2025-12-03
A Glasgow non si parla più inglese. La Cei vuole farci fare la stessa fine
Su «Avvenire», il presidente della Fondazione per la natalità, Gigi De Palo, contraddice la ragion d’essere del suo ente chiedendo più nuclei familiari immigrati. L’esito di politiche del genere è visibile in Scozia.Intervistato dal quotidiano della Conferenza episcopale italiana, Avvenire, il presidente della Fondazione per la natalità, Gigi De Palo, ha rilasciato alcune dichiarazioni a pochi giorni dalla chiusura della quinta edizione degli Stati generali della natalità, indicando quelle che a suo dire potrebbero essere ricette valide per contrastare la costante riduzione delle nascite da cui l’Italia è drammaticamente afflitta (nel solo mese di agosto del 2025 il calo è stato del 5,4% rispetto ai già deprimenti dati dello stesso mese del 2024: in cifre, 230.000 neonati in meno).Ciò che con più evidenza emerge dalle parole di De Palo, però, è un’enorme contraddizione: nel felicitarsi che, anche grazie alla partecipazione agli Stati generali del presidente della Repubblica, la natalità sia divenuta «da tema di nicchia un tema popolare e istituzionale» (ma sono molti, a dire il vero, quelli per cui è uno dei temi più importanti della contemporaneità da ben prima che ne parlasse Sergio Mattarella), egli pone infatti in cima ai possibili interventi per contrastare il crollo delle nascite una misura che tale crollo non lo combatte affatto e, anzi, lo assume come un dato immodificabile destinato semmai a consolidarsi nel prossimo futuro. Tale provvedimento prevede, secondo una scuola di pensiero che raccoglie frotte di adepti specialmente nel mondo progressista (in ambito politico come intellettuale), che al cospetto di sempre meno nascite si facciano arrivare nel nostro Paese sempre più immigrati extracomunitari. E dal momento che, appunto, De Palo dà per scontato che la denatalità non solo non potrà ridursi (ma non presiede una fondazione per la promozione della natalità?), bensì andrà ulteriormente crescendo, la prospettiva (anche se questo, è ovvio, De Palo si guarda dal dirlo) è fatalmente quella di un completo rimpiazzo, nel giro di qualche decennio, degli italiani con persone straniere. Insomma, quella della Fondazione per la natalità non è una per nulla una battaglia - che dovrebbe essere innanzitutto culturale - per far sì che gli italiani riprendano a fare figli, cosa di cui peraltro si vedrebbero ormai i benefici a distanza di almeno una ventina d’anni, ma una resa all’esistente il cui rimedio consisterebbe nel sostituire un poco alla volta - e anche piuttosto in fretta - gli italiani con dei non italiani.Siccome le preoccupazioni di De Palo e dei molti che condividono le sue posizioni sono di ordine quasi esclusivamente economico, pur di disporre di nuova manodopera il presidente della Fondazione per la natalità ha concepito la seguente proposta, che ha battezzato ius familiae: «Invece di pensare a un’immigrazione solo a fini lavorativi, una sorta di colonialismo previdenziale, per affrontare anche il tema demografico si può immaginare un’immigrazione del lavoratore insieme a tutta la sua famiglia, perché questo consente di avere anche una maggiore sicurezza sociale rispetto a quando l’immigrato è qui nel nostro Paese da solo». Come si vede, a dispetto di quanto sostenuto da De Palo, il fine è solamente «lavorativo», e a lui sembra una buona idea («per affrontare anche il tema demografico») far stabilire in Italia interi nuclei familiari, nei quali per giunta a svolgere un’attività lavorativa sarebbe, più o meno nella totalità dei casi, soltanto l’uomo, e si avrebbero quindi - a proposito di previdenza - un lavoratore, il marito, e due futuri pensionati, il marito e la moglie.Proprio perché il suo solo orizzonte è quello economico, De Palo, sempre in folta compagnia, trascura del tutto le ricadute sociali che un’importazione indiscriminata di immigrati inesorabilmente produce. Ce le ricorda, in questi giorni la città di Glasgow. Il governo scozzese ha appena diffuso dei dati che attestano come per il 28,8% degli studenti di Glasgow l’inglese sia una lingua aggiuntiva: quasi un terzo dei ragazzi in età scolare (20.717 su 71.957), insomma, si esprime preferibilmente in una lingua diversa da quella del Paese in cui risiede. Definendo «davvero sconcertanti» tali dati, il parlamentare conservatore Stephen Kerr ha commentato: «Tutto ciò ha gravi conseguenze per gli standard educativi, per la coesione sociale e per la salute a lungo termine della nostra società e della nostra economia. Una società coesa dipende da una lingua condivisa. Il fatto che così tanti figli di immigrati abbiano un livello d’inglese che richiede supporto a scuola è un fallimento del governo, dovuto a un’agenda politicamente corretta, nel garantire che le comunità di immigrati si integrino nella società scozzese».Non c’è dubbio che un simile scenario, già in parte riscontrabile in Italia, si verificherebbe in breve tempo anche da noi qualora entrasse in vigore lo ius familiae auspicato da De Palo. Secondo il quale il provvedimento contribuirebbe a garantire finalmente ciò che manca, a livello nazionale, per fronteggiare con efficacia l’emergenza denatalità: una «regia». Per un film horror, forse. E il vero orrore è che non si tratta di un film, ma della realtà.
Adolfo Urso (Imagoeconomica)
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 3 dicembre con Carlo Cambi