2021-10-17
«Sempre più genitori ritirano i figli da scuola e decidono di fare i prof»
La fondatrice di «Edupar» Erika Di Martino: «La diffusione della dad ha spinto a cercare un percorso alternativo al babysitting telematico».Secondo gli ultimi dati forniti alla fine di settembre da Anief (Associazione nazionale insegnanti e formatori), sarebbero già un migliaio le classi costrette in didattica a distanza a un mese dall'apertura delle scuole. Un numero che impensierisce non poco le famiglie italiane, reduci da un anno di via crucis telematica, divise tra smart working e istruzione online dei figli. Ne sa qualcosa - anzi, di più - Erika Di Martino, 41 anni, consulente e fondatrice di Edupar.it, community numero uno in Italia per chi ricerca un sistema educativo, accademico ed emozionale, diverso da quello della scuola ordinaria. Spesso tradotto erroneamente come “scuola parentale", l'homeschooling è una realtà in crescita nel nostro Paese, specie nel Nord Italia, e consiste nella presa in carico da parte dei genitori dell'istruzione dei bambini. «Bisogna distinguere molto bene tra le due cose», spiega l'ex insegnante statale, madre di cinque figli tra i 6 e i 16 anni che non hanno mai varcato la soglia di una classe. «Chi segue la didattica parentale fa scuola a tutti gli effetti, con una struttura, un'organizzazione che si serve anche di professori, locali a norma e un orario stabilito. Purtroppo c'è ancora grande confusione. Lo stesso Miur mette tutto nello stesso calderone».In che acque naviga la scuola italiana?«La mia impressione è che si trovi in un momento talmente caotico che potrebbe offrire delle opportunità per ricostruire».Su quali basi?«Bisognerebbe personalizzare il percorso di studi seguendo le indicazioni nazionali per il curriculum. C'è un documento bellissimo scritto nel 2012 che parla della centralità dell'individuo, non è mai stesso messo in pratica a causa della struttura scolastica: classi pollaio, ambienti ristretti, burocrazia infinita che grava sulle spalle dei docenti».Non rischia di essere un miraggio, visti i numeri?«Sono tra quelli che credono possibile smuovere le montagne. Bisogna capire se ci sia interesse a cambiare. Io credo che manchi la volontà».Guardando all'inverno è pessimista?«Mi auguro che sia impossibile fare peggio dell'anno scorso. Diverse famiglie, in questi mesi, si sono rivolte a me confessando le loro esperienze ai tempi della pandemia. Per tanti è stato un motivo di ricerca per andare oltre la scuola tradizionale. Ciò che è stato fatto con la didattica a distanza ha dell'incredibile. In negativo, ovviamente».Cosa non ha funzionato?«Si è preso un sistema polveroso, che già funzionava poco con le classi in presenza, e lo si è trasferito pari pari sullo schermo di un computer. Senza porsi alcun tipo di domanda sui risultati che ciò poteva produrre. Se all'inizio non eravamo preparati, oggi si persevera nell'errore. Non esistono più scusanti».Quali misure andavano adottate?«È assurdo pensare all'educazione di un bambino a compartimenti stagni. Si apprende con la mente, col cuore, con il corpo. Non si può togliere la socialità, la mobilità, pensando di sortire i medesimi effetti. La prima cosa era alleggerire gli orari; che senso ha mettere dei bambini delle scuole primarie davanti a uno schermo per 5-6-8 ore? Quello che è stato offerto è una sorta di babysitting telematico».Ha letto degli oltre 100.000 banchi a rotelle ritirati?«Purtroppo, quando a gestire i fondi destinati all'istruzione ci sono persone che non hanno idea di come sia la vita nelle aule, queste sono le conseguenze. Quando si entra in una scuola, sembra di fare un salto nel passato. È l'immagine di un'istituzione che ha perduto ogni centralità».Il numero delle famiglie che, come reazione, si sono avvicinate all'homeschooling è cresciuto in maniera esponenziale. Secondo il Miur, i dati sarebbero triplicati: da circa 5.000 bambini homeschooler nel 2019 a oltre 15.000. Qual è il panorama, dal suo osservatorio personale?«La delega incondizionata dell'apprendimento alle istituzioni è venuta meno. I genitori hanno aperto gli occhi. Si sono accorti, specie durante il primo lockdown, di quanto la scuola fosse disorganizzata e hanno provveduto in maniera autonoma per sé stessi e per i propri figli. Hanno capito che una didattica diversa era possibile. Tanti bambini hanno ritrovato la voglia di imparare, erano meno stressati, meno competitivi. Poi è arrivata la dad e siamo tornati al punto di partenza».In che misura è aumentata la richiesta?«Direi raddoppiata. Solitamente, arrivati a ottobre la situazione si stabilizzava. Le famiglie avevano ormai deciso se istruire i propri figli a scuola o a casa. Adesso, invece, mentre noi parliamo ci sono famiglie che stanno togliendo i figli da scuola».Questo è un bene? O intravede il rischio di una scelta indotta e, quindi, poco consapevole?«Il rischio c'è. Parte del lavoro mio e di Edupar è proprio quello di informare e sensibilizzare. La prima cosa che diciamo è che l'homeschooling non è una passeggiata. È importante avere coscienza dei propri diritti e doveri fondamentali. Sono la prima a notare una dispersione di questa conoscenza, e me ne rammarico. Spero che le famiglie che decidono di fare un passo del genere abbiano avuto una prova concreta di cosa rappresenta».Lo spauracchio del green pass esteso ai bambini ha fatto la sua parte?«Senza dubbio». Cosa ne pensa?«Sono dell'idea che tutto ciò che lede la libertà personale dei cittadini e l'autonomia dei genitori nelle scelte riguardanti la vita dei propri figli sia scorretto e oppressivo».In èra pre-Covid, quali erano le motivazioni che spingevano le famiglie verso l'homeschooling?«Anzitutto, la ricerca di una personalizzazione del sistema didattico, che può essere motivata da bilinguismo, difficoltà di apprendimento, handicap di vario genere, ragioni di tempo (tanti sono sportivi agonisti, per esempio). O la necessità di mantenere l'unione famigliare in casi particolari. A volte ci sono motivi religiosi, ma ciò accade soprattutto negli Stati Uniti. In Italia molto meno».Nel suo caso?«L'insoddisfazione della scuola tradizionale. Vedevo come non venissero corrisposte le necessità dei bambini in un ambiente di classe. Soltanto il primo ha frequentato l'asilo per tre mesi. Mi sono bastati».In casa è lei a ricoprire il ruolo dell'insegnante?«Questo è un altro aspetto di cui mi preme parlare. “Tu sei mamma, come fai a essere anche insegnante?": questa è una domanda ricorrente. È molto semplice: i bambini cercano delle guide, i nostri hanno me e mio marito. Lo siamo stati e lo siamo tutt'ora in ambiti diversi, dai primi passi allo studio della storia e della geografia, al supporto affettivo nel consolare un cuore infranto. Quello che tendiamo a realizzare è una comunità di apprendimento completa».Ma, alla fine, l'apprendimento inteso in senso classico, come avviene?«In maniera guidata per metà e per l'altra metà in autonomia, intesa come ricerca del bambino. Compito del genitore è organizzare un ambiente stimolante e motivante dove il bambino possa esplorare. Lì risiede l'autenticità dell'apprendimento che resta, non il nozionismo che rimane incollato alla fronte giusto il tempo di passare l'interrogazione».In che modo il ministero dell'Istruzione valuta i risultati?«Attraverso gli esami di licenza media e superiore, e con gli esami annuali di idoneità introdotti nel 2017 dalla riforma della Buona scuola del ministro Fedeli. Prima non erano obbligatori, venivano utilizzati solo per il reinserimento a scuola. Vorrei precisare, infatti, che il sistema è molto flessibile: ci sono ragazzi che magari fanno un anno di homeschooling e poi rientrano in classe».Incastrare gli impegni quotidiani con l'apprendimento casalingo di cinque ragazzi dev'essere un'impresa titanica.«Nel corso degli anni, io e mio marito abbiamo modificato il nostro stile di vita. Siamo partiti con un papà che aveva un lavoro dipendente e una mamma divisa tra maternità e impieghi part time. Ora siamo entrambi liberi professionisti e viviamo tra Irlanda e Italia. I cosiddetti nomadi digitali».Ogni scelta ha i suoi pro e i suoi contro.«L'homeschooler è una persona che vive la società, purtroppo la società non è sempre pronta a vivere l'homeschooler: questo è un problema. Ma l'unione famigliare, la profonda conoscenza dei propri figli e anche di sé stessi (perché l'homeschooling porta a mettere in discussione i retaggi della società) sono una conquista preziosa».E, però, la scuola non è soltanto un luogo di apprendimento. È un microcosmo che replica le dinamiche sociali in cui l'individuo agisce.«Purtroppo, tanto di ciò che accade in classe è competizione. Questo è un aspetto che l'homeschooling non ha interesse a replicare. Esistono altre forme di socializzazione, di collaborazione».Per esempio?«I miei figli hanno gruppi sportivi, gruppi di famiglie homeschooler, con ragazzi coetanei e non, coi quali si confrontano e svolgono attività ludico-didattica settimanalmente. Abbiamo la fortuna di abitare in un contesto di cascina che non è l'appartamento dove, una volta chiusa la porta, non si sa chi siano i vicini di casa».Le capita di avere dei dubbi? Il timore che, fuori da casa, i suoi figli possano sentirsi «diversi» l'ha mai sfiorata?«Non mi credo Wonder woman, il dubbio c'è ed è sano perché significa mettersi in discussione. Che i miei figli si sentano diversi per me è un bene. Mettiamola così: se per rispettare le proprie inclinazioni bisogna essere esclusi da un certo tipo di società, ben venga».Qualcuno di loro ha mai esitato?«Vuole sapere se mi hanno chiesto di tornare a scuola? Ogni anno siamo noi a domandarglielo. La risposta è sempre la stessa: “No, perché la mia libertà è importante"».
Simona Marchini (Getty Images)