2025-10-26
Torna la tradizione con la messa in latino di Burke in San Pietro
Il cardinale Raymond Leo Burke (Getty Images)
Il cardinale, con il benestare di Prevost, sgretola uno dei diktat più contestati di Francesco che vedeva come fumo il rito antico.Torna la messa in latino a San Pietro. Ieri il cardinale Raymond Leo Burke, uno dei maggiori oppositori di Bergoglio, ha celebrato col rito tridentino. Il giorno prima, il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi (bergogliano di ferro), ha presieduto, nella basilica di San Lorenzo in Lucina a Roma, i vespri sempre con rito tridentino. Questo avviene in occasione di un pellegrinaggio nell’anno del Giubileo, approvato da Leone XIV stesso, per un gruppo di tradizionalisti ai quali era stato proibito da papa Bergoglio con il motu proprio (che significa «di propria iniziativa») Traditionis custodes; Francesco aveva disposto che «i libri liturgici promulgati dai Santi pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II sono l’unica espressione della lex orandi», cioè della legge che regola la preghiera nella Chiesa.La decisione di Francesco provocò molte proteste all’interno della Chiesa da parte di vescovi, sacerdoti e fedeli che avrebbero desiderato continuare con il rito tridentino. Quando si parla della messa tridentina, o vetus ordo, ci si riferisce alla forma della celebrazione che prende il nome dal Concilio di Trento e che fu codificata nel 1570 da papa Pio V con il Messale romano, la lingua usata era quella latina e il celebrante volgeva le spalle al popolo ed era orientato verso l’abside. Nel 1969, dopo il Concilio vaticano II, la messa venne sostituita dalle lingue dei vari Paesi, ma fino al 1962, con alcune variazioni, era rimasta la messa celebrata regolarmente. Inutile ora ripercorrere tutta la storia che ha contrapposto progressisti e tradizionalisti sull’uso della lingua latina nella Chiesa cattolica stessa.Il fatto importante da ricordare è che il 7 luglio del 2007 Benedetto XVI, proseguendo sulla linea di papa Giovanni Paolo II che richiese ai vescovi che fosse «ovunque rispettato l’animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina», emanò il motu proprio Summorum pontificum nel quale si prende la decisione di permettere a tutti i sacerdoti latini la possibilità di utilizzare il Messale del 1962 (dunque precedente alla riforma del Concilio vaticano II) facendo presente che, in realtà, quello del 1962 non lo aveva mai abrogato nessuno, quindi era lecito celebrare la messa sia secondo il rito del 1962 sia secondo quello riformato dal Concilio nel 1969. Questo fu fatto esplicitamente per favorire la sensibilità di coloro che si sentivano maggiormente a loro agio nella celebrazione latina dell’eucarestia.Del resto, secondo un’antica formulazione della teologia cristiana che appare in un’opera di Prospero d’Aquitania (390-430), lex orandi, lex credendi, cioè il contenuto della preghiera è il contenuto della fede, e non ci risulta che nel Messale del 1962 ci fossero eresie rispetto a quello del 1969. Infatti, il Concilio vaticano II produsse delle costituzioni dogmatiche come quella sulla Chiesa, sulla Divina rivelazione, sulla Sacra liturgia, ma non fu un Concilio specificamente dogmatico e teso, come i primi Concili della Chiesa, a combattere le eresie, ma fu chiamato un «Concilio di aggiornamento della Chiesa». Detto questo, va osservato che i Papi precedenti a Bergoglio, ivi compreso Paolo VI, avevano sempre cercato una via di accordo con i fedeli tradizionalisti e mai una rottura così aspra e secca come quella di Francesco che viceversa, verso altre sensibilità anche sterne alla Chiesa, aveva sempre dimostrato una notevole apertura. Per la verità, questa apertura è stata contemporanea - non vogliamo dire che ci sia stato un processo di causa-effetto - a uno svuotamento delle chiese e dei seminari, cioè delle vocazioni sacerdotali.Due ultime osservazioni. La prima riguarda una frase di Sant’Ambrogio tratta dal numero 25 del De Paradiso che dice così: «Cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguito» (nova semper quaerere et parta custodire), che potrebbe essere tradotto con «cercare sempre le cose nuove e custudire quelle antiche e valide» nella ricerca di un equilibrio saggio tra l’antico e il nuovo senza passatismi o avventurismi. Questo atteggiamento ci pare che sia stato quello dominante da Paolo VI fino a Leone XIV ma non quello di papa Francesco. Si potrebbero analizzare altri campi nei quali questo è avvenuto, ma non è qui il luogo adatto per farlo e, del resto, lo abbiamo già fatto varie volte precedentemente.La seconda riguarda un antico concetto della Chiesa cattolica che si chiama sensus fidei o sensus fidelium che sarebbe il senso della fede del popolo di Dio, cioè di tutti i credenti, che permette una pluralità di sensibilità, di modi e di attitudini nel discernere le modalità personali di esprimere la propria fede. Non si tratta di un individualismo religioso, dove ognuno può decidere ciò che è da credere e ciò che non è da credere ma, nell’unità della stessa fede tramandata dalla Chiesa, vivere la fede nel modo che la propria personalità sente come maggiormente adatta alla propria persona. Non è una forma di anarchismo religioso ma, semmai, di personalismo religioso. Ed è anche un ponte tra la Ecclesia docens (la Chiesa che insegna) e la Ecclesia discens (la Chiesa che apprende) in una sorta di integrazione e arricchimento reciproco tra il sensus fidei che potremmo definire verticale del magistero e il sensus fidei orizzontale e popolare.Del resto, un documento della Commissione teologica internazionale del 2014, il Sensus fidei nella vita della Chiesa, al numero 119 dice così: «Ma è opportuno ricordare che l’esperienza della Chiesa dimostra come alle volte la verità della fede sia stata conservata non dagli sforzi dei teologi né dall’insegnamento della maggioranza dei vescovi, ma nel cuore dei credenti».
Il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri (Ansa)
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