
L’interpretazione disinvolta della Costituzione ne mina la funzione di garanzia.La legge sul suicidio medicalmente assistito approvata dalla Regione Sardegna rappresenta un passaggio delicato del nostro ordinamento. Essa si ispira al modello già sperimentato dalla Toscana con la legge regionale 16/2025, impugnata dal governo e in attesa di scrutinio da parte della Corte costituzionale, e ne ricalca i tratti essenziali: l’istituzione di commissioni multidisciplinari permanenti incaricate di esaminare le richieste dei pazienti, il parere obbligatorio dei comitati etici territoriali, la gratuità della procedura garantita dal servizio sanitario regionale e la previsione di modalità concrete volte a rendere effettivo l’accesso al fine vita. Una disciplina che, pur dichiarandosi in attuazione delle pronunce costituzionali in materia, in particolare della sentenza numero 242/2019, non può essere considerata legittima, poiché investe ambiti che la Costituzione riserva in via esclusiva allo Stato e che nessuna Regione, neppure a statuto speciale, può unilateralmente normare. La decisione della Corte sul caso Cappato ha aperto alla possibilità di escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio entro confini rigorosamente delimitati, successivamente precisati da ulteriori pronunce. Non si tratta, tuttavia, di un approdo auto-applicativo: l’efficacia della sentenza è subordinata a condizioni organizzative che incidono direttamente sui livelli essenziali delle prestazioni, sull’esercizio uniforme dei diritti civili e su aspetti inerenti allo stato giuridico della persona, profili che il giudice delle leggi ha sempre ricondotto alla competenza statale. Il cuore della questione sta in questo: la non punibilità richiede una disciplina nazionale -sulla quale chi scrive resta radicalmente critico, poiché significherebbe subordinare la sovranità del Parlamento a Palazzo della Consulta- che garantisca parità di trattamento su tutto il territorio, evitando che il diritto a vivere o a morire divenga funzione della geografia politica regionale. La Costituzione vigente non lascia margini di ambiguità. La Corte costituzionale, a riguardo, ha costantemente ribadito che tanto l’ordinamento civile quanto i livelli essenziali delle prestazioni costituiscono competenze statali a carattere «trasversale», capaci cioè di incidere anche su ambiti che ordinariamente appartengono alle Regioni: basti ricordare la sentenza numero 262 del 2016, relativa a una legge del Friuli-Venezia Giulia sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Né può trascurarsi che la potestà legislativa primaria delle Regioni a statuto speciale non equivale a sovranità: la Sardegna, pur nel suo assetto differenziato, resta vincolata all’armonia con la Costituzione e con i principi supremi dell’ordinamento. Ne deriva che la legge regionale eccede manifestamente le attribuzioni consentite e configura una violazione del riparto costituzionale, destinata con ogni probabilità a essere impugnata dal governo. Questa vicenda, però, non si esaurisce in una disputa tecnica di competenze. Essa manifesta, in profondità, la natura anfibia della nostra Costituzione. L’anfibiosità non è mera oscillazione tra norme programmatiche e precettive, ma capacità dei valori costituzionali di essere interpretati e ri-significati secondo le spinte vitalistiche della società. Il principio personalistico, che nel 1948 si pone come cardine dell’ordinamento, si fa concetto modulare, plastico, piegato alle esigenze culturali del momento. In questo orizzonte prevale la declinazione sartreana e munieriana: la persona non come sostanza dotata di una dignità intrinseca, bensì come progetto da costruire, come soggetto che esiste solo nell’atto della scelta. L’essere umano, in questa prospettiva, non è portatore di un’essenza che preceda le sue decisioni, ma coincide interamente con il processo di auto-determinazione. È per questo che il diritto alla vita tende a sovrapporsi al diritto a disporre della vita, smarrendo quella caratteristica, affermata dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza numero 35/1997, di costituire il presupposto ineludibile di tutti gli altri diritti. Se la Carta viene interpretata attraverso questa lente, il vitalismo sociale diventa criterio di misura dei diritti. Tuttavia, un simile approccio genera l’effetto perverso di frantumare l’unità dell’ordinamento, con cittadini esposti a regimi differenziati a seconda del territorio di appartenenza. La legge sarda, al pari di quella toscana, non è quindi soltanto un atto eccedente le competenze regionali, bensì l’emblema di una deriva interpretativa della Costituzione. Se la Costituzione diventa anfibia fino a questo punto, essa smarrisce la sua funzione di garante dell’unità dei diritti fondamentali e si riduce a contenitore cangiante di pulsioni politiche contingenti.*Ssml/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma
Antonio Quirici e Diego Dolcini (iStock)
Il presidente del consorzio Cuoio di Toscana Antonio Quirici,: «La tradizione non è qualcosa di immobile: noi la sposiamo con l’innovazione».
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Il 20 settembre 1905 fu proiettato in pubblico a Roma il film di Filoteo Alberini, pioniere del cinema, davanti a un'immensa folla. Con i suoi 250 metri di pellicola per 10 minuti di girato era da record. Oggi solo 4 minuti sono sopravvissuti.
Arrivò prima dei fratelli Lumière il pioniere del cinema Filoteo Alberini, quando nel 1894 cercò di brevettare il kinetografo ispirato da Edison ed inventò una macchina per le riprese su pellicola. Ma la burocrazia italiana ci mise un anno per rilasciare il brevetto, mentre i fratelli francesi presentavano l’anno successivo il loro cortometraggio «L’uscita dalle officine Lumière». Al di là del mancato primato, il regista e produttore italiano nato ad Orte nel 1865 poté fregiarsi di un altro non meno illustre successo: la prima proiezione della storia in una pubblica piazza di un’opera cinematografica, avvenuta a Roma in occasione dell’anniversario della presa di Roma. Era il 20 settembre 1905, trentacinque anni dopo i fatti che cambiarono la storia italiana, quando nell’area antistante Porta Pia fu allestito un grande schermo per la proiezione di quello che si può considerare il primo docufilm in assoluto. L’evento, pubblicizzato con la diffusione di un gran numero di volantini, fu atteso secondo diverse fonti da circa 100.000 spettatori.
Filoteo Alberini aveva fondato poco prima la casa di produzione «Alberini & Santoni», in uno stabile di via Appia Nuova attrezzato con teatri di posa e sale per il montaggio e lo sviluppo delle pellicole. La «Presa di Roma» era un film della durata di una decina di minuti per una lunghezza totale di 250 metri di pellicola, della quale ne sono stati conservati 75, mentre i rimanenti sono andati perduti. Ciò che oggi è visibile, grazie al restauro degli specialisti del Centro Sperimentale di Cinematografia, sono circa 4 minuti di una storia divisa in «quadri», che sintetizzano la cronaca di quel giorno fatale per la storia dell’Italia postunitaria. La sequenza parte con l’arrivo a Ponte Milvio del generale Carchidio di Malavolta, intenzionato a chiedere al generale Kanzler la resa senza spargimento di sangue. Il secondo quadro è girato in un interno, probabilmente nei teatri di posa della casa di Alberici e mostra in un piano sequenza l’incontro tra il messo italiano e il comandante delle forze pontificie generale Hermann Kanzler, che rifiuta la resa agli italiani. I quadri successivi sono andati perduti e il girato riprende con i Bersaglieri che passano attraverso la breccia nelle mura di Porta Pia, per passare quindi all’inquadratura di una bandiera bianca che sventola sopra le mura vaticane. L’ultimo quadro non è animato ed è colorato artificialmente (anche se negli anni alcuni studiosi hanno affermato che in origine lo fosse). Nominata «Apoteosi», l’ultima sequenza è un concentrato di allegorie, al centro della quale sta l’Italia turrita affiancata dalle figure della mitopoietica risorgimentale: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini. Sopra la figura dell’Italia brilla una stella che irradia la scena. Questo dettaglio è stato interpretato come un simbolo della Massoneria, della quale Alberici faceva parte, ed ha consolidato l’idea della forte impronta anticlericale del film. Le scene sono state girate sia in esterna che in studio e le scenografie realizzate da Augusto Cicognani, che si basò sulle foto dell’epoca scattate da Ludovico Tumminello nel giorno della presa di Roma. Gli attori principali del film sono Ubaldo Maria del Colle e Carlo Rosaspina. La pellicola era conosciuta all’epoca anche con il titolo di «La Breccia di Porta Pia» e «Bandiera Bianca».
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Le motivazioni della Cassazione: «C’è un disegno pluralistico dei modelli familiari, a seguito dell’evoluzione dei costumi».