2025-03-10
Maurizio Nichetti: «Il cinema impegnato non m’interessa»
Maurizio Nichetti (Getty Images)
Il regista, di nuovo in sala dopo 23 anni con «Amichemai»: «Dicono che faccio film surreali, in realtà penso che i più reali siano i miei. I ragazzi non hanno più il mito dell’attore, preferiscono fare i content creator».Si può muovere qualsiasi critica a Maurizio Nichetti, ogni opinione è lecita, ma non si può dire che il suo lavoro manchi di fegato. In una fase in cui i cinema cadono come birilli sotto i colpi delle piattaforme digitali, il regista milanese, 77 anni a maggio, è appena uscito nelle sale senza grandi produzioni alle spalle, con l’ambizione di proporre un’idea innovativa a un pubblico sempre più educato a un gusto di massa. Tale approccio non sorprende chi ha potuto apprezzarne la stoffa sin dagli inizi, quando da una selva di cineasti verbosi e militanti Nichetti spuntò fuori come uno sberleffo baffuto nel film Ratataplan, esordio muto che divenne un successo internazionale. Amichemai, ritorno alla regia dopo 23 anni di silenzio (a proposito di mutismo), è un film nel film, un’opera culturale travestita da road movie realizzata insieme all’amica di una vita Angela Finocchiaro affiancata dalla new entry Serra Yilmaz, già musa di Ferzan Özpetek.Come si è svegliato il giorno della prima?«Male. Non per ansia da prestazione… è che la sera prima avevo fatto tardi per una registrazione televisiva. E io sono abituato a coricarmi presto, altrimenti mi si sballa il fuso orario».Cosa mangia a colazione Maurizio Nichetti?«Sono un tradizionalista: latte e biscotti. Stessa dieta di quando ero bambino».Complimenti per lo stomaco.«Diciamo che col tempo ho ridotto le dosi, da ragazzino divoravo latte e biscotti a qualsiasi ora».Mi viene in mente quella vecchia pubblicità dei biscotti Granturchese: «Granturchese ce n’è uno, come lui non c’è nessuno». Se la ricorda?«Certo che me la ricordo… l’ho fatta io».Avrei scommesso che ci fosse il suo zampino.«La fortuna fu trovare un bambino con quella simpatia, fa ridere ancora oggi guardandolo. Strepitoso».Legge ancora i giornali al mattino?«Sì. Li sfoglio velocemente, magari, ma per me è ancora un rituale. Come i biscotti».Quasi un quarto di secolo da Honolulu baby: si è fatto desiderare.«Sa cosa? Non mi sono accorto del tempo trascorso. Mi ero accorto che non avevo più il desiderio di fare i film, ma non ricordavo il perché. Ora mi è tornato in mente: la difficoltà non sta tanto nell’immaginarli, nel realizzarli o nel trovare i soldi (che già è un’impresa), ma nel farli uscire in un contesto dove la gente ha cambiato abitudini».Ovvero?«Il cinema è diventato difficile da proteggere perché non è più economicamente sostenibile. Ciò che mi fa specie è che tanti colleghi schierati a difesa delle sale sono i primi a lavorare esclusivamente per televisioni e piattaforme».Ma a lei un progetto per le piattaforme del tipo Vita da Maurizio, parafrasando il fortunato Vita da Carlo, non interesserebbe?«No. La vita da Maurizio me la vivo io».A cosa dobbiamo il suo ritorno?«Ad Angela (Finocchiaro, ndr). Verso la fine del 2018 venne a casa mia e disse: “Perché non facciamo un altro film dei nostri?”. La sua sincerità e la voglia di buttarsi in un’avventura insolita sono state trascinanti».Com’è riavvicinarsi al mezzo cinematografico dopo vent’anni?«È come rituffarsi nel mare: se sapevi nuotare prima, sai farlo anche dopo. Anche se le acque sono più mosse e diventa più faticoso. Per me è stato come fare un film con tutti i sogni tecnologici che avevo quando girai Ratataplan. All’epoca io ero già avanti perché avevo il monitor di controllo vicino alla macchina da presa, nella pubblicità si usava così. In realtà copiavamo tutti Jerry Lewis, era stato lui il primo».Maurizio Nichetti in cosa è cambiato?«Mi sono venuti i baffi bianchi (sorride, ndr). Lo spirito è sempre lo stesso, cambia la vita, la famiglia che cresce. È anche per raccontare questi temi che ho fatto Amichemai. Quando leggo “Nichetti ha fatto un altro dei suoi film surreali”, vorrei rispondere che i film più reali sono i miei. Ogni mio lavoro fotografa un’epoca. Mentre con Angela pensavamo a una storia dissi: “Partiamo da noi”. Nel 2018 avevamo una situazione con genitori anziani, badanti… era quella fase in cui una donna di 55-60 anni può essere figlia e nonna allo stesso tempo».È vero che la Finocchiaro, pur di non guidare per finta, ha preferito sciropparsi 1.500 chilometri al volante?«Certo. È ancora la stessa dei primi film: una pignola che vuole conoscere e discutere ogni aspetto. Tutto deve avere un senso».Le due protagoniste formano una coppia comica affiatatissima. Com’è scoccata la scintilla con Serra Yilmaz?«La incontrammo per la prima volta a casa sua a Firenze. Non ci conoscevamo, ma volle a tutti i costi offrirci un pranzo pantagruelico. Quando, ringraziandola, dicemmo che non avrebbe dovuto disturbarsi scoppiò in una risata fragorosa: “Ma sono gli avanzi di ieri sera”. A quel punto per me era già presa. Ci spiegò che aveva fatto una festa turca con una ventina di amiche e ognuna aveva portato un piatto tipico. La cosa sorprendente è che mentre eravamo a tavola il film passò in secondo piano, tale era l’alchimia tra di noi. Credo che un regista debba essere anche un po’ medium, capire quando gli attori stanno bene insieme».E di cosa avete parlato?«Per esempio, ho scoperto che la sua vera professione, prima della pensione, era quella di traduttrice simultanea ufficiale, dal turco all’italiano, per il Vaticano e il Consiglio dei ministri. Ci ha raccontato di quando si trovò su un pulmino in Turchia con Erdogan, Putin e Berlusconi. Detta così sembra una barzelletta».Amichemai racconta una realtà in cui gli smartphone penetrano il cinema. In questo mi ha ricordato Ladri di saponette, dove a invadere il grande schermo era la pubblicità.«Beh, se non avessi fatto Ladri di saponette non avrei potuto immaginare questo film. Partendo da quello schema (posso dirlo, dato che è mio), 37 anni dopo ho fatto una riflessione sulle interferenze che sta vivendo oggi il prodotto cinematografico».I social sono la nuova pubblicità?«Di per sé, i social non interrompono nulla. Il problema è il pubblico, che da quando ha in mano i telefonini, con la possibilità di fare i selfie e le storie, ha costruito un rapporto diverso con le immagini in movimento. Non va più al cinema a vedere un film fatto da altri, vuole farlo lui».Quanto il deficit di attenzione delle nuove generazioni rappresenta un problema per chi fa il suo mestiere?«Al di là delle definizioni scientifiche, se una volta la colpa della crisi del cinema era rintracciabile nella pubblicità che interrompeva un’emozione, oggi l’emozione non si ha più nemmeno il tempo di ascoltarla, perché abbiamo attenzione solo per ciò che dura 30 secondi».L’ultima volta che ci eravamo visti, prima del Covid, era piuttosto pessimista sul futuro del cinema. La sensazione è che non abbia cambiato idea.«Il mio non è pessimismo, è buon senso. Dopo un secolo, il cinema sta attraversando la stessa crisi vissuta in precedenza dal teatro o dal melodramma, che erano forme d’arte nate per il popolo. Quando Rossini scrisse Il barbiere di Siviglia, alla prima c’erano i contadini; oggi l’opera lirica è uno spettacolo d’élite. Il Covid ha accelerato il processo: senza il virus sarebbe accaduto tutto nello stesso modo, ma più lentamente».Come ha vissuto la pandemia?«Con rassegnazione. Era tutto talmente surreale che non ricordo nemmeno di avere avuto paura».Al cinema italiano oggi mancano più i soldi o le idee?«I soldi possono anche mancare, ma un regista che crede che il suo film sia venuto male per colpa del budget ridotto mente a sé stesso. È difficile fare un brutto film con una bella idea».Non trova che ci propinino sempre le stesse facce?«Provi a vederla da un’altra prospettiva: perché sono sempre le stesse? Perché il mito dell’attore non è più così diffuso. Io me ne accorgo insegnando: i giovani si dedicano ad altro, fanno i content creator. È come dire che oggi un ragazzo nasce con la voglia di fare il giornalista».Touché. Ma lei al cinema ci va?«In questo periodo, le confesso che se ho una mezza giornata libera non vado al cinema. Da quando ho cominciato il film sono stato sempre impegnato… per quello, in questi 25 anni, ho cercato di divertirmi (ride, ndr)».A proposito di impegni… le hanno mai proposto di fare del cinema «impegnato»?«Il cinema impegnato non te lo propone nessuno, sono i registi che lo fanno per poter dire “sono un autore”. Non ho mai pensato che fosse utile fare un film politico perché il film politico lo fai solo per chi la pensa già come te. Da spettatore, non mi interessa andare a vedere l’esibizione di un punto di vista».Nel finale di Amichemai, lei si fa largo sgomitando tra i fotografi perché non è stato invitato sul red carpet. Il fascino carismatico del regista è un ricordo del passato?«Oggi i registi sono sempre più dei tecnici al servizio di un progetto. Quando andavo a vedere un film di Truffaut, o di Godard, mi piaceva pensare che stessi andando a vedere un’opera con dentro un’anima. E quest’anima era rappresentata da chi firmava la regia, o la sceneggiatura. Però Zavattini non avrebbe mai fatto Miracolo a Milano senza De Sica, e viceversa probabilmente. Insomma, ci volevano due poeti».Pochi sanno che, prima di essere regista, lei è architetto.«Sì, l’architettura era una grande passione. Progettare una casa, un appartamento, è un po’ come fare un film. Hitchcock, che aveva i miei stessi studi, insegna che l’architetto ha una mentalità creativa, analitica e progettuale che si adatta molto al cinema».Cosa la fece virare verso la macchina da presa?«Semplice: i soldi li guadagnai con la pubblicità e non con l’architettura. L’unico progetto che feci non me lo pagarono. Lei al posto mio cosa avrebbe fatto?».
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)