2024-08-02
Tutte le ombre su Pignatone mollato da politici e cronisti
Giuseppe Pignatone (Ansa)
Dalla frase di Paolo Borsellino: «Non me la racconti giusta» alla gip che gli contestò la mancata astensione fino alle accuse del pentito.«Voi due non me la raccontate giusta». Sarebbero queste le esatte parole che Paolo Borsellino avrebbe pronunciato incrociando nel corridoio della Procura di Palermo Giuseppe Pignatone e Guido Lo Forte, suoi non stimati colleghi. Dopo poche ore sarebbe morto ucciso dalla mafia in via D’Amelio. La frase del giudice eroe era probabilmente collegata alla gestione e alla richiesta di archiviazione della parte più corposa del fascicolo mafia e appalti, procedimento che portava dritti dentro alle connessioni tra colletti bianchi e cosche. A riferirla è stato l’ex pm Antonio Ingroia durante uno dei processi sulla morte di Borsellino. Lo stesso Ingroia, l’inverno scorso, è stato sentito per circa tre ore dagli inquirenti di Caltanissetta sui mesi precedenti la morte di Borsellino e sui rapporti dentro la Procura, il celeberrimo «nido di vipere». Adesso, dopo più di trent’anni, Pignatone si trova indagato per favoreggiamento della mafia con l’accusa di essere stato il co-istigatore insieme con l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco, di cui era uno dei più fidati collaboratori, di un’inchiesta apparente, una costola di mafia e appalti, in cui avrebbe dato l’ordine di far smagnetizzare le bobine con le registrazioni delle conversazioni telefoniche e, persino, i brogliacci riassuntivi delle stesse. L’ex procuratore è accusato di aver sollecitato il pm Gioacchino Natoli, indagato per lo stesso reato, a chiedere l’archiviazione del procedimento sulla gestione delle cave di marmo di Carrara da parte della cosca guidata dai fratelli Buscemi «senza curarsi di effettuare ulteriori indagini con particolare riguardo alle intercettazioni telefoniche».In questo modo sarebbero stati aiutati boss del calibro di Antonino Buscemi e Francesco Bonura. Per quanto riguarda l’ordine di eliminare nastri audio e trascrizioni la Procura di Caltanissetta avrebbe anche disposto una consulenza grafologica su una frase scritta a penna, in una prima fase attribuito a Natoli. L’ex pm ha negato che la grafia fosse la sua, da qui la consulenza che, come anticipato ieri dalla Verità, pur non arrivando a conclusioni definitive, non avrebbe escluso che quella possa essere la scrittura di Pignatone.Ieri gli aedi dell’ex procuratore di Roma hanno perso il coraggio. I suoi intervistatori ufficiali ai tempi belli delle inchieste capitoline e del caso Palamara devono avere finito l’inchiostro e i sostituti scesi in campo non sono riusciti a scrivere niente di meglio che questo bonsai di arringa difensiva: «Una tesi (quella accusatoria, ndr) che fa a pugni con la biografia di Pignatone e con una vita spesa contro la criminalità organizzata». Amen.Lirio Abbate, che con Pignatone procuratore di Roma cantò l’epopea di Mafia capitale, che poi mafia non era, ci ha messo la faccia per dire che Pignatone non rinnegò mai la gestione di Giammanco. In effetti il 30 luglio 1992, Pignatone, davanti al Csm, durante le audizioni fatte dopo la strage di Via d’Amelio e scaturite da un documento firmato da 8 magistrati contro il controverso procuratore, il giudice del Papa disse: «Per quanto riguarda quella parte del documento che sembra contenere una critica nei confronti del procuratore sono totalmente dissenziente… io esprimo un giudizio positivo sull’operato del procuratore». Abbate ha anche aggiunto, comunque, che «la storia professionale di Pignatone è forte di successi contro Cosa nostra e le sue collusioni». Fine. Forse il presidente del Tribunale del Vaticano dal giornale su cui ha firmato pregevoli corsivi si sarebbe aspettato qualcosa di meglio, soprattutto vista la firma.Ma sic trasit gloria mundi.Proprio su Repubblica, il 2 giugno 2021, in occasione della scarcerazione dell’ex mafioso Giovanni Brusca, Pignatone aveva pubblicato un commento (intitolato «La legge e il valore dei pentiti») nel quale esprimeva parole di vivo apprezzamento per la legislazione premiale in materia di collaboratori di giustizia, «ispirata e fortemente voluta» da Giovanni Falcone, «sulla base delle esperienze palermitane». Nell’articolo l’autore sottolinea il «contributo» dato da Brusca all’affermazione della Giustizia scrivendo, nero su bianco, che «particolarmente importanti sono state le dichiarazioni di personaggi apicali quali Giovanni Brusca». Non deve essere un personaggio permaloso Pignatone se si considera che proprio il sanguinario collaboratore di giustizia aveva fatto dichiarazioni molto compromettenti sullo stesso magistrato. Che, però, i pm che le raccolsero non riuscirono a trasformare in prove a carico del collega. Tanto che Pignatone, 25 anni fa, è stato prosciolto in un altro procedimento di mafia.Nell’ordinanza, il gip di Caltanissetta Gilda Lo Forti riassume così quanto dichiarato dal pentito: «Risulta dagli atti processuali che Giovanni Brusca ha riferito all’autorità giudiziaria (in due diversi verbali, ndr) che Salvatore Riina lamentava che i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, esponenti di spicco di cosa nostra palermitana e Salvatore capo del mandamento di Boccadifalco, avevano un rapporto privilegiato con il dottor Pignatone, rapporto che, tuttavia, essi non ponevano a disposizione della intera organizzazione, aggiungendo di avere avuto confermata la circostanza da Antonino Cinà, altro uomo d’onore». Ieri abbiamo ricordato come la famiglia dell’ex procuratore di Roma, con in testa il padre Francesco, già politico democristiano, all’inizio degli anni ‘80, avesse acquistato più di venti immobili, tra appartamenti, locali commerciali, box e cantine e ripostigli, da una società di cui erano soci picciotti del calibro di Vincenzo Piazza, Francesco Bonura e Salvatore Buscemi. Nell’ordinanza della Lo Forti si ricorda pure che il pentito «Salvatore Cancemi aveva riferito che in Cosa Nostra era “notorio” che il dottor Pignatone “fosse nelle mani” dell’imprenditore Vincenzo Piazza (uomo d’onore del medesimo mandamento di Boccadifalco di cui Salvatore Buscemi era il capo), il quale - secondo il collaborante - aveva persino donato un appartamento al detto magistrato».In un altro passaggio dell’atto giudiziario si legge: «Il dottor Pignatone aveva contatti con esponenti mafiosi, i quali, secondo quanto appreso da Salvatore Riina, che se ne era lamentato, non avevano messo a disposizione dell’intera organizzazione criminale tale “contatto” e che, proprio attraverso tale canale o attraverso il padre del dottor Pignatone, presidente dell’Espi, ente socio della Sirap, e “sul libro paga di Nicolosi (Rino, ex presidente democristiano della Regione Sicilia, ndr)”, non era stato attinto da quelle indagini Filippo Salamone (imprenditore, considerato il deus ex machina della spartizione degli appalti con la mafia, ndr), il cui coinvolgimento avrebbe inevitabilmente determinato quello delle grosse imprese del Nord Italia con le quali lo stesso era in rapporti di affari». La Sirap, società pubblica della Regione Sicilia, gestiva in quel periodo appalti per infrastrutture portuali del valore complessivo di mille miliardi di lire e aveva, inevitabilmente, attratto gli appetiti delle cosche. L’azienda finì al centro dell’inchiesta mafia e appalti, ovvero la prima grande indagine sui rapporti della criminalità organizzata con l’imprenditoria, in particolare con quella settentrionale. All’esito dell’attività investigativa i carabinieri del Ros depositarono, il 20 febbraio 1991, un’informativa di circa 900 pagine che ricostruiva i presunti illeciti di Angelo Siino (un tempo conosciuto come il ministro dei Lavori pubblici della Piovra) e di altri 43 indagati.Alla fine la Procura di Palermo procedette solo nei confronti di sei persone.Per le altre chiese l’archiviazione il 14 luglio 1992, appena cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, senza comunicare nulla a quest’ultimo, pur coinvolto nelle indagini. L’archiviazione arrivò il 16 agosto 1992. Tra i prosciolti figurava anche Antonino Buscemi.L’accusa di conflitto d’interessi per quanto riguarda le investigazioni palermitane sugli appalti infiltrati è sempre stata respinta da Pignatone, il quale, nel procedimento nisseno negò di «essersi mai occupato delle indagini relative alla Sirap», società collegata a quella diretta dal padre Francesco. In realtà seguì il fascicolo mafia e appalti sino al novembre del 1991 «sicché» scrive sempre Gilda Lo Forti, «egli non ebbe materialmente a partecipare alla stesura della richiesta di archiviazione del 13/22 luglio 1992 inerente gli esponenti della politica e dell’imprenditoria oggetto di attenzione da parte del Ros, provvedimento la cui redazione fu affidata ai dottori Lo Forte e Roberto Scarpinato». In compenso lui e Lo Forte «si occuparono della vicenda in esame sin dalla fase delle intercettazioni telefoniche che precedettero il deposito dell’informativa, redigendo, nel mese di giugno 1991, la richiesta di ordinanza di custodia cautelare». Pur non contestandogli comportamenti penalmente rilevanti, la Lo Forte, però, una frecciatina a Pignatone non la risparmiò: «Avuto riguardo alla qualità del di lui padre, Presidente dell’Espi, una più attenta valutazione di opportunità avrebbe forse potuto suggerire al dottor Pignatone, pur in assenza di un evidente obbligo di astensione tenuto conto che almeno formalmente la società oggetto di indagine era diversa dall’Espi, di evitare di occuparsi delle vicende in questione fin dal momento in cui si trattò di richiedere le autorizzazioni alle intercettazioni».Parte del mondo della politica, in queste ore, non ha fatto mancare severe critiche all’ex procuratore capitolino. Il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri ha dichiarato senza timore reverenziale: «Sono certo che Pignatone, accusato di fatti molto gravi, si dimetterà dall’incarico ricoperto in Vaticano per non gettare discredito sulla Santa Sede. Ha seguito fatti delicati. Ora non può più». Poi ha invitato la toga della Santa Sede a non trincerarsi dietro il silenzio: «Ha destato sconcerto, ma non ci sorprende, la notizia che Pignatone sia indagato a Caltanissetta. E desta sconcerto il fatto che non abbia voluto parlare. Deve parlare. Lui e gli altri suoi colleghi del tempo devono dirci cos’è accaduto del dossier mafia e appalti. Una vicenda inquietante, che è stata insabbiata, dice l’accusa della stessa magistratura a Caltanissetta. Un dossier che è stato la causa della strage di via D’Amelio e della uccisione di Borsellino» ha concluso il parlamentare. Incurante della professione di innocenza affidata da Pignatone ai cronisti.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco