Intervistato dal quotidiano della Conferenza episcopale italiana, Avvenire, il presidente della Fondazione per la natalità, Gigi De Palo, ha rilasciato alcune dichiarazioni a pochi giorni dalla chiusura della quinta edizione degli Stati generali della natalità, indicando quelle che a suo dire potrebbero essere ricette valide per contrastare la costante riduzione delle nascite da cui l’Italia è drammaticamente afflitta (nel solo mese di agosto del 2025 il calo è stato del 5,4% rispetto ai già deprimenti dati dello stesso mese del 2024: in cifre, 230.000 neonati in meno).
Ciò che con più evidenza emerge dalle parole di De Palo, però, è un’enorme contraddizione: nel felicitarsi che, anche grazie alla partecipazione agli Stati generali del presidente della Repubblica, la natalità sia divenuta «da tema di nicchia un tema popolare e istituzionale» (ma sono molti, a dire il vero, quelli per cui è uno dei temi più importanti della contemporaneità da ben prima che ne parlasse Sergio Mattarella), egli pone infatti in cima ai possibili interventi per contrastare il crollo delle nascite una misura che tale crollo non lo combatte affatto e, anzi, lo assume come un dato immodificabile destinato semmai a consolidarsi nel prossimo futuro. Tale provvedimento prevede, secondo una scuola di pensiero che raccoglie frotte di adepti specialmente nel mondo progressista (in ambito politico come intellettuale), che al cospetto di sempre meno nascite si facciano arrivare nel nostro Paese sempre più immigrati extracomunitari. E dal momento che, appunto, De Palo dà per scontato che la denatalità non solo non potrà ridursi (ma non presiede una fondazione per la promozione della natalità?), bensì andrà ulteriormente crescendo, la prospettiva (anche se questo, è ovvio, De Palo si guarda dal dirlo) è fatalmente quella di un completo rimpiazzo, nel giro di qualche decennio, degli italiani con persone straniere. Insomma, quella della Fondazione per la natalità non è una per nulla una battaglia - che dovrebbe essere innanzitutto culturale - per far sì che gli italiani riprendano a fare figli, cosa di cui peraltro si vedrebbero ormai i benefici a distanza di almeno una ventina d’anni, ma una resa all’esistente il cui rimedio consisterebbe nel sostituire un poco alla volta - e anche piuttosto in fretta - gli italiani con dei non italiani.
Siccome le preoccupazioni di De Palo e dei molti che condividono le sue posizioni sono di ordine quasi esclusivamente economico, pur di disporre di nuova manodopera il presidente della Fondazione per la natalità ha concepito la seguente proposta, che ha battezzato ius familiae: «Invece di pensare a un’immigrazione solo a fini lavorativi, una sorta di colonialismo previdenziale, per affrontare anche il tema demografico si può immaginare un’immigrazione del lavoratore insieme a tutta la sua famiglia, perché questo consente di avere anche una maggiore sicurezza sociale rispetto a quando l’immigrato è qui nel nostro Paese da solo». Come si vede, a dispetto di quanto sostenuto da De Palo, il fine è solamente «lavorativo», e a lui sembra una buona idea («per affrontare anche il tema demografico») far stabilire in Italia interi nuclei familiari, nei quali per giunta a svolgere un’attività lavorativa sarebbe, più o meno nella totalità dei casi, soltanto l’uomo, e si avrebbero quindi - a proposito di previdenza - un lavoratore, il marito, e due futuri pensionati, il marito e la moglie.
Proprio perché il suo solo orizzonte è quello economico, De Palo, sempre in folta compagnia, trascura del tutto le ricadute sociali che un’importazione indiscriminata di immigrati inesorabilmente produce.
Ce le ricorda, in questi giorni la città di Glasgow. Il governo scozzese ha appena diffuso dei dati che attestano come per il 28,8% degli studenti di Glasgow l’inglese sia una lingua aggiuntiva: quasi un terzo dei ragazzi in età scolare (20.717 su 71.957), insomma, si esprime preferibilmente in una lingua diversa da quella del Paese in cui risiede. Definendo «davvero sconcertanti» tali dati, il parlamentare conservatore Stephen Kerr ha commentato: «Tutto ciò ha gravi conseguenze per gli standard educativi, per la coesione sociale e per la salute a lungo termine della nostra società e della nostra economia. Una società coesa dipende da una lingua condivisa. Il fatto che così tanti figli di immigrati abbiano un livello d’inglese che richiede supporto a scuola è un fallimento del governo, dovuto a un’agenda politicamente corretta, nel garantire che le comunità di immigrati si integrino nella società scozzese».
Non c’è dubbio che un simile scenario, già in parte riscontrabile in Italia, si verificherebbe in breve tempo anche da noi qualora entrasse in vigore lo ius familiae auspicato da De Palo. Secondo il quale il provvedimento contribuirebbe a garantire finalmente ciò che manca, a livello nazionale, per fronteggiare con efficacia l’emergenza denatalità: una «regia». Per un film horror, forse. E il vero orrore è che non si tratta di un film, ma della realtà.
Il convegno su Pier Paolo Pasolini organizzato da Fondazione Alleanza Nazionale e dal Secolo d’Italia che si terrà oggi pomeriggio a Roma, il cui fine - come da titolo: «Pasolini conservatore» - è quello di dibattere (con il contributo di numerosi relatori tra cui il critico letterario Andrea Di Consoli, certamente non vicino alla destra politica) gli aspetti dell’opera e del pensiero pasoliniani che appaiono in conflitto con la sua area ideologica di appartenenza, quella comunista, è vissuto dalla sinistra italiana letteralmente come un sacrilegio. Nonostante dai curatori dell’evento sia già stato chiarito in tutte le maniere possibili che scopo del convegno è unicamente promuovere una discussione, senza nessuna volontà di «annettere» PPP - operazione che non avrebbe d’altronde senso alcuno - al pantheon culturale della destra, a sinistra si è addirittura giunti a gridare alla «profanazione», come fatto ieri, a botte di gramscianesimo mal digerito, dal professor Sergio Labate sul quotidiano Domani.
Vi è, invece, un reale vilipendio di Pasolini che si consuma da decenni e che è soprattutto il mondo progressista ad alimentare: quello consistente nella diffusione - quando non, come vedremo a breve, nell’invenzione - di ipotesi e di presunte piste intorno all’uccisione del poeta (avvenuta a Ostia cinquant’anni or sono per mano, almeno secondo quanto stabilito in via definitiva dalla giustizia italiana nel 1979, dell’allora diciassettenne Giuseppe Pelosi) non soltanto prive di fondamento e di un qualsivoglia concreto riscontro, ma fattesi con il trascorrere del tempo sempre più fantasiose, arzigogolate e, pertanto, irrispettose dell’uomo Pasolini e di ciò che quest’ultimo, persona di enorme ingegno e di straordinaria complessità, fu in vita. La quantità e l’entità di queste tesi ha ormai raggiunto dimensioni tali da rendere arduo ogni tentativo di restituire un minimo di attendibilità e di credibilità a quell’atroce episodio e alla sua dinamica, eppure ci sono alcuni punti fermi che non è difficile fissare e dei quali, in ossequio sia alla vittima sia alla verità, sarebbe ora che tutti coloro che si occupano dell’uccisione di Pasolini, o anche solo se ne interessano, tenessero conto. Nella consapevolezza che, appunto, da questi punti fermi si può prescindere esclusivamente in due circostanze: o se si è del tutto disinformati o se si è in lampante malafede.
I punti fermi di cui sopra sono in realtà alquanto numerosi ma qui ci limiteremo a soffermarci su uno di essi, in quanto, tra le altre cose, esemplifcativo del bombardamento di alterazioni e manipolazioni da cui, con danno ormai forse irreparabile, l’opinione pubblica è sistematicamente investita.
Dopo essere stata introdotta alcuni anni or sono da Silvio Parrello, noto ai più come Pecetto, un signore ottantaduenne del quartiere romano di Monteverde che coltiva con apprezzabile abnegazione il culto di Pasolini, ha incredibilmente preso piede la tesi che a uccidere il poeta, sormontandolo, non sia stata la sua Alfa GT 2000 con Pelosi a bordo bensì un’altra Alfa, forse di proprietà di un certo Antonio Pinna, un oscuro affiliato del Clan dei Marsigliesi - anch’egli di Monteverde e quindi conoscente di Parrello - del quale si sono perse definitivamente le tracce nella seconda metà degli anni Settanta. Tra i sostenitori di questa bislacca teoria, che vorrebbe corroborare l’ipotesi dell’agguato politico-criminale e della successiva alterazione della scena del crimine per darle una connotazione «sessuale» che non le sarebbe appartenuta, sono individuabili due categorie: quella dei «moderati», a cui può essere iscritta la giornalista Simona Zecchi, secondo cui Pasolini (si veda il suo più recente libro, Pasolini: ordine eseguito, edito qualche settimana fa da Ponte alle Grazie) venne investito una prima volta intorno all’una e mezza di notte (senza essere ucciso) dalla sua Alfa e poi una seconda (con conseguenze letali) circa tre ore dopo da un’Alfa diversa il cui guidatore riuscì, però, a sovrapporre in modo perfetto una nuova e identica traccia dello pneumatico anteriore sinistro a quella lasciata sulla schiena della vittima dal precedente investimento, così da impedire agli inquirenti di comprendere che il poeta era appunto stato ammazzato da un’Alfa diversa da quella di sua proprietà; e poi la categoria degli «estremisti», a opinione dei quali l’Alfa di Pasolini addirittura non investì affatto lo scrittore, che sarebbe stato schiacciato esclusivamente dalla seconda Alfa. Di questo gruppo fanno parte, tra gli altri, la criminologa Simona Ruffini, cui si deve (con l’avvocato Stefano Maccioni, a propria volta convinto assertore della tesi delle due Alfa) il merito di avere fatto aprire quella che è a oggi l’ultima inchiesta sul delitto dell’Idroscalo, conclusasi nel 2015 con un’archiviazione, e il regista David Grieco, autore di un libro e di un film sul caso Pasolini intitolati entrambi La macchinazione. Come sia possibile che costoro trascurino il fatto che sotto l’Alfa GT 2000 di Pasolini sono stati rinvenuti (e accuratamente esaminati da fior di periti) sangue, lacerti di epidermide e capelli appartenenti a Pasolini medesimo non siamo in grado di spiegarlo. Quello che qui vogliamo denunciare è che entrambi, e - lo ripetiamo - non sono affatto i soli, sostengono che, nella sua perizia, il medico legale della famiglia Pasolini, Faustino Durante, avesse scritto quanto segue: «Considerando che l’inizio del percorso fatto dall’Alfa Romeo era costellato di buche profonde, la coppa dell’olio situata a 13 centimetri dal suolo non recava tracce di strusciature e di urti, cosa che invece doveva avere. Il terminale della marmitta non evidenziava nessun segno di urti se non lateralmente, ma erano segni di vecchie ammaccature. Il frontale della macchina era privo di tracce sia di sangue sia di capelli sia di cuoio capelluto». Il brano in questione, sempre presentato come un estratto della perizia di Faustino Durante, è reperibile, tra gli altri, nei libri Nessuna pietà per Pasolini di Stefano Maccioni, Domenico Valter Rizzo e Simona Ruffini (Editori Internazionali Riuniti, 2011, pag. 98), La macchinazione di David Grieco (Rizzoli, 2015, pag. 85) e Caro Pier Paolo ti racconto il tuo omicidio della sola Simona Ruffini (Edizioni Aurora Boreale, 2024, pag. 103). Peccato che tale brano, nella perizia di Faustino Durante, non sia contemplato, come può facilmente verificare chiunque la perizia in questione, diversamente da quanto fatto dagli autori dei libri succitati, si prenda la briga di leggerla (è integralmente riprodotta da pagina 199 a pagina 216 nel volume Dossier delitto Pasolini, pubblicato nel 2008 in seconda edizione aggiornata dalla casa editrice Kaos). Sì, avete capito bene: quelle righe a lui disinvoltamente attribuite, il medico legale Durante (scomparso nel 1985) non le ha mai vergate, e del resto non poteva che essere così visto che Durante non era pazzo ed era quindi ben consapevole che Pasolini fosse stato investito e ucciso dalla sua stessa automobile, nella cui parte inferiore, come già ricordato, furono trovate abbondanti tracce organiche dello scrittore. A dirla tutta, anzi, il primo paragrafo della perizia di Durante s’intitola proprio, definitivamente, Sormontamento del corpo di Pasolini da parte della propria autovettura. Il primo a divulgare il brano farlocco, pescato chissà dove o più probabilmente inventato di sana pianta, è stato nel 2008 il già citato Silvio Parrello, e un’orda di sedicenti investigatori gli è andata serenamente appresso senza né porsi domande sull’attendibilità del contenuto né peritarsi di effettuare la benché minima verifica.
Se il caso qui esaminato (a cui, relativamente al delitto Pasolini, se ne potrebbero aggiungere decine di altri analoghi) sembra condurre dalle parti della farsa, esso presenta purtroppo un risvolto drammatico: forzature, alterazioni e - come abbiamo visto - vere e proprie menzogne hanno infatti preso il posto, fagocitandolo, di ciò che è autentico o perlomeno verosimile, trovando continua ospitalità (a tutto vantaggio di chi le fandonie le diffonde) sui giornali, nelle trasmissioni televisive, nei convegni e perfino nelle aule parlamentari e nelle commissioni antimafia.
Lo ribadiamo: un vilipendio nei confronti della verità e nei confronti di Pier Paolo Pasolini. Un vilipendio, questo sì realmente tale, che però al mondo progressista piace, e parecchio. Come mai? Bella domanda. Ci sarebbe da farci un convegno.
Il dottor Andrea Crisanti, senatore del Partito democratico, ha recentemente proposto insieme a 12 suoi colleghi (non solo del Pd, ve ne sono anche due del M5S e uno, Aurora Floridia, dei Verdi del Sudtirolo-Alto Adige) un disegno di legge finalizzato, attraverso l’estensione delle attività di competenza delle ostetriche, «da un lato ad aumentare l’accessibilità dell’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg); dall’altro ad aumentare la platea degli operatori sanitari autorizzati a praticarla». Intervistato ieri da Radio Cusano Campus durante il programma Calibro 9, Crisanti ha sostanzialmente circoscritto le possibilità di intervento in un aborto, da parte di un’ostetrica, alla somministrazione - sotto il controllo medico sanitario - di farmaci idonei a determinare l’interruzione di gravidanza e al successivo monitoraggio della paziente.
Se si esamina il suo ddl, però, ci si accorge che le cose non stanno proprio così. Nel testo si legge infatti che, già oggi, un’ostetrica è autorizzata a «prendere provvedimenti d’urgenza che si impongono in assenza del medico e, in particolare, l’estrazione manuale della placenta seguita eventualmente dalla revisione uterina manuale»; pratica, quest’ultima, che sempre nel ddl è definita «dal punto di vista procedurale identica a un’interruzione di gravidanza chirurgica». Ebbene, uno degli obiettivi del disegno di legge è quello, citiamo testualmente dalla quinta pagina del documento, di «sottrarre la revisione uterina manuale dalle attività che l’ostetrica può eseguire solo in via d’urgenza e in assenza del medico» e conseguentemente di «autorizzare l’ostetrica a praticare la revisione uterina manuale anche nel caso di interruzione volontaria della gravidanza». Insomma, una quasi totale equiparazione dell’ostetrica al medico chirurgo, se è vero che la revisione uterina manuale corrisponde a un’interruzione di gravidanza chirurgica.
«La volontà di coinvolgere direttamente le ostetriche nella pratica dell’aborto nasce in primo luogo da una valutazione esasperata dei dati nazionali sui punti in cui è possibile attuare l’Ivg e sull’aumento dei ginecologi obiettori di coscienza», osserva il dottor Alberto Virgolino, presidente dell’Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici, «ma il dato nazionale, pur con differenze tra le varie regioni italiane, è che per ogni punto nascita ne esistono cinque per l’Ivg. Anche il dato sul carico di lavoro settimanale per i ginecologi non obiettori è in costante diminuzione (nel 2022 è stato di 0,87 interventi chirurgici a settimana) e, inoltre, ci sono strutture che non utilizzano appieno i ginecologi non obiettori pur presenti nell’organico». A parere di Virgolino, «coinvolgere in prima persona le ostetriche, con tutte le responsabilità che ne derivano, in un compito che peraltro ne snatura l’originaria funzione professionale, ovvero assistere e presiedere alla nascita di un figlio, è a tutti gli effetti una forzatura ideologica».
Non meno severo è il giudizio sul ddl Crisanti espresso da Rachele Sagramoso, che esercita proprio la professione di ostetrica: «I medici, tra i quali gli obiettori sono circa il 70%, si trovano spesso davanti a un 70% di ostetriche che invece non lo sono. Del resto, che le ostetriche operino attivamente nelle Ivg accade da sempre, seppur non ufficialmente, ad esempio suggerendo l’assunzione del Cytotec, farmaco utilizzato per indurre un aborto almeno parziale così da ricevere assistenza al più vicino pronto soccorso ostetrico. Quindi, benché il testo del ddl indugi sulle capacità professionali e la vocazione quasi missionaria delle ostetriche, in realtà - facendo assegnamento sulla maggior disponibilità delle ostetriche - si vuol correre ai ripari di fronte al fatto che molti medici non obiettori sono ormai stufi di praticare aborti a donne che abortiscono solo perché “possono farlo”, ossia in piena violazione della legge 194».
Sulla stessa lunghezza d’onda è Rosaria Redaelli, collega di Rachele Sagramoso: «La missione dell’ostetrica è favorire la nascita degli esseri umani tutelandone la vita fin dal concepimento. Estendere una procedura abortiva già appannaggio dei ginecologi attribuendone la competenza anche a un’ostetrica non è altro che un rimedio di tipo “organizzativo” in ragione del progressivo aumento dei medici obiettori».
Riguardo all’obiezione di coscienza, il dottor Virgolino sottolinea come sia «un caposaldo della legge 194, forse l’ultimo baluardo a difesa della vita prenatale, considerato il fatto che gli altri articoli della legge non vengono quasi mai applicati. Eppure contro i medici obiettori si sta portando avanti, a tutti i livelli, una vera e propria battaglia. In alcune regioni, da ultima la Sicilia, vengono addirittura riservati dei concorsi ai soli ginecologi non obiettori». Virgolino si dimostra critico anche nei confronti della revisione uterina in sé: «È una pratica pericolosa, si tratta di un intervento da fare in sedazione perché molto doloroso. Uno dei motivi per cui, tramite il ddl Crisanti, si vorrebbe adesso estenderla alle ostetriche è perché in questo modo si garantirebbe loro uno scudo penale qualora, come purtroppo può accadere durante un aborto, commettano qualche errore». Il dottore ha poi un’ultima domanda: «Se l’assunzione della Ru486, la pillola abortiva, è così salutare come viene detto, perché è prevista la revisione uterina? La pillola non era il farmaco che avrebbe definitivamente liberato le donne che abortiscono dalla chirurgia?».





