
Fin dai tempi di Cicerone, è uso comune celebrare pasti e pietanze con un motto. Tradizione proseguita nella Firenze dei Medici, sostenuta dal filosofo Immanuel Kant e giunta fino ai giorni nostri. Oggi, però, non se ne inventano più: «Mancano tempo e silenzio».I proverbi sono come il whisky, il rum o, se preferite giocare in casa, come la grappa e il limoncello: sono distillati. L’acquavite e gli altri fratelli d’alcol nascono dagli alambicchi, i proverbi sono la quintessenza di esperienze umane trasmessi dagli ascendenti ai discendenti per aiutarli a vivere bene. Sono pillole di saggezza, consigli sui quali riflettere, semplici nell’espressione, molto spesso in rima o in assonanza, e profondi nei contenuti.«I proverbi sono stati trasmessi di padre in figlio per generazioni come indirizzi di vita», spiega Marino Rama, scrittore veronese, autore del libro, Proverbi veneti e filosofia, con sottotitolo Consigli per vivere bene. «Se un proverbio è passato di generazione in generazione ed è rimasto nella memoria, significa che qualcuno l’ha riconosciuto valido, lo ha meditato e lo ha ritrasmesso». Attenzione però, avverte Rama, che guarda alla storia con occhiali di filosofo: «Non esiste una sapienza unica, ma ogni nonno, ogni patriarca ha trasmesso la propria esperienza. A noi sono arrivate le sintesi di sapienza e proverbi di vari ceppi famigliari». Il che significa che ci sono proverbi che affermano una cosa e altri che consigliano il contrario. Dipende da quale albero genealogico arrivano, se da una stirpe di alto lignaggio o da schiatte popolane, plebee, contadine. Patriarchi di umili origini con le mani callose e le tasche, se le avevano, vuote.Per capire meglio il concetto, sediamoci alla tavola apparecchiata. L’invito ci arriva da un proverbio che seduce i ghiottoni e li fa stare bene. Un detto che profuma di manicaretti, amatriciane, risotti, braciole e salamelle ai ferri, aragoste alla catalana, pesci pregiati, tiramisù e millefoglie. Recita: «A tavola non s’invecchia». È un proverbio dei tempi in cui Berta filava. Già Cicerone nel De senectute lodava il piacere di stare a tavola con gli amici: il tempo passato amabilmente a mangiare e chiacchierare, scrisse, scorre più lentamente. Lo sosteneva anche il gigante dei filosofi, Immanuel Kant, i cui pasti duravano a lungo e odiava mangiare da solo. L’autore della Critica della ragion pura sosteneva che mangiare da soli faceva male alla salute. Forse aveva presente il proverbio: «Chi mangia solo, crepa solo». Una volta che si trovava a tavola solitario e triste, chiese al suo domestico di scendere in strada e invitare a pranzo il primo che passava davanti alla sua casa. Quanta filosofia e quanto appetito ci sono in questa sentenza: «Chi mangia e non invita, possa strozzarsi a ogni mollica».Luigi Pulci, poeta inappetente del Quattrocento, non è d’accordo né con l’oratore latino né col filosofo tedesco. Nel Morgante allunga perfidamente l’aforisma dandogli tutt’altro senso: «Alla mensa non s’invecchia, ché poco vive chi molto sparecchia». Fa parte della serie amata dai nutrizionisti come quest’altro: «A mangiar tanto si campa poco». L’umanista non era savonaroliano in tutti i sensi. Odiava il ventre, ma era più che indulgente col basso ventre. Sul sesso scherzava e poetava con l’amico Lorenzo de’ Medici, ma nessuna indulgenza per la panza. Pulci era contro i mangiatori seriali che sedevano ai banchetti del Magnifico. Probabilmente era invidioso. È un dato di fatto, però, che un altro proverbio antico gli dà ragione: «Chi vuol viver sano e lesto, mangi poco e ceni presto».Ancora? Ancora. «Cena lunga vita breve, cena breve vita lunga», è un altro proverbio che i moderni dietologi tengono incorniciato nello studio accanto al diploma di laurea. Lo citano ai pazienti con i nervi a fior di pelle per dover rinunciare a pasta, pane, vino, patate e carne rossa. Dettate le scarne prescrizioni e i meticolosi calcoli di calorie, girano il dito nella piaga aggiungendo l’antipatico ammonimento: «Bisogna sempre alzarsi da tavola con un po’ di appetito». Non la pensano così i toscani, gran mangiatori di fiorentine, ribollite e cacciucchi alla livornese, che replicano col proverbio che piaceva al pratese Curzio Malaparte: «Quando la bocca prende e il culo rende si va ‘n tasca alle medicine e a chi le vende».In Umbria, patria di Santi, del tartufo nero di Norcia e degli strangozzi alla spoletina, i ghiotti si autoassolvono cancellando il peccato di gola con un sofisma che li protende verso il Paradiso: «Chi ben mangia, ben beve; chi ben beve, ben dorme; chi ben dorme, ben vive; chi ben vive, ben muore; chi ben muore, va in cielo. Dunque per andare in cielo bisogna mangiare bene». La filosofia napoletana che si nutre di pizze al portafoglio, maccheroni, pummarola e u’ babà, è kantiana: «Quatto cose te fanno cunzula’: ‘a femmena, l’argiamma (i soldi), lo suonno e lo magnà». E come la mettiamo con la salute? «A meglia mericina: vino e campagna e purpette e cucina».L’Italia parla come mangia. A Roma: «Ova de giornata, pagnotta sfornata, vino rosso e maccaroni, nun so’ fatti pe’ minchioni»; in Sicilia: «Carni fa carni, pani fa panza, vinu fa danza». Il meglio del meglio veneto è in questo aforisma: «Pan padovan, vin visentin, tripe trevisane e done veneziane». A proposito di pane… I proverbi sul cibo più amato non si contano. Si va dall’autoconsolatorio «Pane di villano, rustico ma sano» all’aristocratico «Pane, formaggio e pere, pasto da cavaliere», passando per il gastroerotico detto: «Pane d’un giorno, vino d’un anno, donna di venti». Soffermiamoci sul formaggio e le pere. Un proverbio che conoscono anche i bambini dell’asilo recita: «Al contadino non far sapere quanto è buono il cacio con le pere». Si dice che l’abbiano inventato i padroni dei frutteti e delle greggi per tenere i salariati agricoli nell’ignoranza degli accostamenti gastronomici. Solo che questi sapevano già tutto e allungarono l’adagio: «…ma il contadino che non è coglione lo sapeva prima del padrone».Un altro proverbio, ripetuto dalle Alpi a Capo Passero, testimonia la tesi vichiana sui corsi e ricorsi storici: «Chi legge il cartello non mangia il vitello». La carne di vitello, costosa fin dai tempi del figliol prodigo, inavvicinabile per il popolino fino alla metà del secolo scorso, grazie al boom fu alla portata di tutte le tasche, come la televisione, il frigorifero e la 500 a rate. Il cartello fu tolto e al ristorante e in macelleria era tutto un coro: «Una fettina di vitello ben cotta»; «…e per secondo una fettina con patate al forno»; «Mi dia mezzo chilo di fettina»; «Come? Non ha più fettina? Ma che macelleria è questa?». Poi il boom finì, arrivarono il carovita, la crisi del 2008, l’austerity, il Covid e il prezzo del vitello schizzò un’altra volta alle stelle. Nelle macellerie il cartellino col prezzo tanto più saliva quanto più scendevano in Borsa i titoli delle banche. E oggi? Costanzo Compri, macellaio veronese ragguaglia sui prezzi e dice che il proverbio del cartello e del vitello è tornato di moda. «Il prezzo del vitello vola: la fesa s’aggira sui 30 euro al chilo, la fesa di manzo sui 25, la fesa di tacchino 13. Ma ci sono tagli economici con i quali si preparano piatti di gran gusto. Come il cuore bovino, 8 euro al chilo, l’ossobuco, 11 euro, le costine di maiale, 8 euro, la sovracoscia di pollo o di tacchino intorno ai 6 euro». Bisogna diversificare. Del resto, lo sanno tutti: «Il miglior condimento del cibo è l’appetito».È vero che «Chi non carneggia, non festeggia»? No, replicano vegetariani e vegani, c’è l’orto: «Se vuoi vivere una vita beata, mangia sempre un piatto di insalata». E questa è la regola per un pinzimonio perfetto: «L’insalata vuole il sale da un sapiente, l’aceto da un avaro, l’olio da un prodigo, rimestata da un matto e mangiata da un affamato». E se ad uno l’insalata non piace? Ci sono sempre le zuppe. «Sette cose fa la zuppa: cava fame e attuta sete; empie il ventre e netta il dente; fa dormire; fa smaltire e la guancia arrossire».Nascono ancora proverbi? La risposta a Marino Rama: «No. Nelle generazioni passate c’era tempo e silenzio per meditare su quello che ognuno sperimentava. Adesso non ci sono più né il tempo né il silenzio».
Antonio Quirici e Diego Dolcini (iStock)
Il presidente del consorzio Cuoio di Toscana Antonio Quirici,: «La tradizione non è qualcosa di immobile: noi la sposiamo con l’innovazione».
content.jwplatform.com
Il 20 settembre 1905 fu proiettato in pubblico a Roma il film di Filoteo Alberini, pioniere del cinema, davanti a un'immensa folla. Con i suoi 250 metri di pellicola per 10 minuti di girato era da record. Oggi solo 4 minuti sono sopravvissuti.
Arrivò prima dei fratelli Lumière il pioniere del cinema Filoteo Alberini, quando nel 1894 cercò di brevettare il kinetografo ispirato da Edison ed inventò una macchina per le riprese su pellicola. Ma la burocrazia italiana ci mise un anno per rilasciare il brevetto, mentre i fratelli francesi presentavano l’anno successivo il loro cortometraggio «L’uscita dalle officine Lumière». Al di là del mancato primato, il regista e produttore italiano nato ad Orte nel 1865 poté fregiarsi di un altro non meno illustre successo: la prima proiezione della storia in una pubblica piazza di un’opera cinematografica, avvenuta a Roma in occasione dell’anniversario della presa di Roma. Era il 20 settembre 1905, trentacinque anni dopo i fatti che cambiarono la storia italiana, quando nell’area antistante Porta Pia fu allestito un grande schermo per la proiezione di quello che si può considerare il primo docufilm in assoluto. L’evento, pubblicizzato con la diffusione di un gran numero di volantini, fu atteso secondo diverse fonti da circa 100.000 spettatori.
Filoteo Alberini aveva fondato poco prima la casa di produzione «Alberini & Santoni», in uno stabile di via Appia Nuova attrezzato con teatri di posa e sale per il montaggio e lo sviluppo delle pellicole. La «Presa di Roma» era un film della durata di una decina di minuti per una lunghezza totale di 250 metri di pellicola, della quale ne sono stati conservati 75, mentre i rimanenti sono andati perduti. Ciò che oggi è visibile, grazie al restauro degli specialisti del Centro Sperimentale di Cinematografia, sono circa 4 minuti di una storia divisa in «quadri», che sintetizzano la cronaca di quel giorno fatale per la storia dell’Italia postunitaria. La sequenza parte con l’arrivo a Ponte Milvio del generale Carchidio di Malavolta, intenzionato a chiedere al generale Kanzler la resa senza spargimento di sangue. Il secondo quadro è girato in un interno, probabilmente nei teatri di posa della casa di Alberici e mostra in un piano sequenza l’incontro tra il messo italiano e il comandante delle forze pontificie generale Hermann Kanzler, che rifiuta la resa agli italiani. I quadri successivi sono andati perduti e il girato riprende con i Bersaglieri che passano attraverso la breccia nelle mura di Porta Pia, per passare quindi all’inquadratura di una bandiera bianca che sventola sopra le mura vaticane. L’ultimo quadro non è animato ed è colorato artificialmente (anche se negli anni alcuni studiosi hanno affermato che in origine lo fosse). Nominata «Apoteosi», l’ultima sequenza è un concentrato di allegorie, al centro della quale sta l’Italia turrita affiancata dalle figure della mitopoietica risorgimentale: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini. Sopra la figura dell’Italia brilla una stella che irradia la scena. Questo dettaglio è stato interpretato come un simbolo della Massoneria, della quale Alberici faceva parte, ed ha consolidato l’idea della forte impronta anticlericale del film. Le scene sono state girate sia in esterna che in studio e le scenografie realizzate da Augusto Cicognani, che si basò sulle foto dell’epoca scattate da Ludovico Tumminello nel giorno della presa di Roma. Gli attori principali del film sono Ubaldo Maria del Colle e Carlo Rosaspina. La pellicola era conosciuta all’epoca anche con il titolo di «La Breccia di Porta Pia» e «Bandiera Bianca».
Continua a leggereRiduci
iStock
Le motivazioni della Cassazione: «C’è un disegno pluralistico dei modelli familiari, a seguito dell’evoluzione dei costumi».