È possibile che tra il movimento finale della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, l’Inno alla gioia e una zuppa calda, assaporata con somma soddisfazione in una di questa fredde serate invernali, ci sia qualcosa in comune? A costo di passare per sulfurei sacrileghi, diciamo che sì, qualcosa c’è. Entrambi, inno e zuppa, generano una profonda emozione. L’uno e l’altra vanno diritti al cuore. L’inno lo riempie di gioia transitando per gli orecchi, la zuppa lo conforta passando per il palato. Cambiano i sensi interessati, ma il risultato non cambia: in entrambi i casi è assicurata una sincera e profonda emozione.
Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».
Ma davvero i bucatini all’amatriciana o il baccalà alla vicentina ci difendono dal diventare tutti automi a tavola?
«Sì, Sono armi di resistenza contro il gastronomicamente corretto che la globalizzazione turbocapitalistica sta cercando di imporci come modello unico di intendere, preparare e consumare i cibi. È la dittatura del sapore che completa quella del sapere».
E così, dopo l’occhio del Grande fratello di Orwell, arriva il palato standardizzato del Big Brother che Fusaro denuncia nel suo libro: «Il gastronomicamente corretto è la variante a tavola del politicamente corretto. Vogliono imporci un unico modo di pensare e unico modo di mangiare proponendoci panini globalizzati, uguali in tutto il mondo, insetti e carne sintetica mentre loro, le classi dominanti transnazionali che si riuniscono a Davos per decidere le sorti del mondo intero, mangiano tartufi e aragoste. Vogliono neutralizzare le nostre culture, in modo che tutti mangino allo stesso modo, abolendo il passato e la tradizione». Ma non fu Platone a dire «Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?». Lo ha citato lei stesso all’inizio del suo libro. E non fu un filosofo a dividere i sensi nobili, vista e udito, da quelli meno nobili, gusto, tatto e olfatto?
«È vero che il tema del cibo, a partire da Platone, è stato molto trascurato dai filosofi. Fino a Feuerbach che dicendo “L’uomo è ciò che mangia” inaugurò la food philosophy, una disciplina che oggi va di moda. La filosofia si occupa del cibo e, quindi, ragiona sulla valenza filosofica del mangiare. È una disciplina in ascesa, interessante. L’uomo costruisce la sua identità sociale e culturale anche intorno al cibo, a ciò che mangia. L’alimentazione è filosofia. Ci si è accorti piuttosto recentemente dell’importanza culturale del cibo. I filosofi hanno maturato una maggiore sensibilità per il mangiare anche come oggetto di riflessione. Siamo passati dal nietzschiano “così parlò Zarathustra” al “così pranzò Zarathustra”. Il cibo non è, come pensava Platone, solo un elemento biologico che nutre il corpo. Ci si è accorti che è anche un elemento culturale che nutre lo spirito. Nutre la pancia, ma nutre anche la testa. È alimento per il pensiero. L’uomo è l’unico animale che prima di mangiare il cibo lo pensa. È anche l’unico animale che concettualizza il piatto elaborando le ricette che trasmette in forma scritta. Anche in questo atto si coglie l’importanza filosofica del cibo per l’essere umano».
Quindi è proprio il gusto, il senso sottovalutato dai filosofi nel corso della storia del pensiero, a diventare l’arma della resistenza, con la quale possiamo difendere la nostra identità, il nostro essere e il nostro divenire. Dobbiamo diventare i partigiani delle tradizioni a tavola. È così professor Fusaro?
«Sì. Si è rinnovato l’interesse per il cibo che mangiamo. Si sta comprendendo la sua importanza proprio quando questa sta venendo meno sotto i colpi della globalizzazione».
Quale è stata la molla che l’ha portata a scrivere La dittatura del sapore?
«Il libro è stato concepito mentre facevo uno studio sul tema della precarietà e mi sono imbattuto, tra le varie forme della precarietà, anche in quella alimentare. Sono dati di fatto che oggi vengono meno i pasti comunitari, i pranzi con tempi conviviali allungati, calmi. Ed è un fatto che si mangia sempre più da soli a tutte le ore, senza più una stabilità garantita. Potremmo dire che, oltre al posto fisso, sparisce anche il pasto fisso nella globalizzazione contemporanea. Da lì è partita la mia ricerca».
Sa cucinare il filosofo Fusaro?
«No, sono un’ottima forchetta, ma non so cucinare. Mi piace mangiare bene e bere bene».
Cosa ne pensa dell’allarme contro il vino che due scienziati, il ricercatore Silvio Garattini e la biologa Antonella Viola, hanno lanciato? «Anche un solo bicchiere fa male», ha detto Viola. Noi modesti bevitori di vino quanto dobbiamo spaventarci?
«A mio giudizio è in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità a tavola. Identità data soprattutto dall’olio, dal vino e dal pane. Oggi si stanno prendendo di mira questi tre fondamentali cibi mediterranei. Leggo di questa battaglia contro il vino che si sta combattendo in tutta Europa. Ho letto che l’Irlanda vuole obbligare a mettere sulle bottiglie etichette del tipo “Il vino nuoce gravemente alla salute”. Ma togliere il vino dalla tavola significa perdere una parte della nostra civiltà».
Fusaro, lei ha confessato che beve volentieri un bicchiere di vino. Quale preferisce?
«Per il 50% sono piemontese quindi dico Barolo uber alles. È il miglior vino al mondo, a mio giudizio».
Allora faceva bene Camillo Benso conte di Cavour a consigliare ai diplomatici che accreditava presso le corti di tutta Europa di mettere nel bagaglio qualche bottiglia di Barolo?
«Faceva molto bene. La diplomazia si fa anche a tavola. Ha ragione il ministro Francesco Lollobrigida quando dice che la cucina e il patrimonio enogastronomico italiani sono un potente strumento di diplomazia e promozione culturale. Il mio piatto preferito? Anche in questo prevale la mia metà piemontese: i tajarin con il tartufo bianco di Alba».
C’è più filosofia in un piatto di tortellini o nel fois gras?
«Se ci fosse ancora Giorgio Gaber, direbbe che i tortellini sono di sinistra e il fois gras di destra. Ma io sono per il superamento di destra e sinistra quindi c’è tanta filosofia nei tortellini quanta ce n’è nel fois gras perché hanno entrambi le loro valenze culturali».
Un suo libro è intitolato Pensare altrimenti e ho sott’occhio una sua dedica che raccomanda «Mangiare altrimenti per essere altrimenti». Non teme di diventare il filosofo dell’altrimenti?
«No. Cerco di essere il filosofo delle altre menti. Penso diversamente… altrimenti non ci sarebbe bisogno della filosofia. Complottista io? Ma quando mai. Sarebbero complottisti anche Socrate e Tommaso d’Aquino. Essere altrimenti è importante contro lo sradicamento».
Brillat Savarin ha detto: «Gli animali si nutrono, l’uomo mangia, e solo l’uomo intelligente sa mangiare». È d’accordo?
«Completamente. In tedesco ci sono due verbi diversi per il mangiare: quello degli animali è fressen, quello dell’uomo è essen. Ed è vero che gli uomini intelligenti sanno mangiare bene. Al giorno d’oggi viviamo anche un paradosso: i ricchi sono slim, magri, i poveri, che si nutrono di cibi ipercalorici, sono fat, obesi. In passato era il contrario».
Due sabati fa abbiamo lasciato la castagna in bocca a Plinio il Vecchio e al fior fiore dell’intellighenzia latina, Catone, Varrone, Virgilio, Ovidio, Apicio, Marziale, i quali hanno lodato e cantato il «pane dei poveri», titolo ampiamente meritato dal frutto che nel corso dei secoli ha sfamato intere popolazioni di contadini e montanari.
La storia della castagna merita un altro capitolo ripartendo dallo stesso Plinio che nella Naturalis Historia, dopo aver raccomandato le castagne di Taranto e di Napoli per il sapore e suggerito di abbrustolirle o di stufarle sotto la cenere come metodo di cottura, pone l’attenzione sul riccio. Perché, si chiede lo scienziato, la natura ha deciso di donare a un frutto così modesto una cupola fitta di aculei come la testa di un giovinotto pettinato alla Mascagni, con i capelli ritti e con taglio a spazzola? La risposta è ovvia: il frutto è sì modesto, ma è talmente prezioso da essere chiuso in uno scrigno con un pungente antifurto.
Per tutti i secoli della fame, dall’antichità fino alla seconda metà del Novecento, il mondo e la civiltà contadina italiani hanno considerato il castagno il maiale degli alberi. Come del porco non si buttava niente, così si faceva con l’albero del pane: si utilizzava ogni sua parte, il frutto per l’alimentazione, le foglie per la lettiera degli animali, il legno come combustibile e, grazie alla sua resistenza e solidità, come materiale per fabbricare mobili o, in edilizia, come travi e infissi. Nemmeno l’acqua con cui si cuocevano le castagne si buttava via. Le donne della montagna la usavano per lavarsi i capelli e renderli più lucidi e luminosi. Castagno, castagna, foglie e ricci venivano, e vengono ancora oggi, utilizzati nella zootecnia, nella farmacologia e in erboristeria. Le foglie e la corteccia, ricca di tannini dalle proprietà astringenti, sono utilizzate nella cosmesi per creme e unguenti, nei laboratori di erbe per decotti e tisane depurative.
Giovanni Pascoli, democratico e vicino al popolo come la castagna (il poeta romagnolo scelse di abitare a Castelnuovo di Barga in mezzo ai castagneti della Garfagnana) riassume tutto questo in versi che celebrano la generosità dell’«italico albero del pane» nella poesia Il castagno: « ...Tu, pio castagno, solo tu, l’assai/ doni al villano che non ha che il sole;/ tu solo il chicco, il buon di più, tu dai/ alla sua prole; ha da te la sua bruna vaccherella/ tiepido il letto e non desìa la stoppia;/ ha da te l’avo tremulo la bella/ fiamma che scoppia».
I Longobardi, che per 200 anni tra il VI e l’VIII secolo dettarono legge in Italia, consideravano la castagna una risorsa preziosa per la loro alimentazione. Incentivarono la coltura del castagno e riordinarono i castagneti già esistenti. Rotari, re longobardo, a metà del VII secolo emanò una legge che condannava alla multa di un soldo chi fosse stato sorpreso a tagliare un castagno. I monaci - i monasteri erano isole di cultura e colture - promossero il rimboschimento di castagneti nelle zone collinari e montane, migliorarono la loro produzione istruendo in tale pratica i contadini che seguivano il ciclo colturale dell’albero del pane. Nacquero, così, i contadini specializzati, i castagnatores.
La coltivazione del castagno conobbe un periodo d’oro dopo il Mille grazie ai monaci benedettini e a feudatari illuminati come Matilde di Canossa (1046-1115). La Magna Comitissa, la grande contessa, ben consapevole dell’importanza che avevano le castagne nella domestica economia appenninica, non solo incentivò la diffusione del castagno, ma impose ai contadini delle regole da seguire. Tra le altre, far crescere i castagni distanti una decina di metri l’uno dall’altro perché non si disturbassero a vicenda e per raccogliere meglio frutti e foglie e permettere all’erba di crescere nelle aree libere ottimizzando l’uso del suolo. Tale metodo prese il nome della Canossa: «sesto d’impianto matildico», un metodo che esiste ancora, mille anni dopo, come riferimento storico per l’agricoltura.
Fino alla Seconda guerra mondiale i castagneti sono stati rispettati e messi a profitto. Poi, con il boom, con l’esodo della popolazione dalla montagna alle città industriali, con il benessere economico, i boschi di castagne sono stati via via dimenticati. Attaccati da micidiali malattie - il mal dell’inchiostro (un fungo parassita, il Phitophthora cinnamomi), dalla vespa cinese e da un altro fungo che provoca il cancro corticale - il destino dei poveri castagni d’Italia sembrava segnato. Invece, grazie a nuove generazioni di intelligenti agricoltori, alla (parziale) ripopolazione montana, ai contributi di amministrazioni lungimiranti, l’interesse verso questa straordinaria pianta è ripreso.
Marroni e castagne sono usciti dall’alimentazione di base per diventare un frutto autunnale goloso, sia arrostito sia bollito o glassato, come ingrediente nell’alta gastronomia e nella pasticceria che ci ha regalato il sontuoso Monte Bianco, venti o più centimetri di squisitezza fatta di cacao, rum e panna montata, e il raffinato marron glacé che tutti credono nato in Francia per il nome sdrucciolevole, ma che è nato in Piemonte grazie al cuoco dei Savoia.
La castagna è importante nella simbologia. In Cina, dove i frutti del castagno sono essenziali per l’alimentazione invernale, rappresenta l’assennata previdenza. Nell’arte cristiana raffigura l’Immacolata Concezione: come la castagna nasce tra gli aculei del riccio senza esserne intaccata, la Vergine Maria nasce senza il peccato originale. Il nome latino, castanea, contiene la radice casta, pura. E che sia un albero amato dalla mamma di Gesù lo confermano le sue apparizioni sui rami del castagno. Tre santuari in Italia sono dedicati alla Madonna apparsa su castagni: a Ripalta in provincia di La Spezia (Nostra Signora della castagna), a Imbersago nel Lecchese (Madonna del riccio), a Bergamo (Beata Vergine della castagna). Molti artisti hanno raffigurato la castagna come simbolo di provvidenza. Un nome per tutti: Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, raffigura la Carità con un canestro pieno di melagrane e castagne da distribuire ai poveri.
Castagno, castagne e marroni spopolano in letteratura, da Boccaccio a Dante Alighieri, da Giovan Battista Marino a Giuseppe Parini, da Ippolito Nievo a Giosuè Carducci a Italo Calvino. Nel romanzo Lo Hobbit di John R.R. Tolkien, Bilbo Baggins, alla domanda di Thorin Scudodiquercia che gli chiede quale arma preferisca, risponde con candore: «Il tiracastagne». Triste e legata al Grande fratello, in 1984 di George Orwell, la canzone del castagno: «Sotto il castagno, chissà perché, / io ti ho venduto, e tu hai venduto me:/ sotto i suoi rami alti e forti,/ essi sono defunti e noi siam morti».
La castagna è sempre stata legata alle capigliature. Emily Dickinson si descrive con autoironia: «Ho i capelli arditi come il riccio della castagna». Uguale e disordinata l’acconciatura della donna di Pablo Neruda: «Mia brutta, sei una castagna spettinata/ mia bella, sei bella come il vento».
Nel corso della storia, la castagna è sempre stata considerata un frutto salutare per natura. Molte volte esagerandone le virtù. La medicina popolare aveva individuato molti e, alcuni, strani rimedi. Come quello di mettersi in tasca due castagne matte (ippocastano) per tenere lontana l’influenza. L’acqua bollita con scorze e foglie di castagna era considerata un toccasana contro la gotta e il mal di testa. Ci si illuse che le castagne, per analogia con la «chioma» del riccio o per la peluria della buccia, combattessero la calvizie favorendo la crescita dei capelli. Magari. Se fosse così, il qui presente cronista e personaggi famosi come Pier Luigi Bersani, Alessandro Sallusti, Luca Zingaretti, Claudio Bisio avrebbero arricchito i castagnatores di tutt’Italia. Ma ci consola una recentissima statistica che riferisce che il 40% delle donne preferisca l’uomo calvo perché più sexy.





