di «Libertè, egalitè, sécuritè», quest'ultima inserita al posto di una fraternitè di facciata che piace solo ai preti e a chi ci lucra sopra. Potenti, agili, tecnici, les Bleus hanno un'età media di 26 anni (bassa ma non bassissima come enfatizzano i media al seguito) e arrivano in massima parte dalla periferia di Parigi dove sono cresciuti giocando nei campetti di cemento. E dove sono passati dall'essere racaille (feccia, per Nicholas Sarkozy) al diventare la coreografia perfetta di quella vanitosa sfilata di moda che è la presidenza di Emmanuel Macron. La grandeur ha i suoi nuovi riti.In campo sono devastanti perché le caratteristiche elementari dei giocatori sono sfruttate al massimo. Il simbolo della squadra è Kylian Mbappè (19 anni, accostato imprudentemente a Pelè), ottima tecnica e scatto da centometrista, appoggiato da Antoine Griezmann, seconda punta intelligente che sempre offre un appoggio. Deschamps può permettersi di giocare molto chiuso in difesa e lanciare i due con la fionda in contropiede, protetti da ottimi passisti come Paul Pogba, Blaise Matuidi, N'Golo Kanté e dal fenomenale portiere Hugo Lloris. In 18 su 23 hanno la doppia cittadinanza, con la seconda in Marocco, Togo, Mali, Camerun, Angola, tanto che i giocatori del Senegal dopo l'eliminazione hanno detto: «Da qui in poi tifiamo Francia, una vera nazionale africana».Al centro di campagne pubblicitarie intercontinentali, titolari di contratti milionari (Mbappè è passato dal Monaco al Psg per 180 milioni), sono le star del mondiale. Griezmann, cadetto di Borgogna, ha fatto sapere che non sarebbe andato dall'Atletico Madrid al Barcellona non con una telefonata, ma con un documentario in cui raccontava la sofferta decisione: 14 milioni invece di 15, si può capire. Francia-Croazia, due mondi, due sensibilità, due modi di fare il colpo di tacco. Schierate così non c'è partita, anche perché il mondialismo sportivo fa surf sull'onda della moda e non è più tempo di Celtic e Atletico Bilbao. Ma a Mosca non si può non notare che gli imperi prima o poi si sgretolano. Ne sa qualcosa la statua del signor Lenin che osserva le partite con granitica fierezza, neanche fosse un arbitro di riserva. Non certo una bella fine.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.
Ansa
Dopo il doppio disastro nella corsa alle rinnovabili e lo stop al gas russo, la Commissione avvia consultazioni sulle regole per garantire l’approvvigionamento. È una mossa tardiva che non contempla nessuna autocritica.