La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».
Ma davvero i bucatini all’amatriciana o il baccalà alla vicentina ci difendono dal diventare tutti automi a tavola?
«Sì, Sono armi di resistenza contro il gastronomicamente corretto che la globalizzazione turbocapitalistica sta cercando di imporci come modello unico di intendere, preparare e consumare i cibi. È la dittatura del sapore che completa quella del sapere».
E così, dopo l’occhio del Grande fratello di Orwell, arriva il palato standardizzato del Big Brother che Fusaro denuncia nel suo libro: «Il gastronomicamente corretto è la variante a tavola del politicamente corretto. Vogliono imporci un unico modo di pensare e unico modo di mangiare proponendoci panini globalizzati, uguali in tutto il mondo, insetti e carne sintetica mentre loro, le classi dominanti transnazionali che si riuniscono a Davos per decidere le sorti del mondo intero, mangiano tartufi e aragoste. Vogliono neutralizzare le nostre culture, in modo che tutti mangino allo stesso modo, abolendo il passato e la tradizione». Ma non fu Platone a dire «Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?». Lo ha citato lei stesso all’inizio del suo libro. E non fu un filosofo a dividere i sensi nobili, vista e udito, da quelli meno nobili, gusto, tatto e olfatto?
«È vero che il tema del cibo, a partire da Platone, è stato molto trascurato dai filosofi. Fino a Feuerbach che dicendo “L’uomo è ciò che mangia” inaugurò la food philosophy, una disciplina che oggi va di moda. La filosofia si occupa del cibo e, quindi, ragiona sulla valenza filosofica del mangiare. È una disciplina in ascesa, interessante. L’uomo costruisce la sua identità sociale e culturale anche intorno al cibo, a ciò che mangia. L’alimentazione è filosofia. Ci si è accorti piuttosto recentemente dell’importanza culturale del cibo. I filosofi hanno maturato una maggiore sensibilità per il mangiare anche come oggetto di riflessione. Siamo passati dal nietzschiano “così parlò Zarathustra” al “così pranzò Zarathustra”. Il cibo non è, come pensava Platone, solo un elemento biologico che nutre il corpo. Ci si è accorti che è anche un elemento culturale che nutre lo spirito. Nutre la pancia, ma nutre anche la testa. È alimento per il pensiero. L’uomo è l’unico animale che prima di mangiare il cibo lo pensa. È anche l’unico animale che concettualizza il piatto elaborando le ricette che trasmette in forma scritta. Anche in questo atto si coglie l’importanza filosofica del cibo per l’essere umano».
Quindi è proprio il gusto, il senso sottovalutato dai filosofi nel corso della storia del pensiero, a diventare l’arma della resistenza, con la quale possiamo difendere la nostra identità, il nostro essere e il nostro divenire. Dobbiamo diventare i partigiani delle tradizioni a tavola. È così professor Fusaro?
«Sì. Si è rinnovato l’interesse per il cibo che mangiamo. Si sta comprendendo la sua importanza proprio quando questa sta venendo meno sotto i colpi della globalizzazione».
Quale è stata la molla che l’ha portata a scrivere La dittatura del sapore?
«Il libro è stato concepito mentre facevo uno studio sul tema della precarietà e mi sono imbattuto, tra le varie forme della precarietà, anche in quella alimentare. Sono dati di fatto che oggi vengono meno i pasti comunitari, i pranzi con tempi conviviali allungati, calmi. Ed è un fatto che si mangia sempre più da soli a tutte le ore, senza più una stabilità garantita. Potremmo dire che, oltre al posto fisso, sparisce anche il pasto fisso nella globalizzazione contemporanea. Da lì è partita la mia ricerca».
Sa cucinare il filosofo Fusaro?
«No, sono un’ottima forchetta, ma non so cucinare. Mi piace mangiare bene e bere bene».
Cosa ne pensa dell’allarme contro il vino che due scienziati, il ricercatore Silvio Garattini e la biologa Antonella Viola, hanno lanciato? «Anche un solo bicchiere fa male», ha detto Viola. Noi modesti bevitori di vino quanto dobbiamo spaventarci?
«A mio giudizio è in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità a tavola. Identità data soprattutto dall’olio, dal vino e dal pane. Oggi si stanno prendendo di mira questi tre fondamentali cibi mediterranei. Leggo di questa battaglia contro il vino che si sta combattendo in tutta Europa. Ho letto che l’Irlanda vuole obbligare a mettere sulle bottiglie etichette del tipo “Il vino nuoce gravemente alla salute”. Ma togliere il vino dalla tavola significa perdere una parte della nostra civiltà».
Fusaro, lei ha confessato che beve volentieri un bicchiere di vino. Quale preferisce?
«Per il 50% sono piemontese quindi dico Barolo uber alles. È il miglior vino al mondo, a mio giudizio».
Allora faceva bene Camillo Benso conte di Cavour a consigliare ai diplomatici che accreditava presso le corti di tutta Europa di mettere nel bagaglio qualche bottiglia di Barolo?
«Faceva molto bene. La diplomazia si fa anche a tavola. Ha ragione il ministro Francesco Lollobrigida quando dice che la cucina e il patrimonio enogastronomico italiani sono un potente strumento di diplomazia e promozione culturale. Il mio piatto preferito? Anche in questo prevale la mia metà piemontese: i tajarin con il tartufo bianco di Alba».
C’è più filosofia in un piatto di tortellini o nel fois gras?
«Se ci fosse ancora Giorgio Gaber, direbbe che i tortellini sono di sinistra e il fois gras di destra. Ma io sono per il superamento di destra e sinistra quindi c’è tanta filosofia nei tortellini quanta ce n’è nel fois gras perché hanno entrambi le loro valenze culturali».
Un suo libro è intitolato Pensare altrimenti e ho sott’occhio una sua dedica che raccomanda «Mangiare altrimenti per essere altrimenti». Non teme di diventare il filosofo dell’altrimenti?
«No. Cerco di essere il filosofo delle altre menti. Penso diversamente… altrimenti non ci sarebbe bisogno della filosofia. Complottista io? Ma quando mai. Sarebbero complottisti anche Socrate e Tommaso d’Aquino. Essere altrimenti è importante contro lo sradicamento».
Brillat Savarin ha detto: «Gli animali si nutrono, l’uomo mangia, e solo l’uomo intelligente sa mangiare». È d’accordo?
«Completamente. In tedesco ci sono due verbi diversi per il mangiare: quello degli animali è fressen, quello dell’uomo è essen. Ed è vero che gli uomini intelligenti sanno mangiare bene. Al giorno d’oggi viviamo anche un paradosso: i ricchi sono slim, magri, i poveri, che si nutrono di cibi ipercalorici, sono fat, obesi. In passato era il contrario».
Due sabati fa abbiamo lasciato la castagna in bocca a Plinio il Vecchio e al fior fiore dell’intellighenzia latina, Catone, Varrone, Virgilio, Ovidio, Apicio, Marziale, i quali hanno lodato e cantato il «pane dei poveri», titolo ampiamente meritato dal frutto che nel corso dei secoli ha sfamato intere popolazioni di contadini e montanari.
La storia della castagna merita un altro capitolo ripartendo dallo stesso Plinio che nella Naturalis Historia, dopo aver raccomandato le castagne di Taranto e di Napoli per il sapore e suggerito di abbrustolirle o di stufarle sotto la cenere come metodo di cottura, pone l’attenzione sul riccio. Perché, si chiede lo scienziato, la natura ha deciso di donare a un frutto così modesto una cupola fitta di aculei come la testa di un giovinotto pettinato alla Mascagni, con i capelli ritti e con taglio a spazzola? La risposta è ovvia: il frutto è sì modesto, ma è talmente prezioso da essere chiuso in uno scrigno con un pungente antifurto.
Per tutti i secoli della fame, dall’antichità fino alla seconda metà del Novecento, il mondo e la civiltà contadina italiani hanno considerato il castagno il maiale degli alberi. Come del porco non si buttava niente, così si faceva con l’albero del pane: si utilizzava ogni sua parte, il frutto per l’alimentazione, le foglie per la lettiera degli animali, il legno come combustibile e, grazie alla sua resistenza e solidità, come materiale per fabbricare mobili o, in edilizia, come travi e infissi. Nemmeno l’acqua con cui si cuocevano le castagne si buttava via. Le donne della montagna la usavano per lavarsi i capelli e renderli più lucidi e luminosi. Castagno, castagna, foglie e ricci venivano, e vengono ancora oggi, utilizzati nella zootecnia, nella farmacologia e in erboristeria. Le foglie e la corteccia, ricca di tannini dalle proprietà astringenti, sono utilizzate nella cosmesi per creme e unguenti, nei laboratori di erbe per decotti e tisane depurative.
Giovanni Pascoli, democratico e vicino al popolo come la castagna (il poeta romagnolo scelse di abitare a Castelnuovo di Barga in mezzo ai castagneti della Garfagnana) riassume tutto questo in versi che celebrano la generosità dell’«italico albero del pane» nella poesia Il castagno: « ...Tu, pio castagno, solo tu, l’assai/ doni al villano che non ha che il sole;/ tu solo il chicco, il buon di più, tu dai/ alla sua prole; ha da te la sua bruna vaccherella/ tiepido il letto e non desìa la stoppia;/ ha da te l’avo tremulo la bella/ fiamma che scoppia».
I Longobardi, che per 200 anni tra il VI e l’VIII secolo dettarono legge in Italia, consideravano la castagna una risorsa preziosa per la loro alimentazione. Incentivarono la coltura del castagno e riordinarono i castagneti già esistenti. Rotari, re longobardo, a metà del VII secolo emanò una legge che condannava alla multa di un soldo chi fosse stato sorpreso a tagliare un castagno. I monaci - i monasteri erano isole di cultura e colture - promossero il rimboschimento di castagneti nelle zone collinari e montane, migliorarono la loro produzione istruendo in tale pratica i contadini che seguivano il ciclo colturale dell’albero del pane. Nacquero, così, i contadini specializzati, i castagnatores.
La coltivazione del castagno conobbe un periodo d’oro dopo il Mille grazie ai monaci benedettini e a feudatari illuminati come Matilde di Canossa (1046-1115). La Magna Comitissa, la grande contessa, ben consapevole dell’importanza che avevano le castagne nella domestica economia appenninica, non solo incentivò la diffusione del castagno, ma impose ai contadini delle regole da seguire. Tra le altre, far crescere i castagni distanti una decina di metri l’uno dall’altro perché non si disturbassero a vicenda e per raccogliere meglio frutti e foglie e permettere all’erba di crescere nelle aree libere ottimizzando l’uso del suolo. Tale metodo prese il nome della Canossa: «sesto d’impianto matildico», un metodo che esiste ancora, mille anni dopo, come riferimento storico per l’agricoltura.
Fino alla Seconda guerra mondiale i castagneti sono stati rispettati e messi a profitto. Poi, con il boom, con l’esodo della popolazione dalla montagna alle città industriali, con il benessere economico, i boschi di castagne sono stati via via dimenticati. Attaccati da micidiali malattie - il mal dell’inchiostro (un fungo parassita, il Phitophthora cinnamomi), dalla vespa cinese e da un altro fungo che provoca il cancro corticale - il destino dei poveri castagni d’Italia sembrava segnato. Invece, grazie a nuove generazioni di intelligenti agricoltori, alla (parziale) ripopolazione montana, ai contributi di amministrazioni lungimiranti, l’interesse verso questa straordinaria pianta è ripreso.
Marroni e castagne sono usciti dall’alimentazione di base per diventare un frutto autunnale goloso, sia arrostito sia bollito o glassato, come ingrediente nell’alta gastronomia e nella pasticceria che ci ha regalato il sontuoso Monte Bianco, venti o più centimetri di squisitezza fatta di cacao, rum e panna montata, e il raffinato marron glacé che tutti credono nato in Francia per il nome sdrucciolevole, ma che è nato in Piemonte grazie al cuoco dei Savoia.
La castagna è importante nella simbologia. In Cina, dove i frutti del castagno sono essenziali per l’alimentazione invernale, rappresenta l’assennata previdenza. Nell’arte cristiana raffigura l’Immacolata Concezione: come la castagna nasce tra gli aculei del riccio senza esserne intaccata, la Vergine Maria nasce senza il peccato originale. Il nome latino, castanea, contiene la radice casta, pura. E che sia un albero amato dalla mamma di Gesù lo confermano le sue apparizioni sui rami del castagno. Tre santuari in Italia sono dedicati alla Madonna apparsa su castagni: a Ripalta in provincia di La Spezia (Nostra Signora della castagna), a Imbersago nel Lecchese (Madonna del riccio), a Bergamo (Beata Vergine della castagna). Molti artisti hanno raffigurato la castagna come simbolo di provvidenza. Un nome per tutti: Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, raffigura la Carità con un canestro pieno di melagrane e castagne da distribuire ai poveri.
Castagno, castagne e marroni spopolano in letteratura, da Boccaccio a Dante Alighieri, da Giovan Battista Marino a Giuseppe Parini, da Ippolito Nievo a Giosuè Carducci a Italo Calvino. Nel romanzo Lo Hobbit di John R.R. Tolkien, Bilbo Baggins, alla domanda di Thorin Scudodiquercia che gli chiede quale arma preferisca, risponde con candore: «Il tiracastagne». Triste e legata al Grande fratello, in 1984 di George Orwell, la canzone del castagno: «Sotto il castagno, chissà perché, / io ti ho venduto, e tu hai venduto me:/ sotto i suoi rami alti e forti,/ essi sono defunti e noi siam morti».
La castagna è sempre stata legata alle capigliature. Emily Dickinson si descrive con autoironia: «Ho i capelli arditi come il riccio della castagna». Uguale e disordinata l’acconciatura della donna di Pablo Neruda: «Mia brutta, sei una castagna spettinata/ mia bella, sei bella come il vento».
Nel corso della storia, la castagna è sempre stata considerata un frutto salutare per natura. Molte volte esagerandone le virtù. La medicina popolare aveva individuato molti e, alcuni, strani rimedi. Come quello di mettersi in tasca due castagne matte (ippocastano) per tenere lontana l’influenza. L’acqua bollita con scorze e foglie di castagna era considerata un toccasana contro la gotta e il mal di testa. Ci si illuse che le castagne, per analogia con la «chioma» del riccio o per la peluria della buccia, combattessero la calvizie favorendo la crescita dei capelli. Magari. Se fosse così, il qui presente cronista e personaggi famosi come Pier Luigi Bersani, Alessandro Sallusti, Luca Zingaretti, Claudio Bisio avrebbero arricchito i castagnatores di tutt’Italia. Ma ci consola una recentissima statistica che riferisce che il 40% delle donne preferisca l’uomo calvo perché più sexy.
Voglio talmente bene a Edoardo Raspelli che gli ho già preparato il necrologio. Anzi, due. Il che significa, come sanno bene i superstiziosi, allungargli la vita. Eccoli. Sono entrambi in rima baciata. Il primo è semplice, olezza di salumeria, di nebbia padana, di cantine di stagionatura di capolavori della norcineria emiliana: «Qui giace Edoardo Raspelli/ Non fiori ma buoni culatelli». Il secondo è migliore, rispecchia di più la figura del critico gastronomico più «cattivo» d’Italia, anche se, invecchiando e perdendo peso, si è dato una calmata. Ma la cattiveria, quando è onesta e genuina, non è forse un aspetto della scomoda verità? Il secondo necrologio è ispirato all’epigramma di Machiavelli contro Pier Soderini: «La notte che morì Edoardo Raspelli/ l’alma salì dell’eliso ai cancelli./ Disse a San Pietro: “Non è ancor pronto?/ Sarà pur il Paradiso, ma io lo stronco”».
Sarebbe capacissimo di farlo l’Edolardo goloso. «Edolardo» lo era quando pesava 126 chilogrammi. Poi l’infarto, il palloncino endogastrico, il bendaggio gastrico, l’anello allo stomaco e il drastico calo ponderale lo hanno ridotto a più miti consigli a tavola. Ha contribuito moltissimo anche il giudizio del suo medico: «Signor Raspelli, lei è bravissimo, ma è una testa di cazzo». Adesso, a 96,8 chili a digiuno, gli si addicono a meraviglia i panni di «Egolargo» come lo chiamano gli amici carogne (come il sottoscritto) per l’esagerata autostima che prova verso sé stesso visto che è arrivato a parlare di sé in terza persona, come Cesare nel De bello gallico. Più che di branzini, champagne e caciucchi, Raspelli ha fame di fama. Del resto, si merita un piedistallo anche se, solo, di carta stampata. Dopotutto è il giornalista che 50 anni e otto giorni fa, ha inventato la critica gastronomica ai ristoranti.
Le cose andarono così. Cronista di nera, Raspelli si trovava nella redazione del Corriere d’informazione, quotidiano milanese del pomeriggio destinato a chiudere sei anni dopo, ma non per colpa del giovane nerista che forse, invece, gli allungò la vita. Un vicecronista lo venne a chiamare: «Raspelli, c’è un padulo: il direttore ti vuole parlare». «Cos’è un padulo?», chiese l’Edoardo curioso e ingenuo. «Non lo sai? Il padulo è un uccello che vola all’altezza del c… Corri, vai». L’Edoardo timoroso andò non sapendo che dietro alla porta a vetri di Cesare Lanza, il direttore, c’era il suo futuro in agguato con una forchetta puntata alla tempia: lascia la nera e passa alla gastronomia. Fu così che il giovane nerista dagli occhialoni spessi e dalla barba nera passò dai delitti della Milano più volte ferita e sanguinante degli anni di piombo (fu il primo giornalista ad arrivare il 17 maggio 1972 sul luogo dove le Brigate rosse avevano appena ammazzato il commissario Luigi Calabresi) alle tavole imbandite di ristoranti, trattorie, osterie e di qualunque altro locale dove ci fosse qualcosa di buono da far conoscere ai lettori gourmet che ci misero poco ad accostare la sua firma ai voti e alle faccine sorridenti (cuoco eccezionale) o nere incazzate (locale da evitare).
Lanza fu telegrafico: «Da oggi, oltre alla cronaca nera, ti occuperai di una rubrica settimanale di critica ai ristoranti. Va, mangia e scrivi. Se il ristorante è cattivo lo scrivi ugualmente, devi essere credibile. Il lettore sborsa 30 lire per il giornale e ha diritto di essere informato in modo sincero e attendibile». Lanza ancora non lo sapeva, ma aveva creato il terrore dei ristoratori, il killer che non aveva pietà dei cuochi che riteneva colpevoli di servire in pompa magna piatti modesti o fasulli. Con la licenza di uccidere gli osti cattivi in tasca, scripta manent, Raspelli iniziò il suo veni, edi et scripsi. Venni, mangiai e scrissi. «E paga», gli raccomandò Lanza, «portami la ricevuta del conto che verrai rimborsato».
La prima critica uscì il 10 ottobre del 1975. Riguardava un bel po’ di ristoranti milanesi, tutti con il loro voto in pagella. La rubrica funzionò. Il Corriere d’informazione aumentò addirittura le vendite. Dopo un periodo di rodaggio per caricare la penna col curaro, uscì quattro mesi dopo, il 13 febbraio del 1976, il primo «faccino nero» dedicato al ristorante peggiore della settimana. Seguirono altri faccini neri. Uno al celebre ristorante Chateau d’Avignon in via San Maurilio in pieno centro. «Il ristorante dove lavorava la mamma di Duilio Loi, il pugile campione del mondo dei pesi welter junior, non c’è più», racconta Raspelli che, in conseguenza al faccino nero, trovò una corona da morto sotto casa con appeso un nastro sinistro: «Al nostro caro Raspelli». «Replicai all’omaggio funebre sulla mia stessa rubrica puntualizzando: ringrazio per la corona funebre, ma ho scritto che la cucina era pessima, ma non mortale».
Ma se per quattro anni Raspelli si era occupato solo di cronaca nera, a partire dall’omicidio di Simonetta Ferrero all’Università Cattolica, uccisa con 33 coltellate, omicidio accaduto proprio nel primo giorno di lavoro, il 26 luglio del 1971, del ventiduenne nerista, e continuando con l’assassinio di Calabresi, i tragici rapimenti di Cristina Mazzotti e di Carlo Saronio, ritrovati senza vita, l’assassinio dello studente di destra Sergio Ramelli («Abitava nella mia stessa via Amadeo, praticamente di fronte a casa mia»), ai militanti di sinistra Fausto Tinelli e Lorenzo «Iaio» Iannucci, frequentatori del centro sociale Leoncavallo, al Casoretto, non poteva essere stato qualche malvivente implicato in qualche fatto di nera ad inviargli la corona? «No, fu un ristorante dove mangiai malissimo e gli affibbiai la faccina nera. Fu più seria la minaccia quando affibbiai il faccino nero a un ristorante sulla cerchia dei Navigli che apparteneva a un malavitoso. Seppi del pericolo che avevo corso da un amico sommelier, Franco Tommaso Marchi, un ex poliziotto, che mi confidò: signor Raspelli, io le ho salvato la vita. Per farla breve, “trattando” con il patron del locale che voleva spararmi, riuscì a convincerlo di non farlo. Chi era il patron? Francis Turatello, il boss della malavita».
Nella sua carriera di critico, Raspelli ha collezionato decine di querele («Tutte vinte», precisa), telefonate anonime, minacce e la corona da morto sotto casa. Inventando la critica ai ristoranti, ha dato una svolta di 360 gradi al cammino percorso dai grandi giornalisti enogastronomi del Novecento: Hans Barth (Osteria, guida spirituale delle osterie d’Italia da Verona a Capri, uscito con la prefazione di Gabriele D’Annunzio), Paolo Monelli (Il ghiottone errante; Op, il vero bevitore), Mario Soldati (Vino al vino), Giuseppe Maffioli, Luigi Veronelli (Guida all’Italia piacevole), Gianni Brera e altri che hanno raccontato l’Italia enogastronomica senza dare voti né faccine sorridenti o disgustate.
Man mano, poi, Edoardo Raspelli oltre che nel peso si è allargato nel lavoro e nella notorietà inventando («Primo al mondo», assicura) una rubrica di critica agli hotel, anche qui promuovendo o bocciando hotel da parecchie centinaia di euro per notte, scrivendo di ristoranti sul Gambero rosso, come curatore della Guida ai ristoranti dell’Espresso, conduttore televisivo su Rete 4 di Mela verde, attore in Asfalto rosso di Ettore Pasculli, lungometraggio contro le stragi del sabato sera, interpretando la parte di un enologo cantante. È stato perfino un tennista promettente, dice sempre lui, ha giocato anche contro Adriano Panatta. Ha fatto perfino il cameriere sulla riviera romagnola per raccontare l’esperienza su un settimanale.
Rimane in archivio la stroncatura più clamorosa, fatta al ristorante El Bulli di Ferran Adrià a Roses, sulla Costa Brava in Spagna. Adrià ritenuto uno dei più grandi cuochi al mondo, tre stelle Michelin, fu bocciato da Raspelli in una recensione che aveva questo titolo: «Ferran Adrià: 22 piatti di delusione». Quella volta fu lui a consegnare una corona funebre. Quando si dice la coincidenza: dopo qualche tempo, l’osannato locale chiuse i battenti.





