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2018-07-12
Trump atterra a Bruxelles e schiaffeggia la Merkel: «Sei succube della Russia»
Ansa
È iniziata una settimana davvero importante per Donald Trump: ieri l'avvio del vertice Nato a Bruxelles; nei prossimi giorni, l'incontro con il governo inglese in una Londra terremotata dalle incertezze strategiche di Theresa May su Brexit; e infine, il 16 luglio prossimo, l'incontro con Vladimir Putin. Ecco, per dare un triplice segnale a tutti (agli alleati europei protetti dall'ombrello Nato, al Regno Unito, a Mosca), a Donald Trump è bastato un veloce breakfast al mattino con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che non ha potuto fare altro che annuire davanti alla valanga trumpiana: «Sono molto triste per il fatto che la Germania», ha attaccato il presidente Usa, «faccia un accordo massiccio su petrolio e gas con la Russia, pagandole miliardi e miliardi di dollari, mentre noi dovremmo difendere i tedeschi da Mosca…».
Insomma, un attacco ad alzo zero contro le ipocrisie e le contraddizioni della Merkel, che a parole critica Mosca e chiede sanzioni, poi però nei fatti ci fa mega affari (rendendosene anche dipendente dal punto di vista energetico), e infine è restia a contribuire alle spese Nato nella misura del 2%. Trump, che ieri non era davvero in vena di scherzi, ha fatto subito nomi e cognomi: ci sono Paesi che «non pagano ciò che dovrebbero. Noi proteggiamo la Germania, la Francia, proteggiamo tutti questi Paesi», ma «gli Usa pagano troppo, è sproporzionato e ingiusto per i contribuenti americani». E, per chi non avesse ancora capito, dopo aver individuato i cattivi (a partire dalla Merkel, già ampiamente nel mirino Usa per il surplus commerciale tedesco), Trump ha pure indicato i buoni: «Ci sono Paesi come la Polonia che non accetterebbero il gas russo, perché diverrebbero prigionieri della Russia». Nel pomeriggio, Trump ha rincarato la dose, chiedendo addirittura il raddoppio delle spese militari a tutti gli alleati, fino alla misura-monstre del 4%.
Una Merkel letteralmente sotto assedio ha cercato in giornata di parare il colpo e di replicare, promettendo di aumentare le spese militari: ma - per così dire - se l'è presa comoda, indicando il termine del 2024. Ha anche rivendicato l'invio tedesco di truppe nell'ambito delle missioni Nato, e ha anche ricordato di «aver sperimentato di persona l'occupazione sovietica». Ma di tutta evidenza si tratta di frasi difensive, davanti a un incalzante pressing trumpiano, culminato in serata con la esorbitante richiesta di arrivare non solo al 2, ma al 4% del Pil da destinare alla difesa.
La verità è che Trump, in un colpo solo, ha recapitato tre chiari messaggi. Il primo, diretto a tutti i partner europei, è il rilancio forte dello spartiacque transatlantico: si deve parlare con tutti, ma stando in un campo chiaro, quello occidentale. Posizioni “furbe" o “terziste" sono più che mai sgradite a Washington. Quindi non è vero che Trump voglia disimpegnarsi dalla Nato: semmai vuole che gli altri siano più impegnati, a partire dalle spese militari, senza fare gli «scrocconi».
Il secondo messaggio è rivolto a Londra, alla vigilia del viaggio di Trump nel Regno Unito: in questo quadro, serve una Brexit vera, non solo di facciata. Un Regno Unito che diverga chiaramente dall'Unione europea e scelga di rafforzare la «relazione speciale» con Washington è l'opzione preferita dalla Casa Bianca.
Il terzo messaggio è per Vladimir Putin. Trump sa bene che tanti (anche a Washington: quelli che ancora sperano nel Russiagate, sempre più inconsistente) cercano l'occasione per mostrare che il suo atteggiamento è eccessivamente morbido verso Mosca. Per questo, come ha fatto ieri, alza i toni con la Russia, non dà alibi, mostra chiaramente una linea severa con il Cremlino. Trump - ovviamente - non vuole una nuova guerra fredda, cerca invece un vero reset con la Russia: ma al tempo stesso è determinato a fare in modo che l'incontro con Putin avvenga nelle maggiori condizioni di forza possibili dal punto di vista di Washington.
E c'è da scommettere che, per realizzare un'intesa soddisfacente, Trump tirerà la corda fino a che potrà, mostrandosi esigente e ambizioso.
Tutto ciò è perfettamente coerente con la missione complessiva che Trump si è dato in politica internazionale, e cioè riportare l'America al centro del ring mondiale, facendo valere la logica dell'interesse nazionale, e agendo in controtendenza rispetto all'arretramento obamiano.
Parliamoci chiaro: negli otto anni dell'Amministrazione Obama, l'America si è ritirata - fisicamente e metaforicamente - un po' da tutti i teatri decisivi, lasciando un vuoto facilmente occupato da altri attori (dall'Iran alla Russia alla Cina, e per altro verso dal terrore islamista). Ecco, la missione di Trump, in ciascuno di quei teatri, è triplice: realizzare nuove intese più vantaggiose, mostrare che l'America c'è di nuovo, e mettere in primo piano una capacità muscolare di riprendersi la sua centralità in nome degli interessi nazionali statunitensi.
Ovviamente dopo aver preso a sberle la Merkel, il presidente Usa ha confermato che la incontrerà al termine di tutti i meeting Nato. Il metodo è ormai chiaro: prima sparare, poi sedersi al tavolo.
Daniele Capezzone
I contratti da 1.100 miliardi dietro la finta guerra del 4%
Giphy
Il futuro della Nato passerà dagli accordi che Donald Trump riuscirà a chiudere nei diversi incontri bilaterali. Il pilastro principale resta il budget destinato agli armamenti. Ma non bisogna farsi sviare troppo dalla discussione di queste ore, centrate su quanto i vari membri si avvicineranno alla soglia del 2% di spesa rispetto al Pil (addirittura il 4%, stando all'ultima uscita di Trump durante il meeting di ieri a Bruxelles). Il nodo di tutta la partita sarà come i singoli membri Ue spenderanno i soldi, e soprattutto con quali partner. Compreranno armi Usa oppure francotedesche? Il dilemma riguarda in particolare l'Italia, ed è sicuramente l'argomento che il premier Giuseppe Conte sarà obbligato ad affrontare quando si troverà di fronte a Trump. Due settimane fa il ministro della Difesa francese, Florence Parly, ha riferito (senza smentite dal collega tedesco) di essere pronto a chiudere un accordo bilaterale per la costruzione di un velivolo europeo di quinta generazione. Andrà a sostituire il Rafale Dassault e l'eurofighter Typhoon. Avrà la possibilità di comandare uno sciame di droni e trasportare bombe nucleari. «Lo sviluppo di un futuro aereo da combattimento multiruolo per la Francia e la Germania, integrato in una rete di armi, è un problema fondamentale per l'autonomia strategica dell'Europa», ha riferito a Reuters l'amministratore delegato di Dassault aviation, Eric Trappier. Secondo quanto si è appreso, sarà la Francia ad assumere il ruolo di guida, mentre la Germania contribuirà a finanziare il progetto e acquisterà un gran numero di questi nuovi caccia, data tra l'altro la necessità di rinnovare la propria flotta aerea da combattimento.
Maggiori dettagli si apprenderanno dal salone dell'aviazione di Farnborough, ma non serve un analista per capire che l'idea di Berlino e Parigi è una dichiarazione di guerra agli Stati Uniti che attraverso Lockheed Martin producono il caccia di quinta generazione F 35. Questo progetto, al quale partecipano Leonardo (che produce una parte delle ali) e l'Italia (sviluppando la Faco, la struttura di assemblaggio e riparazione per il Vecchio continente), vale nel ciclo complessivo della sua esistenza qualcosa come 1.100 miliardi di dollari: 36 miliardi all'anno per 30 anni. Almeno metà di questi soldi andrà agli Stati Uniti, il resto agli altri partner del programma. Noi spenderemo circa 14 miliardi e dovremmo - nell'arco dei 30 anni - avere ritorni quasi paritetici. Essere nel business significa anche godere di un altro genere di ricadute. Significa partecipare a una gara negli Usa oppure essere considerati appestati e ripiegare su altri mercati. Per Leonardo, il colosso della Difesa tricolore, non ci sono tante strade. Francia e Germania non ci vorranno mai come partner se non con un ruolo di terza fila, e la Cina non si aprirà in nessun caso ad armi straniere. Per noi meglio avere un ruolo di seconda fila negli Usa: un Paese che resta al top del settore per tecnologia e spesa e non ci vede come avversari industriali dentro la Nato.
Trump non lo dice, ma è chiaro che per gli Usa l'unico velivolo dell'Alleanza Atlantica nei prossimi 30 anni dovrà essere l'F 35. Se la Merkel non lo capirà, allora la Casa Bianca alzerà ancor di più i toni. Non c'è posto per un aereo francotedesco. Soprattutto, non ci sono soldi per portare avanti tutti e due i programmi di quinta generazione. A nostro avviso sarebbe folle farlo. Il Joint strike fighter è praticamente realizzato. L'altro è nei sogni di Angela Merkel e di Emmanuel Macron. La scorsa settimana il nostro ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha detto che non compreremo più di 90 velivoli. Tradotto significa: noi stiamo con Trump. L'effetto cascata potrebbe portare presto a nuovi contrasti con la Francia. Mentre l'Eni procede nella conquista di pozzi in Egitto, il ministro della Difesa egiziano, Mohamed Ahmed Zaki, è stato a Parigi per trattare l'acquisto di 24 caccia Rafale. In tutto Al Fattah Al Sisi ha da spendere sette miliardi, con tanto di droni ed elicotteri. Una volta che la Nato avrà chiarito chi comanda, a quel punto si definiranno i nuovi budget e soprattutto le aziende che incasseranno i soldi. Poi sarà la volta delle alleanze di secondo grado. Se noi staremo con gli Usa, venderemo anche agli amici degli americani: egiziani o magari libici. La Nato è sempre servita a questo: separare gli amici dai nemici.
Claudio Antonelli
Per Xi Jinping un’alleanza tra russi e americani sarebbe un duro colpo
Buona parte della fortuna economica e geopolitica della Cina negli ultimi anni è legata alle sanzioni che i Paesi dell'Unione europea e della Nato, dietro richiesta specifica degli Usa, hanno lanciato nei confronti della Russia di Vladimir Putin in seguito all'annessione della Crimea.
Russia e Cina non sono mai state amiche. A dividerle la storia, la politica e la cultura ma soprattutto gli interessi nazionali che non sono riusciti a conciliare nemmeno durante l'epoca della comune appartenenza al comunismo. La Russia oggi desidera tornare a essere una grande potenza rispettata. La Cina ha più volte dichiarato di voler divenire il centro del mondo e per riuscirci deve spodestare dal Pacifico gli americani, controllando le pretese regionali di Mosca. I leader cinesi sanno bene che l'impero sovietico crollò dopo che Richard Nixon decise di allearsi con Pechino in chiave anti moscovita, e non vorrebbero che nel prossimo futuro il gioco si ritorcesse a loro sfavore; ovvero che un'alleanza tra Usa e Russia, con la probabile benevolenza europea, si trasformasse in un progetto di contenimento del mondo sinocentrico. La follia delle sanzioni contro la Russia non solo ha fatto perdere migliaia di posti di lavoro in Occidente, e costretto Putin a utilizzare le riserve dei propri fondi sovrani per sopravvivere anziché per il rimodernamento della propria economia, ma ha spinto - giocoforza - Mosca a collaborare come mai prima nella storia con Pechino. Seppur di malavoglia, Putin ha iniziato a stringere accordi commerciali, energetici e militari con Xi Jinping il quale ha compreso la posizione di debolezza della controparte e cercato di trarne il massimo vantaggio possibile.
La Cina è diventata la piattaforma attraverso la quale le aziende occidentali, impossibilitate d'avere una relazione diretta, triangolano tutte le merci destinate al mercato russo che, conseguentemente, è diventato assai più permeabile ai prodotti cinesi. Per beneficiare della posizione di vantaggio geopolitico nella quale si è involontariamente ritrovata grazie agli errori strategici americani ed europei, la Cina ha bisogno di continuare a mantenere il controllo sulla Russia, cioè sperare che Donald Trump e Putin non si riavvicinino. Non solo: deve cercare di dividere il più possibile i Paesi dell'Unione europea tra di loro e nei confronti degli Usa, ammaliandoli con vantaggi economici e collegandoli infrastrutturalmente con il progetto della nuova via della seta, la cui direttrice settentrionale non a caso passa da Mosca e finisce in Germania.
Se il presidente Giorgio Napolitano, Matteo Renzi e Barack Obama non avessero ostacolato la candidatura di Franco Frattini a segretario generale della Nato e permesso la vittoria di Jens Stoltenberg oggi le relazioni tra Usa, Ue e Russia sarebbero assai differenti, quasi certamente improntate a una migliore collaborazione. Tuttavia, a Pechino sanno bene che la Nato nonostante le critiche di Trump regge. Il limite del 2%, o meglio del 4%, è per il presidente americano una scusa per mostrare la propria caparbietà richiamando all'ordine degli alleati che hanno vissuto grazie all'ombrello protettivo offerto dagli Usa. Se la connessione Transatlantica tiene, la Cina sa bene che Trump ha tre desideri: evitare che si ripeta in Europa un'egemonia tedesca, evitare che si ripeta in Europa un'asse tra Berlino e Mosca e, conseguentemente, gestire in prima persona il rapporto con la Russia. Una Russia che riuscisse a liberarsi dall'ostracismo della famiglia Transatlantica si libererebbe dall'abbraccio cinese e la cosa, ovviamente, non è benvista a Pechino.
Tra poche ore Putin e Trump s'incontreranno. Molte cose cambieranno. A Pechino sanno che i tempi sono cambiati e che Trump capisce la logica del potere. Nel bilanciamento mondiale quella la potenza da contenere è la Cina, e il suo unico alleato con libero accesso alla Casa Bianca è il vecchio Henry Kissinger.
Laris Gaiser
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Riduci
Il presidente minaccia Berlino: non ci va di difendere chi fa affari con Mosca. Poi detta l'agenda degli incontri e mette per ultima la cancelliera.La sfida sulla quota di Pil da versare alla Nato copre la battaglia sugli appalti per aerei e armamenti. Francia e Germania alleate contro gli Usa. L'Italia va verso Washington.A Pechino seguono con sincera apprensione i risultati dei colloqui e le dichiarazioni ufficiali del vertice di Bruxelles.Lo speciale contiene tre articoliÈ iniziata una settimana davvero importante per Donald Trump: ieri l'avvio del vertice Nato a Bruxelles; nei prossimi giorni, l'incontro con il governo inglese in una Londra terremotata dalle incertezze strategiche di Theresa May su Brexit; e infine, il 16 luglio prossimo, l'incontro con Vladimir Putin. Ecco, per dare un triplice segnale a tutti (agli alleati europei protetti dall'ombrello Nato, al Regno Unito, a Mosca), a Donald Trump è bastato un veloce breakfast al mattino con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che non ha potuto fare altro che annuire davanti alla valanga trumpiana: «Sono molto triste per il fatto che la Germania», ha attaccato il presidente Usa, «faccia un accordo massiccio su petrolio e gas con la Russia, pagandole miliardi e miliardi di dollari, mentre noi dovremmo difendere i tedeschi da Mosca…».Insomma, un attacco ad alzo zero contro le ipocrisie e le contraddizioni della Merkel, che a parole critica Mosca e chiede sanzioni, poi però nei fatti ci fa mega affari (rendendosene anche dipendente dal punto di vista energetico), e infine è restia a contribuire alle spese Nato nella misura del 2%. Trump, che ieri non era davvero in vena di scherzi, ha fatto subito nomi e cognomi: ci sono Paesi che «non pagano ciò che dovrebbero. Noi proteggiamo la Germania, la Francia, proteggiamo tutti questi Paesi», ma «gli Usa pagano troppo, è sproporzionato e ingiusto per i contribuenti americani». E, per chi non avesse ancora capito, dopo aver individuato i cattivi (a partire dalla Merkel, già ampiamente nel mirino Usa per il surplus commerciale tedesco), Trump ha pure indicato i buoni: «Ci sono Paesi come la Polonia che non accetterebbero il gas russo, perché diverrebbero prigionieri della Russia». Nel pomeriggio, Trump ha rincarato la dose, chiedendo addirittura il raddoppio delle spese militari a tutti gli alleati, fino alla misura-monstre del 4%. Una Merkel letteralmente sotto assedio ha cercato in giornata di parare il colpo e di replicare, promettendo di aumentare le spese militari: ma - per così dire - se l'è presa comoda, indicando il termine del 2024. Ha anche rivendicato l'invio tedesco di truppe nell'ambito delle missioni Nato, e ha anche ricordato di «aver sperimentato di persona l'occupazione sovietica». Ma di tutta evidenza si tratta di frasi difensive, davanti a un incalzante pressing trumpiano, culminato in serata con la esorbitante richiesta di arrivare non solo al 2, ma al 4% del Pil da destinare alla difesa.La verità è che Trump, in un colpo solo, ha recapitato tre chiari messaggi. Il primo, diretto a tutti i partner europei, è il rilancio forte dello spartiacque transatlantico: si deve parlare con tutti, ma stando in un campo chiaro, quello occidentale. Posizioni “furbe" o “terziste" sono più che mai sgradite a Washington. Quindi non è vero che Trump voglia disimpegnarsi dalla Nato: semmai vuole che gli altri siano più impegnati, a partire dalle spese militari, senza fare gli «scrocconi».Il secondo messaggio è rivolto a Londra, alla vigilia del viaggio di Trump nel Regno Unito: in questo quadro, serve una Brexit vera, non solo di facciata. Un Regno Unito che diverga chiaramente dall'Unione europea e scelga di rafforzare la «relazione speciale» con Washington è l'opzione preferita dalla Casa Bianca.Il terzo messaggio è per Vladimir Putin. Trump sa bene che tanti (anche a Washington: quelli che ancora sperano nel Russiagate, sempre più inconsistente) cercano l'occasione per mostrare che il suo atteggiamento è eccessivamente morbido verso Mosca. Per questo, come ha fatto ieri, alza i toni con la Russia, non dà alibi, mostra chiaramente una linea severa con il Cremlino. Trump - ovviamente - non vuole una nuova guerra fredda, cerca invece un vero reset con la Russia: ma al tempo stesso è determinato a fare in modo che l'incontro con Putin avvenga nelle maggiori condizioni di forza possibili dal punto di vista di Washington. E c'è da scommettere che, per realizzare un'intesa soddisfacente, Trump tirerà la corda fino a che potrà, mostrandosi esigente e ambizioso.Tutto ciò è perfettamente coerente con la missione complessiva che Trump si è dato in politica internazionale, e cioè riportare l'America al centro del ring mondiale, facendo valere la logica dell'interesse nazionale, e agendo in controtendenza rispetto all'arretramento obamiano. Parliamoci chiaro: negli otto anni dell'Amministrazione Obama, l'America si è ritirata - fisicamente e metaforicamente - un po' da tutti i teatri decisivi, lasciando un vuoto facilmente occupato da altri attori (dall'Iran alla Russia alla Cina, e per altro verso dal terrore islamista). Ecco, la missione di Trump, in ciascuno di quei teatri, è triplice: realizzare nuove intese più vantaggiose, mostrare che l'America c'è di nuovo, e mettere in primo piano una capacità muscolare di riprendersi la sua centralità in nome degli interessi nazionali statunitensi. 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Ma non bisogna farsi sviare troppo dalla discussione di queste ore, centrate su quanto i vari membri si avvicineranno alla soglia del 2% di spesa rispetto al Pil (addirittura il 4%, stando all'ultima uscita di Trump durante il meeting di ieri a Bruxelles). Il nodo di tutta la partita sarà come i singoli membri Ue spenderanno i soldi, e soprattutto con quali partner. Compreranno armi Usa oppure francotedesche? Il dilemma riguarda in particolare l'Italia, ed è sicuramente l'argomento che il premier Giuseppe Conte sarà obbligato ad affrontare quando si troverà di fronte a Trump. Due settimane fa il ministro della Difesa francese, Florence Parly, ha riferito (senza smentite dal collega tedesco) di essere pronto a chiudere un accordo bilaterale per la costruzione di un velivolo europeo di quinta generazione. Andrà a sostituire il Rafale Dassault e l'eurofighter Typhoon. Avrà la possibilità di comandare uno sciame di droni e trasportare bombe nucleari. «Lo sviluppo di un futuro aereo da combattimento multiruolo per la Francia e la Germania, integrato in una rete di armi, è un problema fondamentale per l'autonomia strategica dell'Europa», ha riferito a Reuters l'amministratore delegato di Dassault aviation, Eric Trappier. Secondo quanto si è appreso, sarà la Francia ad assumere il ruolo di guida, mentre la Germania contribuirà a finanziare il progetto e acquisterà un gran numero di questi nuovi caccia, data tra l'altro la necessità di rinnovare la propria flotta aerea da combattimento. Maggiori dettagli si apprenderanno dal salone dell'aviazione di Farnborough, ma non serve un analista per capire che l'idea di Berlino e Parigi è una dichiarazione di guerra agli Stati Uniti che attraverso Lockheed Martin producono il caccia di quinta generazione F 35. Questo progetto, al quale partecipano Leonardo (che produce una parte delle ali) e l'Italia (sviluppando la Faco, la struttura di assemblaggio e riparazione per il Vecchio continente), vale nel ciclo complessivo della sua esistenza qualcosa come 1.100 miliardi di dollari: 36 miliardi all'anno per 30 anni. Almeno metà di questi soldi andrà agli Stati Uniti, il resto agli altri partner del programma. Noi spenderemo circa 14 miliardi e dovremmo - nell'arco dei 30 anni - avere ritorni quasi paritetici. Essere nel business significa anche godere di un altro genere di ricadute. Significa partecipare a una gara negli Usa oppure essere considerati appestati e ripiegare su altri mercati. Per Leonardo, il colosso della Difesa tricolore, non ci sono tante strade. Francia e Germania non ci vorranno mai come partner se non con un ruolo di terza fila, e la Cina non si aprirà in nessun caso ad armi straniere. Per noi meglio avere un ruolo di seconda fila negli Usa: un Paese che resta al top del settore per tecnologia e spesa e non ci vede come avversari industriali dentro la Nato. Trump non lo dice, ma è chiaro che per gli Usa l'unico velivolo dell'Alleanza Atlantica nei prossimi 30 anni dovrà essere l'F 35. Se la Merkel non lo capirà, allora la Casa Bianca alzerà ancor di più i toni. Non c'è posto per un aereo francotedesco. Soprattutto, non ci sono soldi per portare avanti tutti e due i programmi di quinta generazione. A nostro avviso sarebbe folle farlo. Il Joint strike fighter è praticamente realizzato. L'altro è nei sogni di Angela Merkel e di Emmanuel Macron. La scorsa settimana il nostro ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha detto che non compreremo più di 90 velivoli. Tradotto significa: noi stiamo con Trump. L'effetto cascata potrebbe portare presto a nuovi contrasti con la Francia. Mentre l'Eni procede nella conquista di pozzi in Egitto, il ministro della Difesa egiziano, Mohamed Ahmed Zaki, è stato a Parigi per trattare l'acquisto di 24 caccia Rafale. In tutto Al Fattah Al Sisi ha da spendere sette miliardi, con tanto di droni ed elicotteri. Una volta che la Nato avrà chiarito chi comanda, a quel punto si definiranno i nuovi budget e soprattutto le aziende che incasseranno i soldi. Poi sarà la volta delle alleanze di secondo grado. Se noi staremo con gli Usa, venderemo anche agli amici degli americani: egiziani o magari libici. La Nato è sempre servita a questo: separare gli amici dai nemici. Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-atterra-a-bruxelles-e-schiaffeggia-la-merkel-sei-succube-della-russia-2585809900.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="per-xi-jinping-unalleanza-tra-russi-e-americani-sarebbe-un-duro-colpo" data-post-id="2585809900" data-published-at="1765486384" data-use-pagination="False"> Per Xi Jinping un’alleanza tra russi e americani sarebbe un duro colpo Buona parte della fortuna economica e geopolitica della Cina negli ultimi anni è legata alle sanzioni che i Paesi dell'Unione europea e della Nato, dietro richiesta specifica degli Usa, hanno lanciato nei confronti della Russia di Vladimir Putin in seguito all'annessione della Crimea. Russia e Cina non sono mai state amiche. A dividerle la storia, la politica e la cultura ma soprattutto gli interessi nazionali che non sono riusciti a conciliare nemmeno durante l'epoca della comune appartenenza al comunismo. La Russia oggi desidera tornare a essere una grande potenza rispettata. La Cina ha più volte dichiarato di voler divenire il centro del mondo e per riuscirci deve spodestare dal Pacifico gli americani, controllando le pretese regionali di Mosca. I leader cinesi sanno bene che l'impero sovietico crollò dopo che Richard Nixon decise di allearsi con Pechino in chiave anti moscovita, e non vorrebbero che nel prossimo futuro il gioco si ritorcesse a loro sfavore; ovvero che un'alleanza tra Usa e Russia, con la probabile benevolenza europea, si trasformasse in un progetto di contenimento del mondo sinocentrico. La follia delle sanzioni contro la Russia non solo ha fatto perdere migliaia di posti di lavoro in Occidente, e costretto Putin a utilizzare le riserve dei propri fondi sovrani per sopravvivere anziché per il rimodernamento della propria economia, ma ha spinto - giocoforza - Mosca a collaborare come mai prima nella storia con Pechino. Seppur di malavoglia, Putin ha iniziato a stringere accordi commerciali, energetici e militari con Xi Jinping il quale ha compreso la posizione di debolezza della controparte e cercato di trarne il massimo vantaggio possibile. La Cina è diventata la piattaforma attraverso la quale le aziende occidentali, impossibilitate d'avere una relazione diretta, triangolano tutte le merci destinate al mercato russo che, conseguentemente, è diventato assai più permeabile ai prodotti cinesi. Per beneficiare della posizione di vantaggio geopolitico nella quale si è involontariamente ritrovata grazie agli errori strategici americani ed europei, la Cina ha bisogno di continuare a mantenere il controllo sulla Russia, cioè sperare che Donald Trump e Putin non si riavvicinino. Non solo: deve cercare di dividere il più possibile i Paesi dell'Unione europea tra di loro e nei confronti degli Usa, ammaliandoli con vantaggi economici e collegandoli infrastrutturalmente con il progetto della nuova via della seta, la cui direttrice settentrionale non a caso passa da Mosca e finisce in Germania. Se il presidente Giorgio Napolitano, Matteo Renzi e Barack Obama non avessero ostacolato la candidatura di Franco Frattini a segretario generale della Nato e permesso la vittoria di Jens Stoltenberg oggi le relazioni tra Usa, Ue e Russia sarebbero assai differenti, quasi certamente improntate a una migliore collaborazione. Tuttavia, a Pechino sanno bene che la Nato nonostante le critiche di Trump regge. Il limite del 2%, o meglio del 4%, è per il presidente americano una scusa per mostrare la propria caparbietà richiamando all'ordine degli alleati che hanno vissuto grazie all'ombrello protettivo offerto dagli Usa. Se la connessione Transatlantica tiene, la Cina sa bene che Trump ha tre desideri: evitare che si ripeta in Europa un'egemonia tedesca, evitare che si ripeta in Europa un'asse tra Berlino e Mosca e, conseguentemente, gestire in prima persona il rapporto con la Russia. Una Russia che riuscisse a liberarsi dall'ostracismo della famiglia Transatlantica si libererebbe dall'abbraccio cinese e la cosa, ovviamente, non è benvista a Pechino. Tra poche ore Putin e Trump s'incontreranno. Molte cose cambieranno. A Pechino sanno che i tempi sono cambiati e che Trump capisce la logica del potere. Nel bilanciamento mondiale quella la potenza da contenere è la Cina, e il suo unico alleato con libero accesso alla Casa Bianca è il vecchio Henry Kissinger. Laris Gaiser
Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Riduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
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Merito-Dicembre-2025.pdf
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