2023-12-04
C’è trippa per tutti. Ogni parte d’Italia la cucina a suo modo. E non è affatto grassa
È alimento ricco di ferro «eme», molto più assorbibile dal nostro organismo rispetto a quello dei vegetali. Sconsigliata a chi ha problemi di colesterolo.Avete presente uno dei più noti detti di ambientazione gastronomica ossia «Non c’è trippa per gatti?» per intendere che non ci sarà qualcosa di atteso o desiderato? La frase idiomatica basata sulla metafora che adesso vi spieghiamo sarebbe nata durante il mandato da sindaco di Roma di Ernesto Nathan, 1907-1913, che aveva l’obiettivo di aggiustare il bilancio in rosso tagliando. Davanti all’impiegato che gli aveva portato le voci di spesa comunali, vedendo la voce «frattaglie per gatti», per la colonia di gatti che dovevano proteggere l’archivio capitolino dai topi del palazzo, Nathan avrebbe detto: «Non c’è trippa per gatti» aggiungendo che i felini avrebbero dovuto procacciarsi il cibo da soli, per esempio mangiando proprio quei topi e se non ci fossero stati più topi, beh, i gatti non sarebbero più serviti. Il carnicciaro, quindi, questo il nome della figura ormai scomparsa che a quell’epoca riforniva di trippa e in generale frattaglie il comune, perse un cliente. In questa bella storia sulla nostra frase idiomatica c’è già una parte di storia della trippa: tra le frattaglie, non solo da parte dei gatti, la trippa è una delle più apprezzate e anche più facili da rintracciare. La parola trippa sembrerebbe derivare dal francese e dall’inglese tripe che deriva a sua volta dal gaelico tarp che vuol dire cumulo, mucchio. In effetti la trippa è, come dire, un mucchio carneo, per la precisione il complesso dello stomaco del bovino. Lo stomaco del bovino non consiste in una sola cavità, ma quattro, tre sono prestomaci esofagei e poi c’è lo stomaco ghiandolare. Essi sono: il rumine, che è la parte di maggior spessore e grassezza della trippa, oltre che la più copiosa, ben l’80%; il reticolo, che è la parte spugnosa; l’omaso, molto magro e dall’aspetto a libro aperto; infine, l’abomaso, cioè lo stomaco ghiandolare ossia lo stomaco vero e proprio, collegato all’intestino, caratterizzato da colore scuro e dalla consistenza un po’ più grassa. Nella trippa si possono trovare anche il pezzetto di intestino tenue (in caso, privato del chimo) o di esofago. Inoltre, la trippa non è solo di mucca, c’è di ovini, di caprini e di maiale, in quest’ultimo caso, non essendo il nostro un ruminante, non ha i prestomaci e è trippa di solo stomaco. Il duodeno che collega stomaco e intestino è un tradizionale taglio che si trova nella trippa di Moncalieri. Vi capiterà di sentire nominare qualcosa e non sapere che si tratta di un nome dialettale della trippa. Ecco un piccolo sunto. Il rumine è popolarmente conosciuto come ciapa, croce, larga, panzone, il reticolo beretta, cuffia, nido d’ape, l’omaso centupezzi, foiolo, libretto, millefogli, centopelli e l’abomaso come caglio, francese, frezza, lampredotto, quaglietto, ricciolotta. Da quando l’uomo mangia la carne, mangia anche le parti dell’animale cacciato che chiamiamo frattaglie o quinto quarto. Interiora cioè organi interni, ma non solo, dal musetto ai testicoli, passando per le zampe, la frattaglia è tutto ciò che non è un taglio di carne, tradizionalmente catalogati in quarti. Quando l’uomo preistorico comincia a cacciare, essendo il quinto quarto e in particolar modo le interiora più velocemente deperibili e non conservabili rispetto alle parti che rientrano in quelli che oggi chiamiamo i tagli, si impone il consumo prioritario delle stesse, semplicemente arrostite. Anche i Greci consumavano la trippa grigliata sul fuoco, i Romani, invece, la usavano per fare salamelle. Oggi la trippa è considerata una pietanza antica e non proprio intuitiva da trattare. Per lo più la trippa viene venduta già pulita e spesso anche semicotta, ossia bollita, la bollitura serve ad intenerirne e a deodorarne le carni. Questa specie di trippa pronta per la cottura da una parte facilita chi, coevo e ignaro di pietanze così tradizionali, voglia imparare a cucinare la trippa, dall’altra rimuove dalla cultura alimentare diffusa le modalità per trattare una trippa al naturale. Vediamole. Se la trovate al naturale, va incisa e svuotata da grasso ed eventuali reliquati, poi si strofina con sale grosso e limone o aceto e si raschia con una spazzola, si sciacqua e risciacqua bene molte volte e poi si mette a mollo in acqua e aceto per due-quattro ore. La trippa già pulita ha già subito questo trattamento. Anche in questo caso, comunque, la trippa andrà sciacquata e risciacquata e poi ammollata in acqua e aceto. Si può poi trovare la trippa sbianchita ossia oltre che pulita anche bollita, la bollitura è la seconda parte del trattamento della trippa al naturale. Riconoscete la trippa già sbianchita dal colore bianchissimo (al naturale è beige-rosa). Se dovete bollire la trippa al naturale, dopo la pulizia si taglia a listarelle e si lessa in acqua bollente salata, addizionata di un po’ di aceto e con pentola coperta anche per mitigare l’odore, forte, almeno 3 ore. È pronta quando i rebbi della forchetta penetrano tranquillamente. La trippa acquistata già sbianchita va comunque bollita in acqua sale e aceto pochi minuti, sciacquata e risciacquata, raschiata se presenta grasso, ammollata in acqua e aceto o limone un’oretta, poi tagliata a listarelle. Fatto questo trattamento preventivo, la trippa va poi cotta secondo la ricetta prescelta a lungo, almeno 2 ore, un po’ per togliere l’odore che può presentare ancora e un po’ per insaporirsi, perché di suo avrebbe un sapore come dire neutro, oltre al fatto che necessita proprio da un punto di vista materico di una cottura plurioraria. La trippa non piace a tutti: anche chi apprezza alcune frattaglie, può non amare la trippa. Ma nei tempi in cui in senso figurato non c’era trippa per umani, cioè il cibo era poco, davvero non si gettava via niente e la frattaglia era spesso la parte che l’alimentazione popolare vedeva più spesso sulle sue tavole e tutti sapevano trattare e apprezzare la trippa. Perciò la cucina italiana vanta numerose preparazioni locali, alcune anche protette da marchi come la Morzeddhu catanzarisa che è una De.co., Denominazione Comunale di Origine, vanta un’origine antichissima e si prepara con trippa e alcune altre frattaglie cotte a lungo in salsa di pomodoro, spezie e aromi vari e poi servite nella pitta catanzarisa. C’è la trippa alla genovese, che vanta tante ricette, in umido con fagioli e patate, brodosa nel brodo Sbïra che era l’ultimo pasto del condannato a morte nella Repubblica di Genova, in insalata o con sugo e pinoli. Alla milanese, la famosa busecca che dà vita anche al soprannome busecconi per dire milanesi mangiatori di trippa. C’è anche la trippa in forma di salume, è la trippa di Moncalieri che ogni autunno vede anche svolgersi una fiera celebrativa. C’è poi la trippa alla parmigiana, con sugo di pomodoro e parmigiano, la trippa alla romagnola stufata con aglio, cipolla, prezzemolo, pomodoro, vino bianco, scorza di limone, cannella e chiodi di garofano e aggiunta di parmigiano grattato. La trippa alla fiorentina, anch’essa con salsa di pomodoro che è una grande presenza, come vediamo, accanto alla trippa, e, sempre in area toscana, il panino con lampredotto e salsa verde, poi la trippa alla romana, con salsa di pomodoro, mentuccia e pecorino, la trippa in zuppa marescialla, piatto tipico del napoletano con varie frattaglie. La trippa si cucina in maniera tipica non solo in Italia. C’è anche la finta trippa! Consiste in listarelle di frittata condite e servite come se fossero listarelle di trippa in sugo di pomodoro e formaggo grattugiato, in Lombardia si chiama busecca matta, nel Lazio uova in trippa, in Toscana frittata trippata. C’è poi una relativamente finta trippa, la trippa (o trippe) di baccalà che non è letteralmente stomaco del merluzzo atlantico ma una parte di filetto meno soda, dalla consistenza viscida e un po’ melliflua, rivestita di una pellicina scura, che quindi va trattata prima della cottura quasi come la trippa animale. Vi diamo una ricetta di chef Carlo Cracco con queste trippe, trippe non in senso letterale, marine. Tornando alla nostra trippa in senso stretto, guardata dal punto di vista della salute e del benessere, diversamente da quello che si potrebbe pensare non è grassa e non è ipercalorica. Più o meno mangiare trippa è come mangiare un taglio di carne abbastanza magra. Però, la trippa può risultare più onerosa da digerire perché è ricchissima di tessuto connettivo elastico e per questo motivo di solito non viene servita a bambini o anziani. Cuocendo, il tessuto connettivo diventa gelatina e ci fornisce di collagene, utile alla pelle, le articolazioni, i muscoli. Sebbene molti medici siano critici sull’effettiva utilità del collagene assunto per via alimentare, considerando efficace a rimpinguare la pelle, i muscoli e le articolazioni solo quello iniettato in loco, si tratta comunque di un collagene estratto direttamente dalla carne e non assunto aprendo una bustina di integratore, come fanno tanti oggi sperando di ridiventare più giovani e più atletici. Deve fare attenzione alla trippa chi ha problemi di colesterolo alto, perché ha 122 mg di colesterolo ogni 100 g. Non se ne deve abusare in generale e dovrebbe evitarla l’ipercolesterolemico. Chi invece soffre di gotta (uricemia) può mangiarla occasionalmente, perché le purine sono estratte ed eliminate dalla lunga bollitura successiva a pulitura e la cottura. 100 g di trippa ci danno 108 calorie, 72 g di acqua, 15,8 g di proteine, 5 g di grassi e nessun carboidrato. La trippa spicca, a livello di sali minerali, per il ferro (ferro eme, oltretutto, quello della carne, più efficace del ferro non eme da legumi e vegetali): abbiamo 4 mg in 100 g . Una porzione da 200 g ci fornisce più o meno la metà del fabbisogno giornaliero indicato dai Larn (Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia, a cura della Società Italiana di nutrizione umana) per la donna, 18 mg, e quasi la totalità di quello maschile, 10 mg, una da 300 li soddisfa pienamente. Il ferro eme della carne è diverso da quello dei vegetali e legumi, come spiega Carni sostenibili: «Il ferro eme è la forma di ferro direttamente assorbibile dal nostro intestino e si trova solo nei cibi di origine animale. Come la carne, in particolare quella rossa, perché presente nelle proteine muscolari, ma anche pollame, pesce e frutti di mare. È detto eme perché è legato al gruppo chiamato eme che consente di formare l’emoglobina, con la funzione fondamentale di trasportare l’ossigeno nel sangue e ai tessuti. La forma non eme invece è inorganica e si trova prevalentemente nei vegetali, specialmente in quelli a foglia verde scuro, nei semi e nei legumi. Mentre il ferro eme viene assorbito in modo diretto ed efficiente dal nostro intestino, con percentuali del 40%, il ferro non eme presenta difficoltà di assorbimento, con percentuali minime del 2% fino ad un massimo del 20%, se componiamo il pasto con cibi ricchi di vitamina C o di carne, escamotage che aiuta l’assorbimento del ferro non eme dai vegetali. Invece calcio e composti tipici dei vegetali come fibre, fitati, tannini, polifenoli e proteine della soia ne ostacolano ulteriormente l’assorbimento».
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