Si può muovere qualsiasi critica a Maurizio Nichetti, ogni opinione è lecita, ma non si può dire che il suo lavoro manchi di fegato. In una fase in cui i cinema cadono come birilli sotto i colpi delle piattaforme digitali, il regista milanese, 77 anni a maggio, è appena uscito nelle sale senza grandi produzioni alle spalle, con l’ambizione di proporre un’idea innovativa a un pubblico sempre più educato a un gusto di massa. Tale approccio non sorprende chi ha potuto apprezzarne la stoffa sin dagli inizi, quando da una selva di cineasti verbosi e militanti Nichetti spuntò fuori come uno sberleffo baffuto nel film Ratataplan, esordio muto che divenne un successo internazionale. Amichemai, ritorno alla regia dopo 23 anni di silenzio (a proposito di mutismo), è un film nel film, un’opera culturale travestita da road movie realizzata insieme all’amica di una vita Angela Finocchiaro affiancata dalla new entry Serra Yilmaz, già musa di Ferzan Özpetek.
Come si è svegliato il giorno della prima?
«Male. Non per ansia da prestazione… è che la sera prima avevo fatto tardi per una registrazione televisiva. E io sono abituato a coricarmi presto, altrimenti mi si sballa il fuso orario».
Cosa mangia a colazione Maurizio Nichetti?
«Sono un tradizionalista: latte e biscotti. Stessa dieta di quando ero bambino».
Complimenti per lo stomaco.
«Diciamo che col tempo ho ridotto le dosi, da ragazzino divoravo latte e biscotti a qualsiasi ora».
Mi viene in mente quella vecchia pubblicità dei biscotti Granturchese: «Granturchese ce n’è uno, come lui non c’è nessuno». Se la ricorda?
«Certo che me la ricordo… l’ho fatta io».
Avrei scommesso che ci fosse il suo zampino.
«La fortuna fu trovare un bambino con quella simpatia, fa ridere ancora oggi guardandolo. Strepitoso».
Legge ancora i giornali al mattino?
«Sì. Li sfoglio velocemente, magari, ma per me è ancora un rituale. Come i biscotti».
Quasi un quarto di secolo da Honolulu baby: si è fatto desiderare.
«Sa cosa? Non mi sono accorto del tempo trascorso. Mi ero accorto che non avevo più il desiderio di fare i film, ma non ricordavo il perché. Ora mi è tornato in mente: la difficoltà non sta tanto nell’immaginarli, nel realizzarli o nel trovare i soldi (che già è un’impresa), ma nel farli uscire in un contesto dove la gente ha cambiato abitudini».
Ovvero?
«Il cinema è diventato difficile da proteggere perché non è più economicamente sostenibile. Ciò che mi fa specie è che tanti colleghi schierati a difesa delle sale sono i primi a lavorare esclusivamente per televisioni e piattaforme».
Ma a lei un progetto per le piattaforme del tipo Vita da Maurizio, parafrasando il fortunato Vita da Carlo, non interesserebbe?
«No. La vita da Maurizio me la vivo io».
A cosa dobbiamo il suo ritorno?
«Ad Angela (Finocchiaro, ndr). Verso la fine del 2018 venne a casa mia e disse: “Perché non facciamo un altro film dei nostri?”. La sua sincerità e la voglia di buttarsi in un’avventura insolita sono state trascinanti».
Com’è riavvicinarsi al mezzo cinematografico dopo vent’anni?
«È come rituffarsi nel mare: se sapevi nuotare prima, sai farlo anche dopo. Anche se le acque sono più mosse e diventa più faticoso. Per me è stato come fare un film con tutti i sogni tecnologici che avevo quando girai Ratataplan. All’epoca io ero già avanti perché avevo il monitor di controllo vicino alla macchina da presa, nella pubblicità si usava così. In realtà copiavamo tutti Jerry Lewis, era stato lui il primo».
Maurizio Nichetti in cosa è cambiato?
«Mi sono venuti i baffi bianchi (sorride, ndr). Lo spirito è sempre lo stesso, cambia la vita, la famiglia che cresce. È anche per raccontare questi temi che ho fatto Amichemai. Quando leggo “Nichetti ha fatto un altro dei suoi film surreali”, vorrei rispondere che i film più reali sono i miei. Ogni mio lavoro fotografa un’epoca. Mentre con Angela pensavamo a una storia dissi: “Partiamo da noi”. Nel 2018 avevamo una situazione con genitori anziani, badanti… era quella fase in cui una donna di 55-60 anni può essere figlia e nonna allo stesso tempo».
È vero che la Finocchiaro, pur di non guidare per finta, ha preferito sciropparsi 1.500 chilometri al volante?
«Certo. È ancora la stessa dei primi film: una pignola che vuole conoscere e discutere ogni aspetto. Tutto deve avere un senso».
Le due protagoniste formano una coppia comica affiatatissima. Com’è scoccata la scintilla con Serra Yilmaz?
«La incontrammo per la prima volta a casa sua a Firenze. Non ci conoscevamo, ma volle a tutti i costi offrirci un pranzo pantagruelico. Quando, ringraziandola, dicemmo che non avrebbe dovuto disturbarsi scoppiò in una risata fragorosa: “Ma sono gli avanzi di ieri sera”. A quel punto per me era già presa. Ci spiegò che aveva fatto una festa turca con una ventina di amiche e ognuna aveva portato un piatto tipico. La cosa sorprendente è che mentre eravamo a tavola il film passò in secondo piano, tale era l’alchimia tra di noi. Credo che un regista debba essere anche un po’ medium, capire quando gli attori stanno bene insieme».
E di cosa avete parlato?
«Per esempio, ho scoperto che la sua vera professione, prima della pensione, era quella di traduttrice simultanea ufficiale, dal turco all’italiano, per il Vaticano e il Consiglio dei ministri. Ci ha raccontato di quando si trovò su un pulmino in Turchia con Erdogan, Putin e Berlusconi. Detta così sembra una barzelletta».
Amichemai racconta una realtà in cui gli smartphone penetrano il cinema. In questo mi ha ricordato Ladri di saponette, dove a invadere il grande schermo era la pubblicità.
«Beh, se non avessi fatto Ladri di saponette non avrei potuto immaginare questo film. Partendo da quello schema (posso dirlo, dato che è mio), 37 anni dopo ho fatto una riflessione sulle interferenze che sta vivendo oggi il prodotto cinematografico».
I social sono la nuova pubblicità?
«Di per sé, i social non interrompono nulla. Il problema è il pubblico, che da quando ha in mano i telefonini, con la possibilità di fare i selfie e le storie, ha costruito un rapporto diverso con le immagini in movimento. Non va più al cinema a vedere un film fatto da altri, vuole farlo lui».
Quanto il deficit di attenzione delle nuove generazioni rappresenta un problema per chi fa il suo mestiere?
«Al di là delle definizioni scientifiche, se una volta la colpa della crisi del cinema era rintracciabile nella pubblicità che interrompeva un’emozione, oggi l’emozione non si ha più nemmeno il tempo di ascoltarla, perché abbiamo attenzione solo per ciò che dura 30 secondi».
L’ultima volta che ci eravamo visti, prima del Covid, era piuttosto pessimista sul futuro del cinema. La sensazione è che non abbia cambiato idea.
«Il mio non è pessimismo, è buon senso. Dopo un secolo, il cinema sta attraversando la stessa crisi vissuta in precedenza dal teatro o dal melodramma, che erano forme d’arte nate per il popolo. Quando Rossini scrisse Il barbiere di Siviglia, alla prima c’erano i contadini; oggi l’opera lirica è uno spettacolo d’élite. Il Covid ha accelerato il processo: senza il virus sarebbe accaduto tutto nello stesso modo, ma più lentamente».
Come ha vissuto la pandemia?
«Con rassegnazione. Era tutto talmente surreale che non ricordo nemmeno di avere avuto paura».
Al cinema italiano oggi mancano più i soldi o le idee?
«I soldi possono anche mancare, ma un regista che crede che il suo film sia venuto male per colpa del budget ridotto mente a sé stesso. È difficile fare un brutto film con una bella idea».
Non trova che ci propinino sempre le stesse facce?
«Provi a vederla da un’altra prospettiva: perché sono sempre le stesse? Perché il mito dell’attore non è più così diffuso. Io me ne accorgo insegnando: i giovani si dedicano ad altro, fanno i content creator. È come dire che oggi un ragazzo nasce con la voglia di fare il giornalista».
Touché. Ma lei al cinema ci va?
«In questo periodo, le confesso che se ho una mezza giornata libera non vado al cinema. Da quando ho cominciato il film sono stato sempre impegnato… per quello, in questi 25 anni, ho cercato di divertirmi (ride, ndr)».
A proposito di impegni… le hanno mai proposto di fare del cinema «impegnato»?
«Il cinema impegnato non te lo propone nessuno, sono i registi che lo fanno per poter dire “sono un autore”. Non ho mai pensato che fosse utile fare un film politico perché il film politico lo fai solo per chi la pensa già come te. Da spettatore, non mi interessa andare a vedere l’esibizione di un punto di vista».
Nel finale di Amichemai, lei si fa largo sgomitando tra i fotografi perché non è stato invitato sul red carpet. Il fascino carismatico del regista è un ricordo del passato?
«Oggi i registi sono sempre più dei tecnici al servizio di un progetto. Quando andavo a vedere un film di Truffaut, o di Godard, mi piaceva pensare che stessi andando a vedere un’opera con dentro un’anima. E quest’anima era rappresentata da chi firmava la regia, o la sceneggiatura. Però Zavattini non avrebbe mai fatto Miracolo a Milano senza De Sica, e viceversa probabilmente. Insomma, ci volevano due poeti».
Pochi sanno che, prima di essere regista, lei è architetto.
«Sì, l’architettura era una grande passione. Progettare una casa, un appartamento, è un po’ come fare un film. Hitchcock, che aveva i miei stessi studi, insegna che l’architetto ha una mentalità creativa, analitica e progettuale che si adatta molto al cinema».
Cosa la fece virare verso la macchina da presa?
«Semplice: i soldi li guadagnai con la pubblicità e non con l’architettura. L’unico progetto che feci non me lo pagarono. Lei al posto mio cosa avrebbe fatto?».
Toni Occhiello è il presidente di Aivs, l’Associazione italiana vittime delle sette, fondata a Potenza nel 2016. Settantadue anni di cui 30 passati all’interno di una tra le sette più diffuse al mondo. «Vi entrai quando lavoravo a Los Angeles, dopo aver conosciuto sul set di un film di Spielberg una ragazza che sarebbe diventata la mia fidanzata», racconta lo sceneggiatore e regista pugliese, dal 2010 cittadino americano per merito in quanto «alien of extraordinary ability» (straniero di straordinaria abilità).
Che ricordo ha di quei 30 anni?
«Di una grande illusione. La prima volta che la mia ragazza mi portò a uno di questi meeting a North Hollywood, proiettavano un filmato in 16 millimetri di un guru carismatico che parlava di fronte a una folla oceanica in uno stadio. Pensai: “Ma chi sono ’sti pazzi?”».
Ebbe dei problemi quando decise di uscirne?
«A livello di carriera, soprattutto. Finché sei lì ti trovi in una bolla, sommerso da questo fenomeno che noi chiamiamo love bombing: un gruppo di sconosciuti che ti tratta come se fossi la persona migliore al mondo. Poi c’è una componente di superstizione fortissima, fin dall’inizio ti viene detto: “Noi siamo la tua famiglia, se uscirai rimarrai solo, il karma ti punirà”. Io purtroppo sono superstizioso di natura, lo ammetto, e ciò contribuì a intrappolarmi».
Ci ha rimesso molti soldi?
«Tutto sommato mi è andata bene, avrò donato 100.000 dollari».
Pensi se fosse andata male...
«Nel periodo di maggior follia, avevo autorizzato un prelievo automatico del 5 per cento dei miei guadagni».
Cosa la risvegliò da quel torpore?
«Nel gruppo che frequentavo c’era una signora, con dei figli e una situazione famigliare complicata, che continuamente veniva incoraggiata a fare donazioni. Una sera, dopo che due responsabili della setta ebbero fatto visita a casa sua (probabilmente per ulteriori pressioni psicologiche), la donna si suicidò impiccandosi alla rampa delle scale. Qualche giorno più tardi, durante una riunione, ci dissero: “Sappiamo che la signora si è impiccata, ma noi non c’entriamo nulla, era il suo karma”. Questo cinismo, questa mostruosa mancanza di umanità furono la spinta di cui avevo bisogno».
Cosa si intende esattamente per «setta»?
«Lo ha illustrato quasi scientificamente il più grande studioso di sette, Steven Hassan. Le caratteristiche principali sono la leadership autoritaria e la struttura piramidale, l’inganno dei membri (ai quali vengono inizialmente nascosti obiettivi e aspettative) e il controllo distruttivo della mente. Noi, come Aivs, distinguiamo tra organizzazioni multinazionali e locali; le prime sono vere e proprie corporation».
Esistono dei campanelli d’allarme?
«Se in un periodo buio qualcuno ti avvicina proponendoti di partecipare a una riunione (“So che hai dei problemi, perché non vieni con me a questo meeting?”) è un’imboscata: non appena ti presenti, scatta il lavaggio del cervello».
Si può dire che la setta più potente della storia italiana sia stata la massoneria?
«Onestamente non so. In California ho un amico massone, ma non mi ha mai invitato a incontri garantendomi soluzioni. So, invece, di persone che farebbero carte false per entrare».
Nel mondo, forse il caso più eclatante fu la Family di Charles Manson.
«Quella vicenda segnò la fine del fenomeno hippy e il passaggio dagli anni Sessanta del “You, me and everyone else” ai Settanta del “Me, me, me”. Con Manson si chiuse un’epoca. Dispiace che non sia servito come monito».
Lì le droghe giocarono un ruolo importante.
«Senza dubbio. Devo dire che nella mia esperienza americana non ne giravano molte. Quando con la fidanzata venimmo a Roma a visitare la branch italiana della setta, però, restammo sconvolti. Avevano raccolto la feccia della società: ex tossici, ex terroristi, ex prostitute...».
Il sesso quanto incide?
«Molto. Nelle sette locali è l’asservimento al santone in un rituale fintamente esoterico; in quelle multinazionali favorisce il formarsi di coppie e alimenta il proselitismo. La coppia pone meno problemi anche sotto l’aspetto delle offerte, poiché l’affiliato non deve rendere conto al partner delle uscite economiche. Spesso, infatti, il gruppo agisce subdolamente per spezzare le coppie “miste”».
Il pensiero comune è: «Bisogna essere stupidi per cascarci».
«Conosco gente brillante e di cultura che ci è cascata. Chiunque può cedere, se colto al momento giusto. Le sette puntano tantissimo su coloro che si trovano in quella fase, tra i 20 e i 50 anni, in cui si cerca di sviluppare il proprio potenziale umano».
Può tracciare un identikit della vittima sacrificale?
«Una persona con problemi famigliari o economici rilevanti, con una propensione all’idealismo e un pizzico di pigrizia e superstizione. Pigrizia perché affidarsi al pensiero magico è anche un modo per non farsi il culo, mi passi l’espressione».
A proposito di idealismo: secondo lei la retorica green del cambiamento climatico ha un che di settario?
«Sicuramente la realtà che circonda la ragazzina svedese Greta Thunberg ha qualcosa. Un’altra grande illusione, con la classica figura di mini santona saccente che raccoglie una massa di gente ignorante e confusa».
Il guru, invece, a quale tipo umano appartiene?
«Quello multinazionale è una specie di boss mafioso. Il guru locale è un poveraccio, un disgraziato che trova dei disgraziati più disgraziati di lui, il più delle volte per scopi meramente sessuali».
Cosa rende così difficile spezzare le catene?
«Cito un mio ex “commilitone”: “Toni, lo so che sono dei farabutti, è gente spregevole. Però negli anni mi hanno fatto recidere i legami con la famiglia, gli amici... Se esco fuori a 60 anni dove vado?”. È tutto qui».
Quando non si arriva al ricatto.
«Per fortuna non l’ho sperimentato».
Avevo letto alcune storie su Scientology...
«Se guarda il documentario di Alex Gibney, Going clear, resta agghiacciato».
Eppure è un’organizzazione che opera alla luce del sole.
«Ma sono le sette locali a nascondersi, le sette multinazionali non hanno alcun interesse a farlo. Al contrario, cercano visibilità e riconoscimento. Nascondono ciò che accade al loro interno, semmai».
Qual è la situazione in Italia, oggi?
«L’ultimo osservatorio del Viminale, risalente al 1998, inquadrava la presenza di 76 sette; oggi se ne contano oltre 500, numero che noi riteniamo sottostimato, concentrate soprattutto nel Nord Italia».
Suppongo che censirle tutte sia impossibile.
«È un continuo proliferare. Per paradosso, l’isolamento fisico della pandemia ha contribuito alla nascita di nuovi movimenti online».
L’utilizzo massivo di internet e dei social media deve avere aumentato la vostra mole di lavoro in maniera esponenziale.
«La situazione è peggiorata al punto che ci è sfuggita di mano. In tempi di grande incertezza economica, l’attrattiva di chi propone soluzioni di pensiero magico cresce sensibilmente».
Quante segnalazioni ricevete?
«Da una a tre al giorno. Parliamo di circa 4 milioni di persone coinvolte. Purtroppo, in assenza di legislazione non possiamo dare risposte soddisfacenti».
Vale a dire?
«Nel 1981 si abolì il reato di plagio: una scelta funesta. Sicuramente c’erano dei lati bui in quella legge, ma andava sostituita per non lasciare un vuoto normativo che dura da 43 anni. Nonostante le nostre segnalazioni alla Sas, la Squadra antisette della Polizia di Stato, a meno che non si tratti di minori, violenze fisiche o truffe comprovate, le forze dell’ordine hanno le mani legate».
Il fatto che qualcuno, come lei, ci lasci ingenti quantità di denaro non costituisce una truffa?
«Purtroppo no, si tratta di donazioni volontarie».
Mi perdoni... Wanna Marchi è andata a processo e si è fatta 9 anni di carcere per avere venduto del sale a persone consenzienti.
«Wanna Marchi non era un impero economico multinazionale».
È solo una questione di potere, quindi.
«Eh, certo. Ma sa che mi hanno chiamato i responsabili di una setta induista per chiedermi come potevano fare per ottenere l’8x1000. Siamo al paradosso. Ormai perfino i satanisti rivendicano il diritto a essere riconosciuti come religione».
Perché? Che ruolo gioca la religione?
«In realtà nessuno, ma serve da pomposo paludamento per legittimarsi. Specie in un Paese confessionale come l’Italia, il semplice evocare lo status di religione ha un effetto immunifico totale».
Lei è credente?
«Sono nato in una famiglia cattolica, ma non ho mai praticato. Dopo aver lasciato la setta, c’è stato un cauto riavvicinamento; mi piace entrare nelle chiese e pregare, ma non sono tipo da dogmi. Se davvero esiste l’inferno, spero di non finirci (sorride)».
In che modo opera la sua associazione?
«In tre direzioni: informando, facendo lobbying in ambito parlamentare per promuovere una legislazione che colmi la vacatio legis, e offrendo assistenza psicologica e legale a chi è già uscito dalla setta. Farlo prima sarebbe inutile. Per citare Oscar Wilde, sarebbe come giocare a scacchi con un piccione: si muoverebbe buttando all’aria tutti i pezzi sulla scacchiera per poi defecarci sopra».
Nel libro Occulto Italia (Rizzoli, 2011), scritto da Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, c’è un passaggio che recita: «La struttura verticistica di una setta è il sogno inconfessabile di ogni leader politico».
«Credo che avere un controllo simile sia il sogno di tanti politici. Con una differenza, però: un leader politico deve rendere conto del suo operato, il leader di una setta no. Quando le cose vanno bene il merito è suo, se vanno male la colpa è degli adepti».
A Roma, zona Marconi, si nasconde un piccolo paradiso per bambini. Più nello specifico, per quei bambini che si trovano in condizioni di difficoltà socioeconomiche. È l’officina di Guido Pacelli, 72 anni, ormai noto nella Capitale come Guido «L’aggiustagiocattoli». Dal 2011, Pacelli presta servizio all’interno dell’associazione Salvamamme (da oltre 15 anni impegnata ad aiutare le donne vittime di violenza o con situazioni problematiche) riparando balocchi difettosi da destinare a chi non può permettersi di acquistarli.
«Il giorno dopo essere andato in pensione stavo già in associazione», racconta l’ex capo reparto tecnico alla qualità di Alitalia. «Mia figlia è la direttrice, quindi mi ha incastrato subito (sorride). Inizialmente dovevo occuparmi dei computer e dei telefoni, però con il passare del tempo notavo che giocattoli all’apparenza buonissimi venivano spesso buttati via. Così un giorno dissi a una collaboratrice: “Cos’ha questo giocattolo? Perché lo stai buttando?”. “Non funziona”. “Dammelo qua, ci penso io”».
Ogni anno, le mani miracolose di Guido Pacelli riportano in vita circa 40.000 giocattoli che Salvamamme dona a oltre 10.000 famiglie, in occasione di compleanni e festività; alcuni di essi vengono inviati anche all’estero, per esempio in Africa.
L’ho disturbata?
«No, si figuri. Oggi sono a casa, ho gli operai che devono rifarmi i bagni. Con tutta la buona volontà, non è un lavoro che posso fare io».
Perché di solito fa tutto da sé?
«Se posso sì. Difficilmente chiamo qualcuno per riparazioni. Poi ho tre nipotini che “rompono” come tutti gli altri bimbi, quindi anche a casa qualche giocattolo da aggiustare c’è sempre. L’altro giorno mi hanno portato una specie di computer giocattolo per imparare a leggere e scrivere che volevano regalare a un cuginetto».
È un lavoro a tempo pieno il suo.
«Sì sì, tutte le mattine vado in associazione, dove ho il mio laboratorio, e fino a sera non rientro».
Quanti pezzi fa rivivere ogni giorno?
«Dipende dal difetto, ma facendo una media saranno 40-50 al giorno».
Gli ultimi sui quali ha messo le mani?
«Bambole, trenini, macchine radiocomandate…».
Quali sono i suoi attrezzi del mestiere?
«Principalmente cacciaviti, pinze, saldatori, lenti di ingrandimento… un microscopio elettronico per effettuare saldature di precisione».
Dei giocattoli che prende in carico, quanti ne riesce a recuperare?
«Direi un 80 per cento abbondante».
Che problemi presentano, generalmente?
«Nella maggior parte dei casi, si tratta di contatti ossidati a causa delle batterie lasciate a lungo all’interno del giocattolo. Quasi tutti i giochi che fanno utilizzo dell’elettronica montano pile stilo o mini stilo che, dopo un po’ di tempo, cominciano a perdere e rovinano i contatti. In alcuni casi è sufficiente levare le batterie, dare una spazzolata e del liquido per togliere la ruggine; altre volte è tutto marcio. Allora magari arriva un altro giocattolo che è spaccato ma ha i contatti buoni, e io li recupero: smonto e sostituisco. Altri difetti possono essere i fili rotti all’interno, solitamente a causa di una forte caduta, oppure un altoparlantino guasto».
Immagino che la pazienza debba essere un requisito fondamentale.
«Senza dubbio. Per smontare alcuni giocattoli c’è da diventare matti, specie quelli tutti a incastro. Il famoso Cicciobello, per esempio, è pressoché impossibile da riparare. Sa, quello che parla e che se gli levi il ciuccio piange… Il suo difetto sta quasi sempre nel ciuccio, il cui contatto è dentro la testa. Bisognerebbe aprirgliela, ma non ne vale la pena».
Ma lei tutta questa pazienza ce l’ha?
«Eh, ce la devo avé pe’ forza (ride). Per fortuna è un lavoro che mi piace, soprattutto per la finalità che c’è dietro. L’idea che il giocattolo che sto riparando diventerà il regalo di compleanno o di Natale per un bambino che, altrimenti, non riceverebbe nulla mi dà gioia».
È come se fosse il nonno di migliaia di bambini.
«Un po’ mi ci sento, sì. È così bello vedere i loro sorrisi…».
Senta, ma le sue «bestie nere» quali sono?
«Di solito, più i giochi sono piccoli e più mi fanno dannare. Se poi hanno dei chip integrati, diventano particolarmente ostici».
Certo, per la vista non dev’essere l’ideale.
«Beh, ho fatto un trapianto della cornea, veda lei…».
Davvero?
«Sì, ho ancora i punti. Però dall’altro occhio vedo bene, quindi posso lavorare senza problemi».
Su cosa preferisce lavorare?
«Elicotteri, aeroplanini, droni… rimaniamo nel campo dell’aeronautica (sorride)».
A proposito… i suoi ex colleghi di Alitalia cosa dicono?
«Mi fanno i complimenti. Qualcuno mi chiama per darmi dei giochi».
Ricorda il giocattolo prediletto della sua infanzia?
«Oddio, parliamo di preistoria (ride). Quando ero piccolo non c’erano mica tutti i giocattoli che esistono oggi, e nemmeno le possibilità economiche per comprarne in continuazione. Le spade erano il mio sogno, ma non si poteva e così con gli amichetti le sostituivamo coi manici di scopa».
Qual è la riparazione di cui va più fiero?
«Un giocattolo che ho aggiustato per un bambino in particolare. Noi siamo anche un centro antiviolenza e abbiamo ideato la “valigia di salvataggio”, non so se ha presente…».
Spieghi.
«Quando una donna che ha subito violenza scappa di casa, se ci torna si ritrova in una condizione di grande pericolo. È lì il rischio maggiore. Così, in accordo con le forze dell’ordine, prepariamo questa valigia contenente beni di prima necessità per lei e per i figli, qualora ne abbia, in modo che possa essere presa in carico dai centri antiviolenza senza che debba passare da casa».
Chiaro.
«Un giorno è venuta a prendere la valigia una donna con un figlio di circa 6 anni. Il bimbo ha visto un escavatore giocattolo, di quelli grandi su cui puoi montare sopra, con le batterie per farli camminare. È impazzito, lo voleva a tutti i costi, però era rotto. Gli ho detto: “Se ritorni domani, te lo faccio trovare pronto”. Aveva la batteria da 6 volt andata, i contatti ossidati e delle saldature da rifare. Insomma, mi ci sono dovuto mettere di buona lena, ma il giorno dopo era funzionante. Il piccolo era felicissimo. Mi è venuto da pensare che magari il papà lavorava nell’edilizia, in qualche cantiere con l’escavatore».
Da dove arrivano tutti questi giocattoli difettosi?
«Tante famiglie di Roma hanno in casa giochi che i loro figli non usano più perché sono diventati grandi, oppure si sono rotti e invece di buttarli in discarica li portano a noi. Altri ci vengono donati dai negozi: magari sono nuovi, con tanto di scatola, ma hanno qualche difetto di produzione che li rende inadatti alla vendita. Quelli, in particolare, li destiniamo ai bambini ospedalizzati; a loro non possiamo dare giocattoli usati».
Con quali strutture collaborate?
«Parecchie: dall’Umberto I al San Camillo. Agli ospedali, oltre ai giochi, doniamo anche abiti, vestitini per neonati, culle, lettini».
Delle oltre 10.000 famiglie alle quali vi rivolgete, quante sono italiane e quante straniere?
«Inizialmente erano quasi tutte straniere, gli italiani erano pochissimi. Nel corso del tempo, con la crisi, sono diventati sempre più numerosi. Se fino a pochi anni fa gli italiani rappresentavano un 30 per cento, adesso saremo arrivati al 50. A segnalarceli sono assistenti sociali e parrocchie, e quando le mamme passano a prendere cibo o vestiario, se hanno figli diamo sempre anche un giocattolino».
Mi racconta una storia che l’ha toccata in modo particolare?
«Quella di un papà che un giorno venne da me con tre carillon che non funzionavano più. È una storia un po’ triste. Si presentò chiedendomi se potevo ripararli, anche a pagamento. Quando gli spiegai che non faccio riparazioni per privati, mi spiegò che quei carillon appartenevano alla sua bambina che aveva perso da poco. Mi si strinse il cuore. Gli dissi di lasciarmeli, ché glieli avrei aggiustati tranquillamente. Poi fece un’offerta all’associazione, fu molto gentile».
Capita spesso che dei privati le chiedano riparazioni?
«Sì, soprattutto conoscenti, ma non è il genere di attività che svolgiamo come associazione: noi lavoriamo soltanto su donazioni. C’è gente qui a Ostia, dove abito, che ormai viene direttamente a casa per consegnarmi la roba da portare in associazione; per loro è più comodo».
Incontra sempre le famiglie che ricevono i giocattoli?
«Non sono io direttamente a darli. Abbiamo una puericultrice che, una volta riparati, li controlla e stabilisce l’età adatta per ogni pezzo (se proviene da un negozio è già indicata sulla confezione). È lei che li consegna alle famiglie. Però spesso mi capita di essere presente».
So che c’è anche una fase di igienizzazione.
«Certo. Appena arrivano, i giochi sono sottoposti a controllo e provati dai volontari: quelli che stanno bene vengono puliti e igienizzati con l’alcol per essere poi incartati, quelli guasti vengono portati a me. Una volta aggiustati, tornano dai volontari per la pulizia».
Esiste un filo rosso che collega il suo vecchio lavoro di tecnico aeronautico e la riparazione di giocattoli per bambini?
«Il senso di responsabilità. Dare l’approvazione al volo per un aeroplano richiede una responsabilità non indifferente, non si può rilasciare una certificazione di qualità con leggerezza. La stessa cosa vale per i giocattoli, perché finiscono nelle mani dei bambini, e i bambini devono essere sempre al sicuro».





