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Dalla perfida Albione al prof di Parma. Elogio Unesco, c’è chi mastica amaro
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Il riconoscimento della nostra cucina Patrimonio dell’umanità ha scatenato i detrattori: c’è il giornalista inglese che la bolla come «bugia» o l’accademico tricolore che sentenzia che il grana sia nato in America.

Ci piace immaginare che lassù, nell’Eden dei sapienti, un profeta e un custode delle tradizioni culinarie e gastronomiche italiane, Pellegrino Artusi e Orio Vergani, seduti a una tavola apparecchiata con tovaglie di Fiandra (in quel paradiso, a differenza di certi ristoranti italiani stellati e no, le tovaglie si usano ancora), abbiano festeggiato il riconoscimento dell’Unesco alla cucina italiana elevata a Patrimonio immateriale dell’umanità. Un Patrimonio che entrambi hanno salvaguardato portando alla sua costruzione immateriali, ma solidi mattoni del sapere, della cultura e dell’amore per il cibo. Ci piace anche immaginare che allo stesso tavolo, a festeggiare, si siano seduti anche due santi: San Francesco Caracciolo, patrono dei cuochi e della cucina italiana, e San Pasquale Baylon, protettore dei pasticcieri che lo considerano l’inventore dello zabaione. Sicuramente i due santi con l’aureola fatta con un’invitante crosticina dorata il primo, con la panna montata il secondo, una spintarella nel momento della decisione a New Delhi, lo scorso 10 dicembre, l’hanno data.

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La zuppa non è pan bagnato ma una vera arte
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Fu uno dei primi piatti elaborati dai cavernicoli. A Sparta la facevano con sangue di porco e vino. Beethoven ne era ghiotto, Francesco I la scoprì dopo la sconfitta nella battaglia di Pavia e la portò in Francia. Cézanne, Picasso e Warhol la resero immortale nelle loro opere.

È possibile che tra il movimento finale della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, l’Inno alla gioia e una zuppa calda, assaporata con somma soddisfazione in una di questa fredde serate invernali, ci sia qualcosa in comune? A costo di passare per sulfurei sacrileghi, diciamo che sì, qualcosa c’è. Entrambi, inno e zuppa, generano una profonda emozione. L’uno e l’altra vanno diritti al cuore. L’inno lo riempie di gioia transitando per gli orecchi, la zuppa lo conforta passando per il palato. Cambiano i sensi interessati, ma il risultato non cambia: in entrambi i casi è assicurata una sincera e profonda emozione.

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«Oggi c’è la dittatura del sapore che va a completare quella del sapere»
Diego Fusaro (Imagoeconomica)
Il filosofo Diego Fusaro: «Il cibo nutre la pancia ma anche la testa. È in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità culinaria».

La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».

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