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2025-06-29
Tregua in Palestina, dialogo con l’Iran: Donald prova a rifare il suo Medio Oriente
Donald Trump (Getty Images)
Donald Trump punta alla stabilizzazione del Medio Oriente, rilanciando gli Accordi di Abramo. Un obiettivo ambizioso, che necessita di due precondizioni: chiudere la guerra a Gaza e scongiurare definitivamente lo scenario di un Iran con la bomba atomica in mano.
L’altro ieri, il presidente americano si è detto ottimista sulla possibilità che venga presto raggiunto un cessate il fuoco nella Striscia. «Penso che ci siamo quasi. Ho appena parlato con alcune delle persone coinvolte. Pensiamo che entro la prossima settimana otterremo un cessate il fuoco», ha dichiarato. A tal proposito, secondo il giornale libanese vicino a Hezbollah Al Akhbar, l’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, dovrebbe recarsi al Cairo nei prossimi giorni, per negoziare una tregua e il rilascio degli ostaggi in mano ad Hamas: ostaggi i cui famigliari sono stati ricevuti, venerdì, a Washington dal segretario di Stato americano, Marco Rubio. Nelle stesse ore, il Qatar parlava di una «finestra di opportunità» per arrivare a un cessate il fuoco a Gaza. È stato inoltre reso noto che, domani, il ministro israeliano per gli Affari strategici, Ron Dermer, dovrebbe recarsi in visita nella capitale statunitense.
Al contempo, Trump sta cercando di rilanciare i colloqui sul nucleare con Teheran. Da una parte, secondo un’indiscrezione della Cnn tuttavia smentita ufficialmente dal diretto interessato, il presidente americano avrebbe offerto all’Iran l’accesso a 30 miliardi di dollari per la realizzazione di un programma nucleare a scopo civile senza arricchimento dell’uranio; dall’altra, venerdì l’inquilino della Casa Bianca non ha escluso nuovi bombardamenti contro i siti atomici della Repubblica islamica, in caso l’uranio venisse arricchito a livelli preoccupanti.
Certo, l’Iran sta cercando di fare sfoggio di unità. Ieri, scandendo gli slogan «morte all’America» e «morte a Israele», il regime khomeinista ha celebrato solennemente i funerali dei comandanti, degli scienziati nucleari e dei civili rimasti uccisi durante la Guerra dei dodici giorni. Tuttavia, a ben vedere, si è trattato più che altro di una compattezza di facciata. Sembra infatti che stiano emergendo due «correnti» in concorrenza. Il ministro degli Esteri di Teheran, Abbas Araghchi, non ha chiuso del tutto la porta a una ripresa dei negoziati con Washington. «Se il presidente Trump desidera davvero raggiungere un accordo, dovrebbe mettere da parte i suoi toni irrispettosi e inaccettabili nei confronti della guida suprema iraniana, il grande ayatollah Khamenei, e smettere di ferire i suoi milioni di sinceri sostenitori», ha dichiarato, riferendosi all’accusa di ingratitudine che Trump, venerdì, aveva mosso alla guida suprema iraniana.
Alcuni settori dei pasdaran sembrano invece propensi alla linea dura nei confronti di Washington e Gerusalemme. Ieri, gli Huthi, storicamente spalleggiati da Teheran, hanno infatti rivendicato il lancio di un missile balistico contro il Sud di Israele. Non è inoltre escluso che la postura severa delle Guardie della rivoluzione possa portare all’irrigidimento di un altro proxy iraniano, come Hamas. Non solo. Il vicepresidente del parlamento di Teheran, Hamid Reza Haji Babaei, ha anche annunciato che il regime khomeinista impedirà al direttore dell’Aiea, Rafael Grossi, di visitare gli impianti nucleari della Repubblica islamica: il che potrebbe irritare tanto Washington quanto Mosca. Sia Trump che Vladimir Putin sono infatti contrari alla sospensione della cooperazione tra Teheran e l’Aiea. Senza contare che, secondo quanto riferito ieri dal New York Times, i recenti attacchi israeliani e americani al sito atomico iraniano di Isfahan avrebbero distrutto attrezzature fondamentali per la metallizzazione: un processo volto alla realizzazione di bombe nucleari.
Il punto è che, per Trump, la conclusione del conflitto a Gaza e l’eliminazione dell’arricchimento dell’uranio iraniano rappresentano due precondizioni essenziali per rilanciare gli Accordi di Abramo. Sia l’Arabia Saudita che la Siria potrebbero essere in procinto di normalizzare le proprie relazioni con lo Stato ebraico. Martedì, è stato lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, Tzachi Hanegbi, a confermare l’esistenza di contatti diretti tra Gerusalemme e Damasco in vista di una simile eventualità. Un’eventualità che, se si concretizzasse, non potrebbe non avere l’avallo della Turchia, che è il principale sponsor dell’attuale governo siriano. Il che sarebbe significativo, visto che, nel 2020, Ankara era stata particolarmente critica degli Accordi di Abramo. Il loro attuale rilancio presuppone non solo un Iran reso inoffensivo dal punto di vista nucleare, ma anche un cessate il fuoco a Gaza che permetta, in prospettiva, la ricostruzione della Striscia: ricostruzione a cui, oltre ai sauditi e agli emiratini, sono enormemente interessati, sia sul piano economico che politico, anche gli americani, gli israeliani e probabilmente i russi.
Tutto questo contribuisce a spiegare il motivo per cui Trump sta contemporaneamente puntando a una tregua a Gaza e alla ripresa dei colloqui con Teheran, sebbene sul tavolo restino alcune incognite. Benjamin Netanyahu dovrà convincere l’ala destra della sua coalizione di governo: e infatti ieri sera un funzionario israeliano ha espresso scetticismo sulla tempistica auspicata dalla Casa Bianca per un cessate il fuoco nella Striscia. Tutto questo, mentre, dall’altra parte, bisognerà capire quale componente del regime khomeinista riuscirà a imporsi sull’altra. E intanto ieri Israele, con un bombardamento in Libano, ha ucciso un comandante di Hezbollah.
Gli orrori prodotti da una medicina senza etica
La scienza, se privata dell’etica, può trasformarsi in uno strumento di distruzione. La medicina, nata per curare, può diventare un apparato di tortura. Durante la Seconda guerra mondiale, all’interno del sistema concentrazionario nazista, il ruolo dei medici fu centrale non solo nel controllo della vita e della morte dei prigionieri, ma anche nella conduzione di esperimenti pseudoscientifici che violarono ogni principio etico e umano. Il caso più emblematico e agghiacciante è quello di Josef Mengele, medico ad Auschwitz-Birkenau. Mengele e tanti altri medici furono protagonisti attivi del genocidio. Uno dei loro compiti principali nei lager era la selezione: all’arrivo dei deportati, stabilivano in pochi secondi chi dovesse essere mandato alle camere a gas e chi poteva essere sfruttato come forza lavoro. Nell’estate del 1944, Mengele era responsabile sanitario dei sottocampi femminili, inclusi quelli formalmente definiti «ospedali». Laureato in medicina e antropologia, membro dell’Istituto di antropologia, ereditarietà ed eugenetica delle Ss, fu mosso, secondo alcuni storici, non tanto dal desiderio diretto di uccidere, quanto da un’ambizione scientifica smisurata: sfruttare cavie umane per produrre studi genetici che gli garantissero fama e carriera. I suoi esperimenti si concentrarono soprattutto su gemelli, bambini, persone con malformazioni fisiche, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare la «razza ariana». Le vittime subivano operazioni senza anestesia, mutilazioni, iniezioni letali, autopsie immediate. Mengele era noto per l’aplomb cortese e la compostezza formale che rendevano ancora più disumana la sua crudeltà. Oltre a Mengele, operarono ad Auschwitz decine di altri medici criminali: Carl Clauberg, condusse esperimenti di sterilizzazione forzata nel Blocco 10, con il supporto della casa farmaceutica Schering. Dopo la guerra, tornò a esercitare fino al 1956; Horst Schumann e Eduard Wirths, sperimentarono su prigionieri vivi; August Hirt, professore di anatomia a Strasburgo, ordinò l’invio di 115 deportati per creare una collezione anatomica di ebrei; Herta Oberheuser, sperimentò su bambini; Sigmund Rascher, condusse esperimenti sulla resistenza umana a temperature estreme; Wladyslaw Dering, medico collaborazionista polacco, effettuò oltre 7.000 sterilizzazioni. Dopo la guerra esercitò liberamente come medico a Londra. Oltre cinquanta medici delle Ss operarono ad Auschwitz, spesso in collaborazione con università e industrie farmaceutiche. Finita la guerra molti di questi criminali fuggirono in Sud America e vissero indisturbati, protetti dal silenzio e dall’omertà di una parte della comunità scientifica e politica dell’epoca. La storia dei medici nei lager è una delle pagine più nere della medicina moderna. Ricordare questi crimini e la loro unicità non è solo un dovere della memoria: è un monito perenne.
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Riduci
I dossier per distendere i rapporti tra Israele e Paesi arabi. Ma ai funerali a Teheran urlano «morte all’America».Donald Trump punta alla stabilizzazione del Medio Oriente, rilanciando gli Accordi di Abramo. Un obiettivo ambizioso, che necessita di due precondizioni: chiudere la guerra a Gaza e scongiurare definitivamente lo scenario di un Iran con la bomba atomica in mano. L’altro ieri, il presidente americano si è detto ottimista sulla possibilità che venga presto raggiunto un cessate il fuoco nella Striscia. «Penso che ci siamo quasi. Ho appena parlato con alcune delle persone coinvolte. Pensiamo che entro la prossima settimana otterremo un cessate il fuoco», ha dichiarato. A tal proposito, secondo il giornale libanese vicino a Hezbollah Al Akhbar, l’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, dovrebbe recarsi al Cairo nei prossimi giorni, per negoziare una tregua e il rilascio degli ostaggi in mano ad Hamas: ostaggi i cui famigliari sono stati ricevuti, venerdì, a Washington dal segretario di Stato americano, Marco Rubio. Nelle stesse ore, il Qatar parlava di una «finestra di opportunità» per arrivare a un cessate il fuoco a Gaza. È stato inoltre reso noto che, domani, il ministro israeliano per gli Affari strategici, Ron Dermer, dovrebbe recarsi in visita nella capitale statunitense. Al contempo, Trump sta cercando di rilanciare i colloqui sul nucleare con Teheran. Da una parte, secondo un’indiscrezione della Cnn tuttavia smentita ufficialmente dal diretto interessato, il presidente americano avrebbe offerto all’Iran l’accesso a 30 miliardi di dollari per la realizzazione di un programma nucleare a scopo civile senza arricchimento dell’uranio; dall’altra, venerdì l’inquilino della Casa Bianca non ha escluso nuovi bombardamenti contro i siti atomici della Repubblica islamica, in caso l’uranio venisse arricchito a livelli preoccupanti.Certo, l’Iran sta cercando di fare sfoggio di unità. Ieri, scandendo gli slogan «morte all’America» e «morte a Israele», il regime khomeinista ha celebrato solennemente i funerali dei comandanti, degli scienziati nucleari e dei civili rimasti uccisi durante la Guerra dei dodici giorni. Tuttavia, a ben vedere, si è trattato più che altro di una compattezza di facciata. Sembra infatti che stiano emergendo due «correnti» in concorrenza. Il ministro degli Esteri di Teheran, Abbas Araghchi, non ha chiuso del tutto la porta a una ripresa dei negoziati con Washington. «Se il presidente Trump desidera davvero raggiungere un accordo, dovrebbe mettere da parte i suoi toni irrispettosi e inaccettabili nei confronti della guida suprema iraniana, il grande ayatollah Khamenei, e smettere di ferire i suoi milioni di sinceri sostenitori», ha dichiarato, riferendosi all’accusa di ingratitudine che Trump, venerdì, aveva mosso alla guida suprema iraniana. Alcuni settori dei pasdaran sembrano invece propensi alla linea dura nei confronti di Washington e Gerusalemme. Ieri, gli Huthi, storicamente spalleggiati da Teheran, hanno infatti rivendicato il lancio di un missile balistico contro il Sud di Israele. Non è inoltre escluso che la postura severa delle Guardie della rivoluzione possa portare all’irrigidimento di un altro proxy iraniano, come Hamas. Non solo. Il vicepresidente del parlamento di Teheran, Hamid Reza Haji Babaei, ha anche annunciato che il regime khomeinista impedirà al direttore dell’Aiea, Rafael Grossi, di visitare gli impianti nucleari della Repubblica islamica: il che potrebbe irritare tanto Washington quanto Mosca. Sia Trump che Vladimir Putin sono infatti contrari alla sospensione della cooperazione tra Teheran e l’Aiea. Senza contare che, secondo quanto riferito ieri dal New York Times, i recenti attacchi israeliani e americani al sito atomico iraniano di Isfahan avrebbero distrutto attrezzature fondamentali per la metallizzazione: un processo volto alla realizzazione di bombe nucleari.Il punto è che, per Trump, la conclusione del conflitto a Gaza e l’eliminazione dell’arricchimento dell’uranio iraniano rappresentano due precondizioni essenziali per rilanciare gli Accordi di Abramo. Sia l’Arabia Saudita che la Siria potrebbero essere in procinto di normalizzare le proprie relazioni con lo Stato ebraico. Martedì, è stato lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, Tzachi Hanegbi, a confermare l’esistenza di contatti diretti tra Gerusalemme e Damasco in vista di una simile eventualità. Un’eventualità che, se si concretizzasse, non potrebbe non avere l’avallo della Turchia, che è il principale sponsor dell’attuale governo siriano. Il che sarebbe significativo, visto che, nel 2020, Ankara era stata particolarmente critica degli Accordi di Abramo. Il loro attuale rilancio presuppone non solo un Iran reso inoffensivo dal punto di vista nucleare, ma anche un cessate il fuoco a Gaza che permetta, in prospettiva, la ricostruzione della Striscia: ricostruzione a cui, oltre ai sauditi e agli emiratini, sono enormemente interessati, sia sul piano economico che politico, anche gli americani, gli israeliani e probabilmente i russi.Tutto questo contribuisce a spiegare il motivo per cui Trump sta contemporaneamente puntando a una tregua a Gaza e alla ripresa dei colloqui con Teheran, sebbene sul tavolo restino alcune incognite. Benjamin Netanyahu dovrà convincere l’ala destra della sua coalizione di governo: e infatti ieri sera un funzionario israeliano ha espresso scetticismo sulla tempistica auspicata dalla Casa Bianca per un cessate il fuoco nella Striscia. Tutto questo, mentre, dall’altra parte, bisognerà capire quale componente del regime khomeinista riuscirà a imporsi sull’altra. E intanto ieri Israele, con un bombardamento in Libano, ha ucciso un comandante di Hezbollah.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tregua-in-palestina-2672496059.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gli-orrori-prodotti-da-una-medicina-senza-etica" data-post-id="2672496059" data-published-at="1751209800" data-use-pagination="False"> Gli orrori prodotti da una medicina senza etica La scienza, se privata dell’etica, può trasformarsi in uno strumento di distruzione. La medicina, nata per curare, può diventare un apparato di tortura. Durante la Seconda guerra mondiale, all’interno del sistema concentrazionario nazista, il ruolo dei medici fu centrale non solo nel controllo della vita e della morte dei prigionieri, ma anche nella conduzione di esperimenti pseudoscientifici che violarono ogni principio etico e umano. Il caso più emblematico e agghiacciante è quello di Josef Mengele, medico ad Auschwitz-Birkenau. Mengele e tanti altri medici furono protagonisti attivi del genocidio. Uno dei loro compiti principali nei lager era la selezione: all’arrivo dei deportati, stabilivano in pochi secondi chi dovesse essere mandato alle camere a gas e chi poteva essere sfruttato come forza lavoro. Nell’estate del 1944, Mengele era responsabile sanitario dei sottocampi femminili, inclusi quelli formalmente definiti «ospedali». Laureato in medicina e antropologia, membro dell’Istituto di antropologia, ereditarietà ed eugenetica delle Ss, fu mosso, secondo alcuni storici, non tanto dal desiderio diretto di uccidere, quanto da un’ambizione scientifica smisurata: sfruttare cavie umane per produrre studi genetici che gli garantissero fama e carriera. I suoi esperimenti si concentrarono soprattutto su gemelli, bambini, persone con malformazioni fisiche, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare la «razza ariana». Le vittime subivano operazioni senza anestesia, mutilazioni, iniezioni letali, autopsie immediate. Mengele era noto per l’aplomb cortese e la compostezza formale che rendevano ancora più disumana la sua crudeltà. Oltre a Mengele, operarono ad Auschwitz decine di altri medici criminali: Carl Clauberg, condusse esperimenti di sterilizzazione forzata nel Blocco 10, con il supporto della casa farmaceutica Schering. Dopo la guerra, tornò a esercitare fino al 1956; Horst Schumann e Eduard Wirths, sperimentarono su prigionieri vivi; August Hirt, professore di anatomia a Strasburgo, ordinò l’invio di 115 deportati per creare una collezione anatomica di ebrei; Herta Oberheuser, sperimentò su bambini; Sigmund Rascher, condusse esperimenti sulla resistenza umana a temperature estreme; Wladyslaw Dering, medico collaborazionista polacco, effettuò oltre 7.000 sterilizzazioni. Dopo la guerra esercitò liberamente come medico a Londra. Oltre cinquanta medici delle Ss operarono ad Auschwitz, spesso in collaborazione con università e industrie farmaceutiche. Finita la guerra molti di questi criminali fuggirono in Sud America e vissero indisturbati, protetti dal silenzio e dall’omertà di una parte della comunità scientifica e politica dell’epoca. La storia dei medici nei lager è una delle pagine più nere della medicina moderna. Ricordare questi crimini e la loro unicità non è solo un dovere della memoria: è un monito perenne.
John Elkann (Ansa)
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni, al quale si chiede di riferire in aula in relazione a quella che è una trattativa tra privati. O meglio: è sacrosanta la richiesta di attenzione per la tutela dei livelli occupazionali, come succede in tutti i casi in cui un grande gruppo imprenditoriale passa di mano: ciò che si comprende meno, anzi non si comprende proprio, sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
L’agitazione in casa dem tocca livelli di puro umorismo: «Di fronte a quanto sta avvenendo nelle redazioni di Repubblica e Stampa», dichiara il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, «il governo italiano non può restare silente e fermo. Chigi deve assumere un’iniziativa immediata di fronte a quella che appare come una vera e propria dismissione di un patrimonio della democrazia italiana. Per la tutela di beni e capitali strategici di interesse nazionale viene spesso evocato il Golden power. Utilizzato da questo governo per molto meno». Secondo Boccia, il governo dovrebbe bloccare l’operazione oppure intervenire direttamente ponendo condizioni. Siamo, com’è ben chiaro, di fronte al delirio politico in purezza, senza contare il fatto che quando il governo ha utilizzato il Golden power nel caso Unicredit-Bpm, il Pd ha urlato allo scandalo per l’«interventismo» dell’esecutivo. Come abbiamo detto, sono sacrosante le preoccupazioni sul mantenimento dei livelli occupazionali, molto meno comprensibili invece quelle su qualità e pluralismo dell’informazione, soprattutto se collegate alla richiesta al governo di riferire in aula firmata da Pd, Avs, M5s e +Europa.
Cosa dovrebbe fare nel concreto Giorgia Meloni? Convocare gli Elkann e Kyriakou e farsi garantire che le testate del gruppo Gedi continueranno a pubblicare gli stessi articoli anche dopo l’eventuale vendita? E a che titolo un governo potrebbe mai intestarsi un’iniziativa di questo tipo, senza essere accusato di invadere un territorio che non è di propria competenza? Con quale coraggio la sinistra che ha costantemente accusato il centrodestra di invadere il sacro terreno della libertà di stampa, ora si lamenta dell’esatto contrario? Non si sa: quello che si sa è che quando il gruppo Stellantis, di proprietà degli Elkann, ha prosciugato uno dopo l’altro gli stabilimenti di produzione di auto in Italia tutto questo allarme da parte de partiti di sinistra non lo abbiamo registrato.
Ma le curiosità (eufemismo) non finiscono qui. Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group». E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente». Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo. In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».
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Riduci
Il premier, intervenendo alla prima edizione dei Margaret Thatcher Awards, evento organizzato all’Acquario Romano dalla fondazione New Direction, il think tank dei Conservatori europei: «Non si può rispettare gli altri se non si cerca di capirli, ma non si può chiedere rispetto se non si difende ciò che si è e non si cerca di dimostrarlo. Questo è il lavoro che ogni conservatore fa, ed è per questo che voglio ringraziarvi per combattere in un campo in cui sappiamo che non è facile combattere. Sappiamo di essere dalla parte giusta della storia».
«Grazie per questo premio» – ha detto ancora la premier – «che mi ha riportato alla mente le parole di un grande pensatore caro a tutti i conservatori, Sir Roger Scruton, il quale disse: “Il conservatorismo è l’istinto di aggrapparsi a ciò che amiamo per proteggerlo dal degrado e dalla violenza, e costruire la nostra vita attorno ad esso”. Essere conservatori significa difendere ciò che si ama».
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
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Il primo ministro bulgaro Rosen Zhelyazkov (Ansa)
Il governo svolgerà le sue funzioni fino all’elezione del nuovo consiglio dei ministri. «Sentiamo la voce dei cittadini che protestano […] Giovani e anziani, persone di diverse etnie, di diverse religioni, hanno votato per le dimissioni», ha dichiarato Zhelyazkov. Anche gli studenti si erano uniti nell’ultima protesta antigovernativa di mercoledì, a Sofia e in altre città bulgare, contro la proposta di bilancio del governo per il 2026, la prima in euro. La prima proposta senza il coordinamento con le parti sociali e la prima a prevedere un aumento delle tasse e dei contributi previdenziali.
All’insegna del motto «Non ci lasceremo ingannare. Non ci lasceremo derubare», migliaia di dimostranti «portavano lanterne come segno simbolico per mettere in luce la mafia e la corruzione nel Paese», riferiva l’emittente nazionale Bnt. Chiedevano le dimissioni dell’oligarca Delyan Peevski e dell’ex primo ministro Boyko Borissov, sanzionato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per presunta corruzione. Borissov mercoledì avrebbe dichiarato che i partiti della coalizione avevano concordato di rimanere al potere fino all’adesione della Bulgaria all’eurozona, il prossimo 1° gennaio.
Secondo Zhelyazkov, si trattava di una protesta «per i valori e il comportamento» e ha dichiarato che il governo è nato da una complessa coalizione tra partiti (i socialisti del Bsp e i populisti di Itn), diversi per natura politica, storia ed essenza, «ma uniti attorno all’obiettivo e al desiderio che la Bulgaria prosegua il suo percorso di sviluppo europeo». Mario Bikarski, analista senior per l’Europa presso la società di intelligence sui rischi Verisk Maplecroft, aveva affermato che le turbolenze politiche e il ritardo nel bilancio «creeranno incertezza finanziaria a partire da gennaio».
La sfiducia nel governo in realtà ha radici anche nel diffuso malcontento per l’entrata del Paese nell’eurozona, ottenuta a giugno dopo ripetuti ritardi dovuti all’instabilità politica e al mancato raggiungimento degli obiettivi di inflazione richiesti. Secondo i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, i cui risultati sono stati pubblicati l’11 dicembre, il 49% dei bulgari è contrario all’euro, il 42% è favorevole e il 9% è indeciso. Guarda caso, la maggioranza degli intervistati in cinque Stati membri non appartenenti all’area dell’euro è contraria all'euro: Repubblica Ceca (67%), Danimarca (62%), Svezia (57%), Polonia (51%) e appunto Bulgaria.
Quasi la metà dei bulgari teme la perdita della sovranità nazionale, è contro la moneta unica e rimane affezionata alla propria moneta, al lev, che secondo Bloomberg rappresenta «un simbolo di stabilità» dopo la grave crisi economica di fine anni Novanta.
Se la Commissione europea ha ripetutamente messo in guardia contro le carenze dello stato di diritto in Bulgaria, affermando a luglio che il livello di indipendenza giudiziaria in quel Paese era «molto basso» e la strategia anticorruzione «limitata»; se per Transparency International è tra Paesi europei con il più alto tasso di percezione della corruzione ufficiale da parte dell’opinione pubblica, resta il fatto che i bulgari non scalpitano per entrare nell’eurozona.
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