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2018-12-05
Sei etero? Odi i gay? L’indagine per rieducare gli alunni delle medie
ANSA
Alle coppie dello stesso sesso dovrebbe essere consentito di adottare bambini? Gay e lesbiche hanno ancora bisogno di manifestare per la parità dei diritti? Come definiresti il tuo orientamento sessuale? Sono solo alcune delle domande contenute nel test messo a punto dal Dipartimento di filosofia, scienze sociali, umane e della formazione dell'università di Perugia e proposto, dopo approvazione dell'ufficio scolastico regionale dell'Umbria, a 54 istituti scolastici della Regione. L'iniziativa è stata presentata come un progetto di ricerca sul bullismo omofobico e ha lo scopo di «garantire la sicurezza e il benessere dei vostri figli».
Lo scorso 6 novembre, presso l'ateneo umbro, è stato compiuto il sorteggio delle classi in cui sarà somministrato il questionario. Si tratta di terze della scuola secondaria di primo grado (ovvero le terze medie) e quarte della scuola secondaria di secondo grado (quarte superiori), che in queste settimane sono chiamate a decidere se partecipare alla ricerca. In pratica, a bambini di 12-13 anni e ai ragazzini di 17, verranno poste domande invadenti in un età molto delicata in cui si stanno formando sia l'identità sessuale sia i convincimenti su temi sensibili che rientrano nella sfera educativa familiare, come ha riconosciuto la recente circolare del ministero dell'Istruzione sull'obbligatorietà del consenso informato.
Ma per comprendere quanto sia invasiva questa ricerca, che indaga in profondità le opinioni personali di alunni appena adolescenti, bisogna partire fin dalle prime domande che fanno un ritratto della composizione del nucleo familiare del ragazzo. Si chiede infatti di specificare la cittadinanza dei genitori. Poi si passa a una sfera delicatissima, l'appartenenza a una confessione religiosa e quale sia l'intensità del rapporto con essa (credente e praticante, credente ma non praticante, eccetera). Dopo è la volta dell'orientamento politico, che va indicato da una scala che va da «estrema destra» a «estrema sinistra», passando per il «centro».
Senza andare oltre, ce n'è già abbastanza per interrogarsi su dove vuole andare a parare un test sull'omofobia che inizia scandagliando i principi religiosi e politici di alunni minorenni. Ma è subito dopo che la ricerca entra per nel campo dell'assurdo se si considera l'età degli intervistati. La quattordicesima domanda del questionario recita testualmente: «Come definiresti il tuo orientamento sessuale?». Le risposte multiple da segnare con una croce proposte ai ragazzini delle medie sono le seguenti: «Esclusivamente eterosessuale»; «Prevalentemente eterosessuale»; «Bisessuale»; «Prevalentemente omosessuale»; «Esclusivamente omosessuale»; «Asessuale». Sì, avete letto bene, a degli alunni appena entrati nella pubertà si chiede se sono asessuali. Terminate le domande che fotografano direttamente l'identità della persona, si passa a una lunghissima serie di affermazioni: rispetto a ciascuna di esse bisogna indicare quanto si è in disaccordo, o in accordo, barrando una scala che va da 0 a 5.
Le perplessità sulle reali finalità del test e sui possibili pregiudizi che potrebbero stare alla base di esso sovvengono fin dalla prima affermazione da valutare sulla scala: «per quanto realizzato sia, un uomo non è mai veramente completo come persona se non ha l'amore di una donna»; e poi ancora «nelle calamità le donne dovrebbero essere salvate prima degli uomini», «molte donne interpretano osservazioni o atti innocui come maschilisti», «le donne dovrebbero essere coccolate e protette dagli uomini». Insomma, cosa c'entra tutto questo con il bullismo omofobico? Avere come priorità della propria vita la relazione con una donna e sacrificarsi per essa ha qualche legame con il bullismo?
Questo non è dato saperlo anche se nella pagina che spiega il test alle scuole si parla di rilevazione statistica che i ragazzi e le ragazze hanno nei confronti delle diversità «etniche», di «orientamento sessuale», degli «stereotipi di genere» e della «percezione relativa al bullismo».
Proseguendo il test si incontrano delle affermazioni che agli occhi di un adulto appaio subito provocatorie, ma che possono essere equivocate da dei ragazzini: «Ci sono delle donne che provano piacere a provocare gli uomini mostrandosi sessualmente disponibili e rifiutando poi i loro approcci», «Le femministe pretendono dagli uomini cose irragionevoli».
Si arriva quindi alla valutazione del gruppo di affermazioni sulla sfera dell'omosessualità, alcune delle quali riguardano anche il tema dell'omogenitorialità: «Alle coppie dello stesso sesso dovrebbe essere consentito adottare bambini allo stesso modo delle coppie eterosessuali», «un uomo gay può essere un buon genitore».
Infine, non poteva mancare anche un parte dedicata all'immigrazione con qualche esplicito riferimento alla politica nazionale. Le affermazioni su cui esprimere un giudizio iniziano subito con «la maggior parte dei politici si preoccupa troppo degli immigrati e non abbastanza dell'italiano medio», «gli immigrati occupano posti di lavoro che spetterebbero agli italiani». Ci sono inoltre domande dirette: «Quanto spesso ti sei sentito solidale con gli immigrati che vivono qui?».
Il questionario ha già scatenato un putiferio sul territorio umbro. Molte le proteste di cui si è fatto portavoce il senatore della Lega, Simone Pillon, che oggi presenterà un'interrogazione al ministro dell'Istruzione, Marco Bussetti. Pillon parla di alunni usati «come cavie da laboratorio per l'indottrinamento gender». Critico anche il comitato locale del Family day, che ha convogliato le proteste di alcuni genitori: «Le domande investono temi delicatissimi come l'orientamento sessuale, passando su tale aspetto implicitamente un messaggio di approvazione acritica della fluidità sessuale: per questo ribadiamo che nessuna ricerca, anche se fosse mossa dai più nobili fini, può superare il primato educativo dei genitori».
Bollini Lgbt per gli istituti allineati. Milano sposa il modello «Be.st»
Genitori state pronti perché, presto, a Milano, le scuole non saranno più tutte uguali. Ci saranno le scuole Best e (di conseguenza) le scuole non Best. E la differenza, a sentire il sindaco e la sua giunta, non è da poco. Nelle prime, insegnanti illuminati applicheranno programmi sperimentali per «eliminare tutti gli stereotipi sessisti» e abolire le «iniquità di cui le bambine possono essere vittime». Nelle altre, invece, tutto proseguirà come al solito, in un clima stereotipato che potrebbe persino favorire violenze di genere.
È questa, alle estreme conseguenze, l'idea lanciata dal primo cittadino, Giuseppe Sala, che, non pago di aver dato benedizione politica a una sperimentazione educativa ideata da una organizzazione No profit, ora vorrebbe applicare lo stesso modello a tutti gli istituti cittadini. «Be.st - Beyond stereotype», ideato dalla Onlus Punto Sud e già applicato in via sperimentale nella scuola primaria dell'Istituto comprensivo Riccardo Massa, è stato presentato come «un modello di intervento che parte da un approccio innovativo» basato sull'idea che «la costruzione del genere non esclude l'esistenza di differenze biologiche, ma attribuisce a queste delle caratteristiche (…) che prescindono dagli elementi strettamente fisici». Sala, e l'assessore alle politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, evidentemente convinti della bontà dell'idea, ora spingono per un allargamento dell'iniziativa. «Il metodo Be.st», si legge infatti sul sito del Comune di Milano, «vuole proporsi come modello che investe tutto l'ambiente che caratterizza la scuola primaria». Non solo, «le scuole che decideranno di intraprendere questo percorso potranno comunicare all'esterno di essere scuole Be.st». Una sorta di bollino qualità Lgbt per gli «istituti attenti alla parità di genere e alla decostruzione di stereotipi».
Come si realizza concretamente il progetto? Per esempio modificando il linguaggio che nelle scuole Be.st dovrà essere rigorosamente «non sessista e non discriminatorio», o attraverso giochi proposti ai bambini che devono «fornire la possibilità di decostruire gli stereotipi sessisti».
Tutto gratis? Evidentemente no. Per applicare lo schema rieducativo di Be.st agli alunni della primaria Riccardo Massa, per esempio, i promotori hanno incassato più di 50.000 euro dalla Fondazione Cariplo, mentre la realizzazione di ogni progetto ha un costo complessivo che oscilla tra gli 80.000 e i 100.000 euro. Che, moltiplicati per tutte le primarie milanesi, garantiranno alla Onlus un bel giro d'affari.
«Manifesti Pro vita non offensivi»
«Due uomini non fanno una madre» è una frase che a qualcuno potrà pure non piacere, ma non offende nessuno e, soprattutto, non viola il codice dell'Istituto di autodisciplina pubblicitaria (Iap). A stabilirlo è stato l'avvocato Antonio Gambaro, presidente del Gran Giurì dell'Istituto stesso, attivo dal 1966 per vigilare sull'onestà e sulla correttezza della comunicazione pubblicitaria, a tutela del pubblico dei consumatori e delle imprese. Il verdetto, arrivato nel pomeriggio di ieri, segna dunque una vittoria di peso per Pro vita e Generazione famiglia, le due associazioni che un mese e mezzo fa, a Roma, si erano viste censurare i cartelloni contro l'utero in affitto.
Per la precisione, tutto ha avuto inizio lo scorso 16 ottobre quando, subito dopo la loro esposizione, il sindaco di Roma, Virginia Raggi, aveva richiesto agli uffici competenti la rimozione di quelli che definiva «manifesti omofobi riconducibili all'associazione onlus Pro vita». Un ordine che dal Campidoglio era stato emanato ritenendo «il messaggio e l'immagine veicolati dal cartellone, mai autorizzato da Roma Capitale e dal dipartimento di competenza», e la violazione delle «prescrizioni previste al comma 2 dell'art. 12 bis del regolamento in materia di Pubbliche affissioni di Roma Capitale, che vieta espressamente esposizioni pubblicitarie dal contenuto lesivo del rispetto di diritti e libertà individuali». Il «contenuto lesivo» sarebbe consistito, sempre secondo la Raggi, nel fatto che «la strumentalizzazione di un bambino e di una coppia omosessuale nell'immagine del manifesto» offenderebbero «tutti i cittadini».
Di fronte a questa decisione, dal chiaro sapore liberticida, Pro vita e Generazione famiglia si erano subito attivate su più fronti. Anzitutto su quello politico, ottenendo la presentazione di un'apposita interrogazione a firma di Maurizio Politi, capogruppo leghista nel consiglio comunale di Roma, volta a fare piena luce sul codice etico delle affissioni cittadine, «affinché non sia la maggioranza di turno a decidere sulla liceità o meno dei cartelloni». In effetti, era parsa subito singolare la rimozione di manifesti il cui «contenuto lesivo» sembrava quanto meno dubbio, in quanto perfettamente in linea con la legge 40/2004, articolo 12, comma 6, che punisce la surrogazione di maternità e la sua pubblicizzazione.
A ogni modo, dopo la decisione della Raggi, le due associazioni pro family si erano attivate rivolgendosi pure al presidente del Gran Giurì dell'Iap. Che ieri ha dato loro ragione. Comprensibile, quindi, l'esultanza delle due realtà e dei loro due presidenti, Toni Brandi per Pro vita e Jacopo Coghe per Generazione famiglia, che ora, dal sindaco di Roma, esigono delle scuse per l'ingiusta censura subita.
«Ora Virginia Raggi ci chieda scusa», hanno infatti dichiarato Brandi e Coghe, aggiungendo che dal loro punto di vista quella di ieri è «una bella lezione alla dittatura del politicamente corretto e alla nuova “inquisizione buonista" che, dietro falsi slogan che inneggiano all'amore, vogliono privare un bambino della sua mamma o del suo papà». «Noi continueremo a difendere il diritto dei più piccoli a non essere comprati al mercato degli uteri», hanno infine spiegato i due leader pro family. Ora resta da capire se la Raggi sarà disposta a rivedere la sua posizione. In ogni caso un passo in avanti importante nella lotta contro l'utero in affitto è stato fatto. Perché la guerra resta lunga, ma una battaglia, finalmente, è stata vinta.
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Sta per arrivare nelle classi dell'Umbria un test per indottrinare i ragazzi di 12 anni. Dovranno dichiarare l'orientamento sessuale e le loro opinioni.Il Comune adotta il metodo per «correggere» i docenti e creare bambini non sessisti.Per l'Istituto di autodisciplina pubblicitaria la campagna contro l'utero in affitto non viola nessun codice. I promotori: «Ora la Raggi si scusi con noi per la censura».Lo speciale contiene tre articoli.Alle coppie dello stesso sesso dovrebbe essere consentito di adottare bambini? Gay e lesbiche hanno ancora bisogno di manifestare per la parità dei diritti? Come definiresti il tuo orientamento sessuale? Sono solo alcune delle domande contenute nel test messo a punto dal Dipartimento di filosofia, scienze sociali, umane e della formazione dell'università di Perugia e proposto, dopo approvazione dell'ufficio scolastico regionale dell'Umbria, a 54 istituti scolastici della Regione. L'iniziativa è stata presentata come un progetto di ricerca sul bullismo omofobico e ha lo scopo di «garantire la sicurezza e il benessere dei vostri figli».Lo scorso 6 novembre, presso l'ateneo umbro, è stato compiuto il sorteggio delle classi in cui sarà somministrato il questionario. Si tratta di terze della scuola secondaria di primo grado (ovvero le terze medie) e quarte della scuola secondaria di secondo grado (quarte superiori), che in queste settimane sono chiamate a decidere se partecipare alla ricerca. In pratica, a bambini di 12-13 anni e ai ragazzini di 17, verranno poste domande invadenti in un età molto delicata in cui si stanno formando sia l'identità sessuale sia i convincimenti su temi sensibili che rientrano nella sfera educativa familiare, come ha riconosciuto la recente circolare del ministero dell'Istruzione sull'obbligatorietà del consenso informato.Ma per comprendere quanto sia invasiva questa ricerca, che indaga in profondità le opinioni personali di alunni appena adolescenti, bisogna partire fin dalle prime domande che fanno un ritratto della composizione del nucleo familiare del ragazzo. Si chiede infatti di specificare la cittadinanza dei genitori. Poi si passa a una sfera delicatissima, l'appartenenza a una confessione religiosa e quale sia l'intensità del rapporto con essa (credente e praticante, credente ma non praticante, eccetera). Dopo è la volta dell'orientamento politico, che va indicato da una scala che va da «estrema destra» a «estrema sinistra», passando per il «centro».Senza andare oltre, ce n'è già abbastanza per interrogarsi su dove vuole andare a parare un test sull'omofobia che inizia scandagliando i principi religiosi e politici di alunni minorenni. Ma è subito dopo che la ricerca entra per nel campo dell'assurdo se si considera l'età degli intervistati. La quattordicesima domanda del questionario recita testualmente: «Come definiresti il tuo orientamento sessuale?». Le risposte multiple da segnare con una croce proposte ai ragazzini delle medie sono le seguenti: «Esclusivamente eterosessuale»; «Prevalentemente eterosessuale»; «Bisessuale»; «Prevalentemente omosessuale»; «Esclusivamente omosessuale»; «Asessuale». Sì, avete letto bene, a degli alunni appena entrati nella pubertà si chiede se sono asessuali. Terminate le domande che fotografano direttamente l'identità della persona, si passa a una lunghissima serie di affermazioni: rispetto a ciascuna di esse bisogna indicare quanto si è in disaccordo, o in accordo, barrando una scala che va da 0 a 5.Le perplessità sulle reali finalità del test e sui possibili pregiudizi che potrebbero stare alla base di esso sovvengono fin dalla prima affermazione da valutare sulla scala: «per quanto realizzato sia, un uomo non è mai veramente completo come persona se non ha l'amore di una donna»; e poi ancora «nelle calamità le donne dovrebbero essere salvate prima degli uomini», «molte donne interpretano osservazioni o atti innocui come maschilisti», «le donne dovrebbero essere coccolate e protette dagli uomini». Insomma, cosa c'entra tutto questo con il bullismo omofobico? Avere come priorità della propria vita la relazione con una donna e sacrificarsi per essa ha qualche legame con il bullismo?Questo non è dato saperlo anche se nella pagina che spiega il test alle scuole si parla di rilevazione statistica che i ragazzi e le ragazze hanno nei confronti delle diversità «etniche», di «orientamento sessuale», degli «stereotipi di genere» e della «percezione relativa al bullismo».Proseguendo il test si incontrano delle affermazioni che agli occhi di un adulto appaio subito provocatorie, ma che possono essere equivocate da dei ragazzini: «Ci sono delle donne che provano piacere a provocare gli uomini mostrandosi sessualmente disponibili e rifiutando poi i loro approcci», «Le femministe pretendono dagli uomini cose irragionevoli».Si arriva quindi alla valutazione del gruppo di affermazioni sulla sfera dell'omosessualità, alcune delle quali riguardano anche il tema dell'omogenitorialità: «Alle coppie dello stesso sesso dovrebbe essere consentito adottare bambini allo stesso modo delle coppie eterosessuali», «un uomo gay può essere un buon genitore».Infine, non poteva mancare anche un parte dedicata all'immigrazione con qualche esplicito riferimento alla politica nazionale. Le affermazioni su cui esprimere un giudizio iniziano subito con «la maggior parte dei politici si preoccupa troppo degli immigrati e non abbastanza dell'italiano medio», «gli immigrati occupano posti di lavoro che spetterebbero agli italiani». Ci sono inoltre domande dirette: «Quanto spesso ti sei sentito solidale con gli immigrati che vivono qui?».Il questionario ha già scatenato un putiferio sul territorio umbro. Molte le proteste di cui si è fatto portavoce il senatore della Lega, Simone Pillon, che oggi presenterà un'interrogazione al ministro dell'Istruzione, Marco Bussetti. Pillon parla di alunni usati «come cavie da laboratorio per l'indottrinamento gender». Critico anche il comitato locale del Family day, che ha convogliato le proteste di alcuni genitori: «Le domande investono temi delicatissimi come l'orientamento sessuale, passando su tale aspetto implicitamente un messaggio di approvazione acritica della fluidità sessuale: per questo ribadiamo che nessuna ricerca, anche se fosse mossa dai più nobili fini, può superare il primato educativo dei genitori». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sei-etero-odi-i-gay-lindagine-per-rieducare-gli-alunni-delle-medie-2622404804.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="bollini-lgbt-per-gli-istituti-allineati-milano-sposa-il-modello-be-st" data-post-id="2622404804" data-published-at="1765018622" data-use-pagination="False"> Bollini Lgbt per gli istituti allineati. Milano sposa il modello «Be.st» Genitori state pronti perché, presto, a Milano, le scuole non saranno più tutte uguali. Ci saranno le scuole Best e (di conseguenza) le scuole non Best. E la differenza, a sentire il sindaco e la sua giunta, non è da poco. Nelle prime, insegnanti illuminati applicheranno programmi sperimentali per «eliminare tutti gli stereotipi sessisti» e abolire le «iniquità di cui le bambine possono essere vittime». Nelle altre, invece, tutto proseguirà come al solito, in un clima stereotipato che potrebbe persino favorire violenze di genere. È questa, alle estreme conseguenze, l'idea lanciata dal primo cittadino, Giuseppe Sala, che, non pago di aver dato benedizione politica a una sperimentazione educativa ideata da una organizzazione No profit, ora vorrebbe applicare lo stesso modello a tutti gli istituti cittadini. «Be.st - Beyond stereotype», ideato dalla Onlus Punto Sud e già applicato in via sperimentale nella scuola primaria dell'Istituto comprensivo Riccardo Massa, è stato presentato come «un modello di intervento che parte da un approccio innovativo» basato sull'idea che «la costruzione del genere non esclude l'esistenza di differenze biologiche, ma attribuisce a queste delle caratteristiche (…) che prescindono dagli elementi strettamente fisici». Sala, e l'assessore alle politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, evidentemente convinti della bontà dell'idea, ora spingono per un allargamento dell'iniziativa. «Il metodo Be.st», si legge infatti sul sito del Comune di Milano, «vuole proporsi come modello che investe tutto l'ambiente che caratterizza la scuola primaria». Non solo, «le scuole che decideranno di intraprendere questo percorso potranno comunicare all'esterno di essere scuole Be.st». Una sorta di bollino qualità Lgbt per gli «istituti attenti alla parità di genere e alla decostruzione di stereotipi». Come si realizza concretamente il progetto? Per esempio modificando il linguaggio che nelle scuole Be.st dovrà essere rigorosamente «non sessista e non discriminatorio», o attraverso giochi proposti ai bambini che devono «fornire la possibilità di decostruire gli stereotipi sessisti». Tutto gratis? Evidentemente no. Per applicare lo schema rieducativo di Be.st agli alunni della primaria Riccardo Massa, per esempio, i promotori hanno incassato più di 50.000 euro dalla Fondazione Cariplo, mentre la realizzazione di ogni progetto ha un costo complessivo che oscilla tra gli 80.000 e i 100.000 euro. Che, moltiplicati per tutte le primarie milanesi, garantiranno alla Onlus un bel giro d'affari. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sei-etero-odi-i-gay-lindagine-per-rieducare-gli-alunni-delle-medie-2622404804.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="manifesti-pro-vita-non-offensivi" data-post-id="2622404804" data-published-at="1765018622" data-use-pagination="False"> «Manifesti Pro vita non offensivi» «Due uomini non fanno una madre» è una frase che a qualcuno potrà pure non piacere, ma non offende nessuno e, soprattutto, non viola il codice dell'Istituto di autodisciplina pubblicitaria (Iap). A stabilirlo è stato l'avvocato Antonio Gambaro, presidente del Gran Giurì dell'Istituto stesso, attivo dal 1966 per vigilare sull'onestà e sulla correttezza della comunicazione pubblicitaria, a tutela del pubblico dei consumatori e delle imprese. Il verdetto, arrivato nel pomeriggio di ieri, segna dunque una vittoria di peso per Pro vita e Generazione famiglia, le due associazioni che un mese e mezzo fa, a Roma, si erano viste censurare i cartelloni contro l'utero in affitto. Per la precisione, tutto ha avuto inizio lo scorso 16 ottobre quando, subito dopo la loro esposizione, il sindaco di Roma, Virginia Raggi, aveva richiesto agli uffici competenti la rimozione di quelli che definiva «manifesti omofobi riconducibili all'associazione onlus Pro vita». Un ordine che dal Campidoglio era stato emanato ritenendo «il messaggio e l'immagine veicolati dal cartellone, mai autorizzato da Roma Capitale e dal dipartimento di competenza», e la violazione delle «prescrizioni previste al comma 2 dell'art. 12 bis del regolamento in materia di Pubbliche affissioni di Roma Capitale, che vieta espressamente esposizioni pubblicitarie dal contenuto lesivo del rispetto di diritti e libertà individuali». Il «contenuto lesivo» sarebbe consistito, sempre secondo la Raggi, nel fatto che «la strumentalizzazione di un bambino e di una coppia omosessuale nell'immagine del manifesto» offenderebbero «tutti i cittadini». Di fronte a questa decisione, dal chiaro sapore liberticida, Pro vita e Generazione famiglia si erano subito attivate su più fronti. Anzitutto su quello politico, ottenendo la presentazione di un'apposita interrogazione a firma di Maurizio Politi, capogruppo leghista nel consiglio comunale di Roma, volta a fare piena luce sul codice etico delle affissioni cittadine, «affinché non sia la maggioranza di turno a decidere sulla liceità o meno dei cartelloni». In effetti, era parsa subito singolare la rimozione di manifesti il cui «contenuto lesivo» sembrava quanto meno dubbio, in quanto perfettamente in linea con la legge 40/2004, articolo 12, comma 6, che punisce la surrogazione di maternità e la sua pubblicizzazione. A ogni modo, dopo la decisione della Raggi, le due associazioni pro family si erano attivate rivolgendosi pure al presidente del Gran Giurì dell'Iap. Che ieri ha dato loro ragione. Comprensibile, quindi, l'esultanza delle due realtà e dei loro due presidenti, Toni Brandi per Pro vita e Jacopo Coghe per Generazione famiglia, che ora, dal sindaco di Roma, esigono delle scuse per l'ingiusta censura subita. «Ora Virginia Raggi ci chieda scusa», hanno infatti dichiarato Brandi e Coghe, aggiungendo che dal loro punto di vista quella di ieri è «una bella lezione alla dittatura del politicamente corretto e alla nuova “inquisizione buonista" che, dietro falsi slogan che inneggiano all'amore, vogliono privare un bambino della sua mamma o del suo papà». «Noi continueremo a difendere il diritto dei più piccoli a non essere comprati al mercato degli uteri», hanno infine spiegato i due leader pro family. Ora resta da capire se la Raggi sarà disposta a rivedere la sua posizione. In ogni caso un passo in avanti importante nella lotta contro l'utero in affitto è stato fatto. Perché la guerra resta lunga, ma una battaglia, finalmente, è stata vinta.
Lo stand della casa editrice Passaggio al bosco a «Più libri più liberi» (Ansa)
Basta guardare la folla che si presenta e, con un pizzico di curiosità, guarda i titoli di questa casa editrice. Titoli che si sono esauriti in pochissimo tempo. La rivoluzione conservatrice, un volume scritto da Armin Mohler, che racconta la storia intellettuale della Germania tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. «Abbiamo dovuto chiedere di portarci nuovi libri», spiegano dalla casa editrice, «perché ormai ne avevamo davvero pochi e alcuni titoli erano completamente esauriti». Oppure Psicopatologia del radical chic, che immaginiamo sia stato parecchio utile in questi giorni di polemica per comprendere come ragiona chi, in nome della libertà, vorrebbe la censura per gli altri. Oppure Coraggio. Manuale di guerriglia culturale. Una virtù, quella del coraggio appunto, che parrebbe mancare a chi, come ad esempio Alessandro Barbero, nel 2019 diceva: «Penso che l’antifascismo non passi necessariamente attraverso il proibire a una casa editrice di destra di avere uno stand». E che oggi invece sottoscrive appelli per boicottare una casa editrice di destra insieme a Zerocalcare, che ha deciso di non partecipare alla kermesse ma di continuare comunque a vendere i suoi libri (come si dice in romanesco pecunia non olet?). Corrado Augias, invece, è riuscito a fare di meglio. Ha scritto una lettera, a Repubblica ovviamente, in cui ha annunciato che non si sarebbe presentato in fiera, dove avrebbe dovuto parlare di Piero Gobetti. Una lettera piena di pathos, quasi che si trovasse al confino, in cui spiegava: «Io sono favorevole alla tolleranza, anzi la pratico - anche con gli intolleranti per scelta, per età, per temperamento. C’è però una distinzione. Un conto sono gli intolleranti un altro, ben diverso, chi si fa partecipe cioè complice delle idee di un regime criminale come il nazismo». Perché si inizia sempre così: sono tollerante, ma fino a un certo punto. Anzi: fino al «però». Fino a dove ci sono quelli che Augias definisce nazisti, anche se in realtà non lo sono.
Dallo stand di Passaggio al bosco, come dicevamo, stanno passando tutti. Alcuni chiedono di parlare con l’editore, Marco Scatarzi, dicendo di condividere poco o nulla di ciò che stampa, ma esprimendo comunque solidarietà nei suoi confronti. Ci sono anche scolaresche che si fermano e pongono domande su quei libri «proibiti». Anche Anna Paola Concia, che certamente non può essere considerata una pericolosa reazionaria, è andata a visitare lo stand esprimendo vicinanza a Passaggio al bosco. Il mondo al contrario, appunto. O solamente un mondo in cui c’è un po’ di buonsenso. Quello che ti fa dire che chiunque può pubblicare qualsiasi testo purché non sia contrario alla legge.
C’è chi, però, continua a non accettare la presenza della casa editrice. Nel pomeriggio di ieri, per esempio, un gruppo di femministe ha prima urlato «siamo tutte antifasciste» e poi ha lanciato un volantino in cui si dà la colpa al capitalismo, che insieme al nazismo è ovunque, se Passaggio al bosco è lì. Oggi, inoltre, una ventina di case editrici ha deciso di coprire, per una mezz’ora di protesta, i propri libri. «Questo è ciò che è accaduto alla libertà di stampa e di pensiero quando i fascisti e i nazisti hanno messo in pratica la loro libertà di espressione. Vogliamo una Più libri più liberi antifascista».
Per una strana eterogenesi dei fini, gli stand delle case editrici più agguerrite contro Passaggio al bosco, tra cui per esempio Red Star, sono vuoti. Pochi visitatori spaesati si aggirano tra i libri su Lenin e quelli su Stalin. Un fantasma si aggira per gli stand: ed è quello degli antifa.
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I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero a Grinzane Cavour (Cuneo), il 28 aprile 2021 (Ansa)
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.
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Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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