2023-10-01
Giudici col turbo sui migranti già respinti i piani del governo
Giorgia Meloni e Carlo Nordio (Ansa)
A due settimane dalle nuove norme volute dall’esecutivo per snellire i rimpatri, una toga di Catania nega la possibilità di trattenere quattro tunisini (due dei quali già da espellere). Bisogna metter mano alla giustizia.Ho sempre pensato che il problema dei migranti non fosse risolvibile soltanto trovando un accordo con la Ue per la redistribuzione dei richiedenti asilo o raggiungendo un’intesa con i Paesi del Nordafrica che si affacciano sul Mediterraneo, né con un blocco delle partenze. Tutte queste sono mosse utili, ma se non risolveremo il problema che abbiamo in casa nostra, ossia l’atteggiamento della magistratura nei confronti degli extracomunitari, sarà difficile riuscire a ottenere risultati concreti nella lotta (sì, si tratta di una lotta) all’immigrazione clandestina. Negli ultimi 30 anni, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, ci siamo resi conto che le toghe sono diventate un contro potere politico, capace di opporsi a governi democraticamente eletti con l’uso delle indagini. Una stagione che qualcuno probabilmente immaginava si fosse conclusa con la scomparsa del Cavaliere. E invece no, com’era presumibile, nel dibattito politico tornano protagoniste le sentenze. E che sentenze. Un giudice ha deciso di liberare quattro migranti che erano stati rinchiusi in un Cpr, in attesa di essere rimpatriati. Secondo il tribunale, le nuove misure adottate dal governo per contenere l’ondata migratoria sarebbero incostituzionali e dunque, in attesa di una prossima pronuncia della Consulta, li ha rimessi in circolazione, rendendo praticamente inutili i tentativi del ministero dell’Interno di trovare un sistema per scoraggiare le partenze verso l’Italia di migliaia di stranieri.Era prevedibile la decisione della magistratura? La risposta è sì. È dall’introduzione del reato di clandestinità che i giudici rifiutano l’applicazione della legge, lasciando in libertà coloro che sono entrati illegalmente nel nostro Paese. Non solo: nel prossimo numero di Panorama, in edicola mercoledì, si raccontano i casi estremi di extracomunitari lasciati liberi di delinquere. Nonostante siano stati arrestati in flagranza di reato decine di volte, in qualche caso anche lo stesso giorno, la magistratura non ha ritenuto di applicare misure come la detenzione o l’espulsione, limitandosi a provvedimenti all’acqua fresca, come l’obbligo di firma in caserma o il divieto di permanenza nel Comune, consentendo dunque al criminale di proseguire la propria attività, in orari o in località diverse. Ma se questo non bastasse, è sufficiente vedere come è finita con Matteo Salvini. Il ministro dell’Interno del governo Conte, con la politica dei porti chiusi aveva ottenuto concreti risultati, scoraggiando partenze e sbarchi. Ma per quella decisione oggi è sotto processo: la magistratura gli ha contestato il sequestro di persona per aver impedito lo sbarco dei migranti a bordo delle navi della Ong. A spedirlo a giudizio è stata una sinistra vigliacca, incapace di vincere le elezioni, ma capace di tutto per rubarle. Tuttavia, senza una magistratura politicamente orientata a difesa dei clandestini, oggi non staremmo in queste condizioni.Ne consegue che, oltre a trovare un accordo con la Ue e con i Paesi africani, Giorgia Meloni oggi deve rendersi conto che la riforma della giustizia non può limitarsi a un decreto sulle intercettazioni. O si pone un argine alla deriva dei tribunali o il problema, dei migranti ma non solo, non verrà mai risolto. Aggiungo di più. Se vuole davvero trasformare questo Paese in una democrazia compiuta, in cui la sovranità è rimessa al popolo, come dice l’articolo 1 della nostra Carta, il presidente del Consiglio deve urgentemente porre rimedio alla virata a sinistra della Consulta. Ormai la Corte costituzionale è un presidio della sinistra (basti vedere la sentenza ad personam del caso Regeni, che stravolge i principi del giusto processo e apre la strada a scenari inimmaginabili, con pronunciamenti a dir poco creativi). Dunque, se si vuole voltare pagina, l’attuale maggioranza deve approfittare dell’uscita di scena per raggiunti limiti di età di una serie di giudici della legge, nominandone altri che non siano espressione dei compagni. Lo so, è un’operazione complicata, anche perché Sergio Mattarella farà qualsiasi cosa pur di impedire che cambi qualcosa, ma è dalla Corte e dalla giustizia che si deve partire se non si vuole perdere una partita vitale. Donald Trump in America ha fatto poche cose buone, ma la più importante di queste è stata la nomina dei giudici della Corte suprema, con cui anche senza di lui alla Casa Bianca, sta cambiando la legislazione woke. Quella è la strada. Urge imboccarla in fretta, prima che siano le toghe a modificare la scelta degli elettori. È in gioco la democrazia di questo Paese. Si tratta di stabilire se governa la maggioranza scelta dagli italiani o una minoranza che si vuole appropriare del diritto di decidere per gli italiani.
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Arrivò prima dei fratelli Lumière il pioniere del cinema Filoteo Alberini, quando nel 1894 cercò di brevettare il kinetografo ispirato da Edison ed inventò una macchina per le riprese su pellicola. Ma la burocrazia italiana ci mise un anno per rilasciare il brevetto, mentre i fratelli francesi presentavano l’anno successivo il loro cortometraggio «L’uscita dalle officine Lumière». Al di là del mancato primato, il regista e produttore italiano nato ad Orte nel 1865 poté fregiarsi di un altro non meno illustre successo: la prima proiezione della storia in una pubblica piazza di un’opera cinematografica, avvenuta a Roma in occasione dell’anniversario della presa di Roma. Era il 20 settembre 1905, trentacinque anni dopo i fatti che cambiarono la storia italiana, quando nell’area antistante Porta Pia fu allestito un grande schermo per la proiezione di quello che si può considerare il primo docufilm in assoluto. L’evento, pubblicizzato con la diffusione di un gran numero di volantini, fu atteso secondo diverse fonti da circa 100.000 spettatori.
Filoteo Alberini aveva fondato poco prima la casa di produzione «Alberini & Santoni», in uno stabile di via Appia Nuova attrezzato con teatri di posa e sale per il montaggio e lo sviluppo delle pellicole. La «Presa di Roma» era un film della durata di una decina di minuti per una lunghezza totale di 250 metri di pellicola, della quale ne sono stati conservati 75, mentre i rimanenti sono andati perduti. Ciò che oggi è visibile, grazie al restauro degli specialisti del Centro Sperimentale di Cinematografia, sono circa 4 minuti di una storia divisa in «quadri», che sintetizzano la cronaca di quel giorno fatale per la storia dell’Italia postunitaria. La sequenza parte con l’arrivo a Ponte Milvio del generale Carchidio di Malavolta, intenzionato a chiedere al generale Kanzler la resa senza spargimento di sangue. Il secondo quadro è girato in un interno, probabilmente nei teatri di posa della casa di Alberici e mostra in un piano sequenza l’incontro tra il messo italiano e il comandante delle forze pontificie generale Hermann Kanzler, che rifiuta la resa agli italiani. I quadri successivi sono andati perduti e il girato riprende con i Bersaglieri che passano attraverso la breccia nelle mura di Porta Pia, per passare quindi all’inquadratura di una bandiera bianca che sventola sopra le mura vaticane. L’ultimo quadro non è animato ed è colorato artificialmente (anche se negli anni alcuni studiosi hanno affermato che in origine lo fosse). Nominata «Apoteosi», l’ultima sequenza è un concentrato di allegorie, al centro della quale sta l’Italia turrita affiancata dalle figure della mitopoietica risorgimentale: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini. Sopra la figura dell’Italia brilla una stella che irradia la scena. Questo dettaglio è stato interpretato come un simbolo della Massoneria, della quale Alberici faceva parte, ed ha consolidato l’idea della forte impronta anticlericale del film. Le scene sono state girate sia in esterna che in studio e le scenografie realizzate da Augusto Cicognani, che si basò sulle foto dell’epoca scattate da Ludovico Tumminello nel giorno della presa di Roma. Gli attori principali del film sono Ubaldo Maria del Colle e Carlo Rosaspina. La pellicola era conosciuta all’epoca anche con il titolo di «La Breccia di Porta Pia» e «Bandiera Bianca».
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