Donald Trump punta alla stabilizzazione del Medio Oriente, rilanciando gli Accordi di Abramo. Un obiettivo ambizioso, che necessita di due precondizioni: chiudere la guerra a Gaza e scongiurare definitivamente lo scenario di un Iran con la bomba atomica in mano.
L’altro ieri, il presidente americano si è detto ottimista sulla possibilità che venga presto raggiunto un cessate il fuoco nella Striscia. «Penso che ci siamo quasi. Ho appena parlato con alcune delle persone coinvolte. Pensiamo che entro la prossima settimana otterremo un cessate il fuoco», ha dichiarato. A tal proposito, secondo il giornale libanese vicino a Hezbollah Al Akhbar, l’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, dovrebbe recarsi al Cairo nei prossimi giorni, per negoziare una tregua e il rilascio degli ostaggi in mano ad Hamas: ostaggi i cui famigliari sono stati ricevuti, venerdì, a Washington dal segretario di Stato americano, Marco Rubio. Nelle stesse ore, il Qatar parlava di una «finestra di opportunità» per arrivare a un cessate il fuoco a Gaza. È stato inoltre reso noto che, domani, il ministro israeliano per gli Affari strategici, Ron Dermer, dovrebbe recarsi in visita nella capitale statunitense.
Al contempo, Trump sta cercando di rilanciare i colloqui sul nucleare con Teheran. Da una parte, secondo un’indiscrezione della Cnn tuttavia smentita ufficialmente dal diretto interessato, il presidente americano avrebbe offerto all’Iran l’accesso a 30 miliardi di dollari per la realizzazione di un programma nucleare a scopo civile senza arricchimento dell’uranio; dall’altra, venerdì l’inquilino della Casa Bianca non ha escluso nuovi bombardamenti contro i siti atomici della Repubblica islamica, in caso l’uranio venisse arricchito a livelli preoccupanti.
Certo, l’Iran sta cercando di fare sfoggio di unità. Ieri, scandendo gli slogan «morte all’America» e «morte a Israele», il regime khomeinista ha celebrato solennemente i funerali dei comandanti, degli scienziati nucleari e dei civili rimasti uccisi durante la Guerra dei dodici giorni. Tuttavia, a ben vedere, si è trattato più che altro di una compattezza di facciata. Sembra infatti che stiano emergendo due «correnti» in concorrenza. Il ministro degli Esteri di Teheran, Abbas Araghchi, non ha chiuso del tutto la porta a una ripresa dei negoziati con Washington. «Se il presidente Trump desidera davvero raggiungere un accordo, dovrebbe mettere da parte i suoi toni irrispettosi e inaccettabili nei confronti della guida suprema iraniana, il grande ayatollah Khamenei, e smettere di ferire i suoi milioni di sinceri sostenitori», ha dichiarato, riferendosi all’accusa di ingratitudine che Trump, venerdì, aveva mosso alla guida suprema iraniana.
Alcuni settori dei pasdaran sembrano invece propensi alla linea dura nei confronti di Washington e Gerusalemme. Ieri, gli Huthi, storicamente spalleggiati da Teheran, hanno infatti rivendicato il lancio di un missile balistico contro il Sud di Israele. Non è inoltre escluso che la postura severa delle Guardie della rivoluzione possa portare all’irrigidimento di un altro proxy iraniano, come Hamas. Non solo. Il vicepresidente del parlamento di Teheran, Hamid Reza Haji Babaei, ha anche annunciato che il regime khomeinista impedirà al direttore dell’Aiea, Rafael Grossi, di visitare gli impianti nucleari della Repubblica islamica: il che potrebbe irritare tanto Washington quanto Mosca. Sia Trump che Vladimir Putin sono infatti contrari alla sospensione della cooperazione tra Teheran e l’Aiea. Senza contare che, secondo quanto riferito ieri dal New York Times, i recenti attacchi israeliani e americani al sito atomico iraniano di Isfahan avrebbero distrutto attrezzature fondamentali per la metallizzazione: un processo volto alla realizzazione di bombe nucleari.
Il punto è che, per Trump, la conclusione del conflitto a Gaza e l’eliminazione dell’arricchimento dell’uranio iraniano rappresentano due precondizioni essenziali per rilanciare gli Accordi di Abramo. Sia l’Arabia Saudita che la Siria potrebbero essere in procinto di normalizzare le proprie relazioni con lo Stato ebraico. Martedì, è stato lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, Tzachi Hanegbi, a confermare l’esistenza di contatti diretti tra Gerusalemme e Damasco in vista di una simile eventualità. Un’eventualità che, se si concretizzasse, non potrebbe non avere l’avallo della Turchia, che è il principale sponsor dell’attuale governo siriano. Il che sarebbe significativo, visto che, nel 2020, Ankara era stata particolarmente critica degli Accordi di Abramo. Il loro attuale rilancio presuppone non solo un Iran reso inoffensivo dal punto di vista nucleare, ma anche un cessate il fuoco a Gaza che permetta, in prospettiva, la ricostruzione della Striscia: ricostruzione a cui, oltre ai sauditi e agli emiratini, sono enormemente interessati, sia sul piano economico che politico, anche gli americani, gli israeliani e probabilmente i russi.
Tutto questo contribuisce a spiegare il motivo per cui Trump sta contemporaneamente puntando a una tregua a Gaza e alla ripresa dei colloqui con Teheran, sebbene sul tavolo restino alcune incognite. Benjamin Netanyahu dovrà convincere l’ala destra della sua coalizione di governo: e infatti ieri sera un funzionario israeliano ha espresso scetticismo sulla tempistica auspicata dalla Casa Bianca per un cessate il fuoco nella Striscia. Tutto questo, mentre, dall’altra parte, bisognerà capire quale componente del regime khomeinista riuscirà a imporsi sull’altra. E intanto ieri Israele, con un bombardamento in Libano, ha ucciso un comandante di Hezbollah.
Gli orrori prodotti da una medicina senza etica
La scienza, se privata dell’etica, può trasformarsi in uno strumento di distruzione. La medicina, nata per curare, può diventare un apparato di tortura. Durante la Seconda guerra mondiale, all’interno del sistema concentrazionario nazista, il ruolo dei medici fu centrale non solo nel controllo della vita e della morte dei prigionieri, ma anche nella conduzione di esperimenti pseudoscientifici che violarono ogni principio etico e umano. Il caso più emblematico e agghiacciante è quello di Josef Mengele, medico ad Auschwitz-Birkenau. Mengele e tanti altri medici furono protagonisti attivi del genocidio. Uno dei loro compiti principali nei lager era la selezione: all’arrivo dei deportati, stabilivano in pochi secondi chi dovesse essere mandato alle camere a gas e chi poteva essere sfruttato come forza lavoro. Nell’estate del 1944, Mengele era responsabile sanitario dei sottocampi femminili, inclusi quelli formalmente definiti «ospedali». Laureato in medicina e antropologia, membro dell’Istituto di antropologia, ereditarietà ed eugenetica delle Ss, fu mosso, secondo alcuni storici, non tanto dal desiderio diretto di uccidere, quanto da un’ambizione scientifica smisurata: sfruttare cavie umane per produrre studi genetici che gli garantissero fama e carriera. I suoi esperimenti si concentrarono soprattutto su gemelli, bambini, persone con malformazioni fisiche, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare la «razza ariana». Le vittime subivano operazioni senza anestesia, mutilazioni, iniezioni letali, autopsie immediate. Mengele era noto per l’aplomb cortese e la compostezza formale che rendevano ancora più disumana la sua crudeltà. Oltre a Mengele, operarono ad Auschwitz decine di altri medici criminali: Carl Clauberg, condusse esperimenti di sterilizzazione forzata nel Blocco 10, con il supporto della casa farmaceutica Schering. Dopo la guerra, tornò a esercitare fino al 1956; Horst Schumann e Eduard Wirths, sperimentarono su prigionieri vivi; August Hirt, professore di anatomia a Strasburgo, ordinò l’invio di 115 deportati per creare una collezione anatomica di ebrei; Herta Oberheuser, sperimentò su bambini; Sigmund Rascher, condusse esperimenti sulla resistenza umana a temperature estreme; Wladyslaw Dering, medico collaborazionista polacco, effettuò oltre 7.000 sterilizzazioni. Dopo la guerra esercitò liberamente come medico a Londra. Oltre cinquanta medici delle Ss operarono ad Auschwitz, spesso in collaborazione con università e industrie farmaceutiche. Finita la guerra molti di questi criminali fuggirono in Sud America e vissero indisturbati, protetti dal silenzio e dall’omertà di una parte della comunità scientifica e politica dell’epoca. La storia dei medici nei lager è una delle pagine più nere della medicina moderna. Ricordare questi crimini e la loro unicità non è solo un dovere della memoria: è un monito perenne.
Il ritorno a casa di persone che sono state rapite e tenute in cattività pone dei problemi inusuali e di difficile gestione sia sanitaria che etico comportamentale. Qual è la prima cosa che dici a un rapito che scende da un elicottero? Che tono di voce usi? Lo abbracci? Lo tocchi? Cosa dici quando ti chiede «Perché mia madre non è qui per incontrarmi?».
«Abbiamo fatto pratica più e più volte finché non abbiamo trovato le soluzioni migliori e le persone più adatte a soddisfare ogni prigioniero», ha affermato il dottor Itai Pessach, medico di terapia intensiva pediatrica, direttore dell’ospedale pediatrico Edmond and Lily Safra presso lo Sheba Medical Center (Tel Aviv). Pessach dirige la squadra medica speciale dello Sheba che si prende cura degli ostaggi di ritorno. Si stima che delle 251 persone rapite a Gaza dai terroristi di Hamas il 7 ottobre, 120 sono state rilasciate nel corso del tempo. Tutti sono stati trasportati direttamente negli ospedali israeliani, di cui 36 allo Sheba, più che in qualsiasi altro ospedale. In un webinar organizzato dall’American Friends of Sheba Medical Center il 1° luglio, Pessach ha spiegato che l’ospedale pediatrico è stato ritenuto il centro medico più adatto per prendersi cura di ostaggi di qualsiasi età. «Fin dall’inizio, abbiamo capito che i rapiti avrebbero avuto bisogno di un ambiente tranquillo e protettivo per ridurre l’ansia e di un posto in cui avremmo potuto ospitare anche le loro famiglie, cosa che facciamo sempre nel nostro ospedale pediatrico», ha detto. Inoltre, davamo per scontato - purtroppo erroneamente - che i bambini rapiti sarebbero stati liberati per primi e in tempi rapidi.
«Pensavamo che ci sarebbero voluti alcuni giorni prima che i bambini rapiti venissero restituiti e abbiamo iniziato a prepararci per fornire loro le cure specifiche e delicate di cui avrebbero avuto bisogno. Non potevamo immaginare che persino un’organizzazione terroristica feroce come Hamas avrebbe tenuto prigionieri i bambini per un lungo periodo», ha detto Pessach. Se poi pensiamo che tra i rapiti c’era un neonato di dieci mesi, Kfir Bibas, è difficile farsi qualche illusione con questi personaggi. Circa 120 professionisti sono stati selezionati con cura per essere addestrati nella squadra speciale che ha aiutato gli ostaggi liberati. Tra loro ci sono psichiatri specializzati nei traumi dei soldati e dei prigionieri di guerra, esperti nel trattamento delle donne che hanno subito aggressioni sessuali e personale con esperienza nel lavoro con bambini vittime di violenza. «Abbiamo dovuto raccogliere molto know-how perché nessun operatore sanitario lo aveva mai fatto prima, né in Israele né in nessun altro posto al mondo», ha detto Pessach. «Non c’era un protocollo basato sulle prove, quindi abbiamo dovuto crearlo». Lo Sheba ha persino chiesto il parere di esperti in traumatologia che avevano avuto a che fare con ragazze rapite da Boko Haram in Nigeria, bambini rapiti dai cartelli della droga in Messico e bambini in zone di guerra come Bosnia e Ucraina.
«Abbiamo simulato diversi tipi di scenari di ritorno e li abbiamo messi in pratica più volte. Abbiamo svolto un processo approfondito per comprendere il modo giusto di accogliere le persone che hanno subito un’esperienza così orribile e impedire che si verificassero ulteriori danni psicologici». Sulla base delle raccomandazioni raccolte, l’ospedale pediatrico Safra ha predisposto con cura un’area apposita, protetta dalla stampa e dal pubblico, per accogliere gli ostaggi. «Ci siamo assicurati che le luci fossero soffuse perché alcuni di loro erano stati tenuti sottoterra e avevano dovuto acclimatarsi lentamente alla luce», ha detto Pessach.
«Abbiamo sostituito molti mobili per farla sembrare più una stanza di un boutique hotel che una stanza di un paziente. Non sapevamo quali sarebbero state le loro condizioni mediche, ma dovevamo essere pronti a fornire cure avanzate. Siamo stati in grado di passare da una terapia intensiva a una «stanza di hotel» in pochi minuti per fornire le cure mediche necessarie in un ambiente sicuro», ha aggiunto. Il team ha persino pensato di allestire una cucina con chef in cui preparare qualsiasi piatto desiderato dai rapiti rimpatriati, nonché un salone per capelli, unghie e trattamenti per il viso per le ex prigioniere che potessero aver bisogno di questi servizi per «sentirsi esseri umani», ha affermato Pessach. Sono state esaminate le cartelle cliniche di ogni prigioniero per determinare le probabili necessità, come ad esempio occhiali da vista rotti o portati via. Pesach si ricordò di un prigioniero la cui prescrizione specifica per occhiali non era immediatamente disponibile. «Così una persona ha chiesto a un’altra che ha chiesto a un’altra ancora - è così che funzionano le cose in Israele - e in meno di un’ora, nel cuore della notte, abbiamo trovato un optometrista che è andato nel suo negozio, ha preparato gli occhiali e li ha portati allo Sheba».
Un altro motivo per cui l’ospedale pediatrico era il luogo più appropriato per accogliere gli ostaggi è che il personale è esperto nel dare con delicatezza le brutte notizie. «Avevamo molte brutte notizie da dare ad alcuni dei prigionieri, soprattutto ai primi ad essere rilasciati dopo 50 giorni», ha detto «Non sapevano che altri erano stati rapiti. Non sapevano che altre comunità erano state aggredite il 7 ottobre. Non sapevano che alcuni dei loro familiari erano morti e altri erano stati fatti prigionieri. «Volevamo dare questa notizia in modo molto controllato e sicuro, su misura, consultandoci con i loro familiari». Nonostante tutta questa meticolosa preparazione, Pessach ha detto che i protocolli sono stati modificati in base all’esperienza effettiva. La conoscenza accumulata è stata condivisa con altri ospedali che hanno ricevuto ostaggi, e viceversa. Lo staff aveva dato per scontato, ad esempio, che i rapiti di ritorno non avrebbero voluto parlare o essere toccati, come è tipico delle vittime di violenza. Avevano dato per scontato che inizialmente i rapiti avrebbero voluto avere contatti solo con persone selezionate e che avrebbero dovuto essere protetti dagli altri. «Ma invece era il contrario; desideravano ardentemente il contatto fisico con noi e le loro famiglie, e volevano condividere le loro esperienze e il loro dolore. Volevano parlare, e volevano vedere gli amici il più velocemente possibile, per provare gioia e felicità. Non volevano essere lasciati soli», ha detto Pessach. «Ora sappiamo che dobbiamo ancora proteggerli in una certa misura, ma dobbiamo anche dare loro molta scelta. Gli ultimi quattro rapiti che sono tornati volevano davvero interagire con i loro amici e familiari, quindi glielo abbiamo permesso fin dall’inizio», ha aggiunto. «Si tratta di un processo continuo di apprendimento della soluzione esatta appropriata per ogni prigioniero che ritorna». Pessach ha affermato che tutti gli ostaggi hanno subito un trauma psicologico e fisico significativo. E sebbene ognuno abbia sofferto in prigionia, le esperienze e le reazioni individuali sono state molto diverse. «Le loro condizioni dipendevano da dove venivano trattenuti e con chi venivano trattenuti. Quelli trattenuti da soli (alcuni sono stati trattenuti da soli per 50 giorni, quasi senza alcuna interazione umana) hanno avuto un’esperienza molto diversa a livello fisico e psicologico rispetto a quelli trattenuti con altri ostaggi o con familiari», ha spiegato. «Quelli tenuti sottoterra erano esposti a condizioni più dure di quelli tenuti in appartamenti. Anche le persone nello stesso gruppo avevano esperienze diverse a seconda di come i loro rapitori si relazionavano con ciascuno di loro». I bambini che sono tornati a casa, ha aggiunto, erano generalmente più resilienti degli adulti. «Ci sono almeno altri 120 ostaggi ancora a Gaza», ha detto Pessach. «Non possiamo semplicemente sederci e aspettare che tornino. Ogni secondo, le loro vite sono a rischio e la loro salute è compromessa. Noi in Israele e in tutto il mondo dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per assicurarci che tornino. Siamo pronti a riceverli in qualsiasi momento e a dare loro la migliore assistenza possibile, ma non è abbastanza. Abbiamo solo bisogno che tornino qui».




