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La zuppa non è pan bagnato ma una vera arte
iStock
Fu uno dei primi piatti elaborati dai cavernicoli. A Sparta la facevano con sangue di porco e vino. Beethoven ne era ghiotto, Francesco I la scoprì dopo la sconfitta nella battaglia di Pavia e la portò in Francia. Cézanne, Picasso e Warhol la resero immortale nelle loro opere.

È possibile che tra il movimento finale della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, l’Inno alla gioia e una zuppa calda, assaporata con somma soddisfazione in una di questa fredde serate invernali, ci sia qualcosa in comune? A costo di passare per sulfurei sacrileghi, diciamo che sì, qualcosa c’è. Entrambi, inno e zuppa, generano una profonda emozione. L’uno e l’altra vanno diritti al cuore. L’inno lo riempie di gioia transitando per gli orecchi, la zuppa lo conforta passando per il palato. Cambiano i sensi interessati, ma il risultato non cambia: in entrambi i casi è assicurata una sincera e profonda emozione.

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«Oggi c’è la dittatura del sapore che va a completare quella del sapere»
Diego Fusaro (Imagoeconomica)
Il filosofo Diego Fusaro: «Il cibo nutre la pancia ma anche la testa. È in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità culinaria».

La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».

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Castagna da romanzo. Da pane dei poveri a «musa» di letterati
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Proviene dal «maiale degli alberi»: dalle foglie alla corteccia, non si butta niente. E i suoi frutti finiscono nelle opere d’arte.

Due sabati fa abbiamo lasciato la castagna in bocca a Plinio il Vecchio e al fior fiore dell’intellighenzia latina, Catone, Varrone, Virgilio, Ovidio, Apicio, Marziale, i quali hanno lodato e cantato il «pane dei poveri», titolo ampiamente meritato dal frutto che nel corso dei secoli ha sfamato intere popolazioni di contadini e montanari.

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