La questione dello status giuridico del Donbass, al crocevia tra il diritto costituzionale ucraino e il diritto internazionale pubblico, rappresenta una delle più complesse tensioni della modernità giuridica, dove la forma dello Stato si dissolve nella sostanza dei rapporti di forza e la norma positiva fatica a contenere il principio, più antico e profondo, di giustizia politica. La Costituzione della Repubblica di Ucraina del 1996, all’art. 2, proclama il principio di unità ed indivisibilità, sancendo che l’Ucraina è uno Stato unitario e che il suo territorio all’interno dei confini esistenti è indivisibile e inviolabile. Tale formulazione colloca l’integrità territoriale tra i fondamenti costituzionali dell’ordinamento, riconducendo ogni pretesa secessionista nell’alveo dell’illiceità interna. Tuttavia, come spesso accade nelle situazioni di crisi politica, la rigidità del Testo costituzionale si è trovata di fronte alla flessibilità del diritto internazionale e, più ancora, al realismo della storia. Il diritto internazionale contemporaneo, infatti, non può ignorare il principio di autodeterminazione dei popoli, che costituisce una delle pietre angolari della Carta delle Nazioni Unite del 1945 (art. 1, § 2) e del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 1). Tale principio, come affermato anche nella giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia, possiede una duplice dimensione: interna, che implica la libertà di un popolo di determinare il proprio assetto politico all’interno di uno Stato esistente, ed esterna, che può giungere, in casi estremi, fino alla secessione, qualora un popolo sia privato dei mezzi per esercitare la propria autodeterminazione all’interno dell’ordine costituzionale. Nell’interpretazione restrittiva prevalente, tuttavia, l’autodeterminazione esterna, la c.d. «remedial secession», è ammissibile solo in presenza di violazioni gravi e sistematiche dei diritti fondamentali, tali da rendere impossibile la partecipazione effettiva alla vita politica dello Stato. Ora, nel caso del Donbass, il principio di autodeterminazione è stato invocato da attori locali e dalla Federazione russa in un contesto di conflitto armato e di interferenze geopolitiche e questo ne rende ambigua la qualificazione giuridica. Formalmente, le «Repubbliche popolari» di Donetsk e Luhansk hanno proclamato la loro indipendenza nel 2014 sulla base di consultazioni popolari non riconosciute né dal governo di Kiev, né dalla comunità internazionale, violando il principio di integrità territoriale sancito dalla Carta Onu (art. 2, § 4). Sul piano sostanziale, però, esse hanno invocato la medesima ratio che aveva giustificato, in altri casi, processi di autodeterminazione, dall’Eritrea al Sud Sudan, sostenendo l’impossibilità di convivere all’interno di uno Stato percepito come ostile alla loro identità linguistica, culturale e storica. La Corte costituzionale dell’Ucraina, sia pure con riferimento alla Crimea, nella decisione n. 3-рп/2014, ha ritenuto, com’era ampiamente prevedibile, incostituzionale il referendum per l’indipendenza della Crimea e della città di Sebastopoli proclamata in data 20 marzo 2014, affermando che il territorio dell’Ucraina è inviolabile e non può essere modificato se non attraverso un referendum di tutta la nazione. Tutto questo dimostra che è sul piano della legittimità più che su quello della legalità che si gioca la questione del Donbass. La forza normativa del diritto internazionale, che in materia di autodeterminazione ha assunto oramai una dimensione di «ius cogens», impone di interrogarsi sul limite della sovranità costituzionale quando essa cessi di essere ordinata al bene comune. In questo senso, la riflessione del diritto naturale classico ci mostra come la supremazia politica e giuridica perda la propria legittimità quando la volontà di governo si traduce in forme di controllo su comunità che non si riconoscono più in quell’ordine politico e che non trovano in esso possibilità di fioritura. Ciò non implica che il Donbass «appartenga» alla Federazione russa secondo un titolo giuridico riconosciuto, ma che l’Ucraina, nella misura in cui non riesce più a esercitare un potere ordinato alla giustizia su quella regione, ne ha perduto la sovranità in senso sostanziale. La sovranità, infatti, non è solo un fatto, ma una relazione di giustizia: si possiede un territorio non perché lo si controlla, ma perché si è in grado di ordinare il suo bene. La tesi, spesso evocata in termini pragmatici dal presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, secondo cui il Donbass è perduto per l’Ucraina, trova così una lettura non nel linguaggio della geopolitica, quanto in quello più profondo del diritto naturale e della filosofia politica.
*Ssml/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma
- Gli stessi che hanno reso intoccabile la militante arruolata da Bonelli e Fratoianni si stracciano le vesti perché il Senato soccorre la Santanchè sull’uso improprio di alcune trascrizioni. La Cucchi, anche lei di Avs, ha la faccia tosta di tuonare: «Lese le istituzioni».
- I fatti contestati non c’entrano con l’attività parlamentare dell’esponente di The Left.
Lo speciale contiene due articoli.
«Per gli amici tutto, per i nemici la legge». Il vecchio, cinico motto di Giovanni Giolitti nella versione adattata ai tempi grami di Tangentopoli non passa mai di moda. Anzi rimane un principio assoluto nella lotta politica da basso impero. Ieri è stato allegramente evocato dalla sinistra, impegnata a fingere di difendere «la dignità delle istituzioni». Lo ha fatto Ilaria Cucchi, infastidita dalla decisione della Giunta per le immunità del Senato di dare parere favorevole sull’esistenza di un conflitto di attribuzione a Milano nel processo al ministro Daniela Santanchè.
Ora la parola passa all’Aula che voterà il 30 settembre, ma la senatrice di Avs ha già espresso il pollice verso, accompagnandolo con motivazioni da vestale di diritto costituzionale, a metà strada fra Nilde Iotti e Tina Anselmi. «Il voto di oggi non riguarda la carriera politica della ministra Santanchè», ha tuonato Cucchi. «Ma la dignità delle istituzioni e il rispetto della giustizia. La maggioranza ha scelto di piegare la Costituzione per evitare il processo a un’esponente di governo accusata di frode ai danni dello Stato. Così si tradisce la fiducia dei cittadini e si difendono solo privilegi di parte».
La spiegazione è dadaista perché al momento dell’intervento non erano ancora trascorse 24 ore dalla festa mobile che la stessa parte politica aveva inscenato per la mancata autorizzazione a procedere della commissione Affari legali dell’Eurocamera nei confronti di Ilaria Salis, compagna di partito di lady Cucchi, salvata dal processo di Budapest per un voto determinato da accordicchi di corridoio. La dignità delle istituzioni e il rispetto della giustizia, prostrati da esecrabili attentati del governo cattivo il mercoledì, erano rimasti intatti nel loro fulgore democratico il martedì quando faceva comodo agli okkupatori di abitazioni altrui, nonché sprangatori di manifestanti ungheresi troppo di destra per i gusti dei leonka di turno.
Ilaria Cucchi va capita. Per lei e per la cultura da comitato centrale della sua parte politica, garantismo e giustizialismo, con oltre due secoli di storie e ragioni contrapposte, non esistono. Sarebbe troppo complicato argomentarne le differenze, coglierne le sfumature. Esiste invece qualcosa di più elementare: gli amici devono danzare liberi, i nemici devono marcire in galera. Venerdì di magro e sabato trippa. Così la «dignità delle istituzioni» diventa un menù à la carte e il Parlamento un ristorante nel quale si cucina qualsiasi cosa in nome dell’ideologia. Di conseguenza, secondo la più manichea delle visioni del mondo progressista, Santanchè non dovrebbe utilizzare nessuno strumento che la legge le mette a disposizione.
La ministra, accusata di falso ideologico e truffa ai danni dell’Inps, sostiene che l’acquisizione di mail, chat e registrazioni da parte dei pm milanesi sia avvenuta senza l’autorizzazione preventiva, richiesta per i parlamentari proprio dall’articolo 68 della Costituzione. «La Procura ha utilizzato la trascrizione di conversazioni registrate da un privato, nascostamente», ha sottolineato Erika Stefani, senatrice della Lega che ha illustrato la vicenda davanti alla Giunta per le immunità. In questo caso le comunicazioni digitali non dovrebbero far parte degli atti processuali, allungando i tempi dell’eventuale rinvio a giudizio. La prossima udienza, con interrogatorio di Santanchè, è fissata il 17 ottobre. Da parte dell’accusa si fa notare che le conversazioni registrate da un cittadino non dovrebbero essere considerate intercettazioni. Insomma, materia per la Corte costituzionale.
Impegnata a galleggiare nello stagno delle contraddizioni, la Cucchi non accetta ulteriori distinguo e calca la mano: «Ecco un’altra pagina nera per la nostra democrazia. La destra si presenta come paladina degli italiani, ma ha scelto di proteggere sé stessa e non il Paese. Noi diciamo no, perché crediamo che onestà e credibilità vengano prima di qualsiasi poltrona». Anche qui, in nome degli alti principi giuridici, siamo al balletto delle convenienze. Il condannato Mimmo Lucano (Avs) non avrebbe creato alcun problema alla «dignità delle istituzioni» se candidato ed eletto in Calabria. Il gatto con gli stivali Aboubakar Soumahoro (ex Avs) rimane un genio dell’agricoltura bio. Invece per gli stessi irreprensibili custodi della Carta, Matteo Salvini meritava i ceppi per aver contrastato l’immigrazione clandestina. E Giuseppe Conte? Un bandito quando era a Palazzo Chigi con la Lega, un fulgido esempio di correttezza istituzionale da quando passeggia dentro il recinto del campo largo.
È il Cucchi style, quello che fece cacciare Silvio Berlusconi dal Senato (il pianeta rosso votò in blocco, Matteo Renzi si esibì nel triste «game over») e impedisce il ripristino dell’immunità parlamentare. L’equivoco perseguimento del tornaconto immediato è un male della sinistra dai tempi di Mani pulite, quando si convinse che i pm erano suoi grandi elettori e cominciò ad accarezzarne il pelo per garantirsi un viatico politico per via giudiziaria. Da allora tifare sguaiatamente per le manette altrui è diventato il suo sport preferito. Quanto alle proprie, chi le evoca è un fascista. Un atteggiamento meschino in capo al quale vale un altro vecchio e cinico motto: accarezzare il coccodrillo nella speranza di essere mangiati per ultimi.
Negare il processo alla deputata significa tradire l’ordinamento Ue
Il caso di Ilaria Salis, eletta al Parlamento europeo nel giugno 2024 nelle liste di Alleanza verdi e sinistra e iscritta al gruppo The Left, rappresenta un banco di prova cruciale per la comprensione dell’immunità parlamentare nell’ordinamento dell’Unione europea. La deputata, com’è noto, è sottoposta a procedimento penale in Ungheria per fatti risalenti al 2023, antecedenti alla sua elezione e privi di connessione con l’attività parlamentare. Alcuni giorni fa la Commissione per gli Affari giuridici (Juri) ha espresso parere contrario (non vincolante) alla revoca dell’immunità, con una maggioranza risicata (13 voti contro 12). Tale decisione, tuttavia, non è definitiva: la competenza spetta al plenum, che potrà deliberare in senso opposto nella prossima sessione. La disciplina applicabile è quella dell’articolo 9 del Protocollo n. 7 sullo Statuto dei deputati del Parlamento europeo, che estende loro le immunità riconosciute ai parlamentari nazionali. Questa prerogativa, però, non è concepita come privilegio personale, bensì come garanzia funzionale dell’indipendenza del Parlamento rispetto a indebite pressioni giudiziarie o politiche. La ratio è chiara: proteggere la funzione, non la persona in quanto tale.L’obiezione secondo la quale la revoca dell’immunità esporrebbe Ilaria Salis al rischio di strumentalizzazione politica da parte della giurisdizione ungherese, con conseguente compromissione della sua libertà parlamentare, non risulta così pregnante. L’argomento, infatti, appare eccessivamente dilatato. Se fosse accolto in via generale, allora qualunque procedimento penale contro un parlamentare dovrebbe essere sospeso per il solo timore di un uso politico della giurisdizione, con il risultato di trasformare l’immunità in uno scudo assoluto e permanente. In tal modo, l’istituto perderebbe la sua natura funzionale e degenererebbe in privilegio, negando il principio dell’eguaglianza di tutti dinanzi alla legge.Nell’ordinamento dell’Unione europea, la Carta dei diritti fondamentali, inserita nel Trattato di Lisbona del 2007, assicura il diritto a un equo processo (articolo 47), con giudice indipendente e imparziale, ragionevole durata e diritto a un ricorso effettivo; la presunzione di innocenza e i diritti della difesa (articolo 48) sono poi rafforzati dalla Direttiva (Ue) 2016/343, che stabilisce standard minimi uniformi proprio in materia di presunzione di innocenza e diritto a presenziare al processo. A questo si aggiunga che, anche livello convenzionale, l’articolo 6 della Cedu (Convenzione europea dei diritti umani del 1950) ribadisce il diritto a un processo equo, pubblico e contraddittorio, con adeguate garanzie difensive. Tutti aspetti i quali si aggiungono agli strumenti di tutela interni all’ordinamento ungherese. In tale prospettiva, la situazione di Salis appare davvero paradigmatica. Poiché i fatti contestati sono anteriori all’elezione e del tutto estranei alla funzione parlamentare, non sussiste alcun nesso funzionale che giustifichi il mantenimento dell’immunità. Revocarla non significherebbe comprimere in alcun modo la libertà parlamentare, che riguarda il libero esercizio di parola, voto e deliberazione all’interno dell’assemblea, ma semplicemente consentire che la persona risponda, con tutte le garanzie, delle accuse mosse a suo carico. Al contrario, mantenere l’immunità in simili circostanze equivarrebbe a rovesciarne il fondamento, trasformando una garanzia dell’istituzione in un privilegio individuale contrario al principio di legalità.Il Parlamento europeo, chiamato a pronunciarsi in seduta plenaria ad ottobre, dovrà distinguere con rigore tra immunità e impunità. La prima tutela la funzione, la seconda la nega. Solo se la revoca verrà deliberata, si potrà dire che l’Unione ha mantenuto fede alla propria vocazione giuridica: essere ordinamento di libertà e responsabilità, in cui nessun mandato rappresentativo cancella il vincolo della legge comune e in cui il rispetto della funzione parlamentare non si traduce in immunità personale illimitata, restando strumento mirato a preservare la dignità e l’indipendenza dell’istituzione.
*Ssml/Istituto di grado universitario «san Domenico» di Roma
La legge sul suicidio medicalmente assistito approvata dalla Regione Sardegna rappresenta un passaggio delicato del nostro ordinamento. Essa si ispira al modello già sperimentato dalla Toscana con la legge regionale 16/2025, impugnata dal governo e in attesa di scrutinio da parte della Corte costituzionale, e ne ricalca i tratti essenziali: l’istituzione di commissioni multidisciplinari permanenti incaricate di esaminare le richieste dei pazienti, il parere obbligatorio dei comitati etici territoriali, la gratuità della procedura garantita dal servizio sanitario regionale e la previsione di modalità concrete volte a rendere effettivo l’accesso al fine vita. Una disciplina che, pur dichiarandosi in attuazione delle pronunce costituzionali in materia, in particolare della sentenza numero 242/2019, non può essere considerata legittima, poiché investe ambiti che la Costituzione riserva in via esclusiva allo Stato e che nessuna Regione, neppure a statuto speciale, può unilateralmente normare. La decisione della Corte sul caso Cappato ha aperto alla possibilità di escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio entro confini rigorosamente delimitati, successivamente precisati da ulteriori pronunce. Non si tratta, tuttavia, di un approdo auto-applicativo: l’efficacia della sentenza è subordinata a condizioni organizzative che incidono direttamente sui livelli essenziali delle prestazioni, sull’esercizio uniforme dei diritti civili e su aspetti inerenti allo stato giuridico della persona, profili che il giudice delle leggi ha sempre ricondotto alla competenza statale. Il cuore della questione sta in questo: la non punibilità richiede una disciplina nazionale -sulla quale chi scrive resta radicalmente critico, poiché significherebbe subordinare la sovranità del Parlamento a Palazzo della Consulta- che garantisca parità di trattamento su tutto il territorio, evitando che il diritto a vivere o a morire divenga funzione della geografia politica regionale. La Costituzione vigente non lascia margini di ambiguità. La Corte costituzionale, a riguardo, ha costantemente ribadito che tanto l’ordinamento civile quanto i livelli essenziali delle prestazioni costituiscono competenze statali a carattere «trasversale», capaci cioè di incidere anche su ambiti che ordinariamente appartengono alle Regioni: basti ricordare la sentenza numero 262 del 2016, relativa a una legge del Friuli-Venezia Giulia sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Né può trascurarsi che la potestà legislativa primaria delle Regioni a statuto speciale non equivale a sovranità: la Sardegna, pur nel suo assetto differenziato, resta vincolata all’armonia con la Costituzione e con i principi supremi dell’ordinamento. Ne deriva che la legge regionale eccede manifestamente le attribuzioni consentite e configura una violazione del riparto costituzionale, destinata con ogni probabilità a essere impugnata dal governo. Questa vicenda, però, non si esaurisce in una disputa tecnica di competenze. Essa manifesta, in profondità, la natura anfibia della nostra Costituzione. L’anfibiosità non è mera oscillazione tra norme programmatiche e precettive, ma capacità dei valori costituzionali di essere interpretati e ri-significati secondo le spinte vitalistiche della società. Il principio personalistico, che nel 1948 si pone come cardine dell’ordinamento, si fa concetto modulare, plastico, piegato alle esigenze culturali del momento. In questo orizzonte prevale la declinazione sartreana e munieriana: la persona non come sostanza dotata di una dignità intrinseca, bensì come progetto da costruire, come soggetto che esiste solo nell’atto della scelta. L’essere umano, in questa prospettiva, non è portatore di un’essenza che preceda le sue decisioni, ma coincide interamente con il processo di auto-determinazione. È per questo che il diritto alla vita tende a sovrapporsi al diritto a disporre della vita, smarrendo quella caratteristica, affermata dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza numero 35/1997, di costituire il presupposto ineludibile di tutti gli altri diritti. Se la Carta viene interpretata attraverso questa lente, il vitalismo sociale diventa criterio di misura dei diritti. Tuttavia, un simile approccio genera l’effetto perverso di frantumare l’unità dell’ordinamento, con cittadini esposti a regimi differenziati a seconda del territorio di appartenenza. La legge sarda, al pari di quella toscana, non è quindi soltanto un atto eccedente le competenze regionali, bensì l’emblema di una deriva interpretativa della Costituzione. Se la Costituzione diventa anfibia fino a questo punto, essa smarrisce la sua funzione di garante dell’unità dei diritti fondamentali e si riduce a contenitore cangiante di pulsioni politiche contingenti.
*Ssml/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma





