«L'idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae - due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile - rappresenti, in linea di principio, il “luogo" più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale». Le motivazioni riportate nella sentenza 221 della Corte Costituzionale, depositata ieri, spiegano in maniera chiarissima perché il divieto di accedere alla procreazione medicalmente assistita (Pma), imposto dalla legge 40 nei confronti delle coppie formate da persone dello stesso sesso, è del tutto legittimo.
Nel giro di 48 ore il massimo organo della giurisprudenza italiana ha smontato pezzo per pezzo la retorica del diritto al figlio ad ogni costo basata sull'interesse degli adulti. Lunedì con il pronunciamento che ha giudicato «inammissibile» la richiesta di trascrizione di un atto straniero che indica la doppia maternità di due donne e ieri con la decisione che ha sancito la non fondatezza della questione postagli dal tribunale di Pordenone che dubita della legittimità costituzionale degli articoli 5 e 12, della legge 40 del 2004. I giudici osservano che in passato tutte le pronunce della Corte sulla legge 40 «si sono mosse nella logica del rispetto della finalità terapeutica assegnata dal legislatore alla Pma, senza contestare nella sua globalità - in punto di compatibilità con la Costituzione - l'altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna».
La Consulta rimarca inoltre che la sentenza 162 del 2014, che ha rimosso il divieto di fecondazione con gameti estranei alla coppia, abbia «avuto cura di puntualizzare e sottolineare che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che posseggano i requisiti indicati dall'art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004», cioè due persone maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi. La Corte ricorda quindi che il principio guida della legge 40 non è di soddisfare il desiderio un figlio tramite l'uso delle tecnologie, ma di porre specifiche condizioni di accesso a queste pratiche «e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato». «La legge configura, infatti, queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la Pma possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità" alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati».
Un altro passaggio molto netto è quello che riconosce una «una differenza essenziale» tra l'adozione e la Pma. «L'adozione presuppone l'esistenza in vita dell'adottando», scrivono i giudici, «essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell'adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela» per questo motivo e nell'interesse del minore mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate. Interesse che - in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale - va verificato in concreto nel caso di coppie omosessuali. Viene pertanto fatta una precisa distinzione tra le situazioni drammatiche create dalla perdita di uno dei genitori naturali e il desiderio di un adulto di procurarsi un figlio accedendo a pratiche sanzionate penalmente nel nostro Paese.
Brutte notizie anche per chi sogna un rovesciamento della legge nelle aule dei tribunali. La Consulta sottolinea che è il legislatore che deve comporre «i diversi interessi in gioco» e che anche «la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato in più occasioni, che nella materia della Pma, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano un ampio margine di apprezzamento».
Le parole usate dalla Consulta irrompono come una bomba atomica nel dibattito sull'omogenitorialità e sul diritto dei bambini ad avere una mamma e un papà, principio che sembra essere diventato uno dei punti fermi della coalizione di centrodestra e prontamente agitato in campagna elettorale da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Intanto il pronunciamento ha fatto esultare le organizzazioni pro family e pro life italiane. «Solo chi è annebbiato dall'ideologia può affermare che crescere con un padre e una madre è una scelta meramente arbitraria» ha commentato il leader del Family day, Massimo Gandolfini che si è rivolto a tutti i partiti affinché sia approvata «una legge che colpisca il mercato di gameti e di uteri in tutto il mondo».
- Giorgia è minorenne, sua madre ha chiesto un aiuto ai servizi sociali per migliorare il loro rapporto difficile. Ma l'hanno ricoverata in un centro terapeutico: «Le hanno dato psicofarmaci anche se non ne ha bisogno».
- La famiglia riesce a riunire i leader del centrodestra. Prove generali di coalizione all'evento promosso in Umbria dalle associazioni pro vita. Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi sostengono l'impegno della candidata Donatella Tesei.
Lo speciale contiene due articoli.
Quando vengono a prenderla, in un giorno di maggio, Giorgia ha 17 anni. A casa si presentano in quattordici, tra assistenti sociali, medici e personale delle forze dell'ordine. Le mostrano anche una siringa - dice sua madre - per farle capire l'andazzo: se fai problemi, ti sediamo e ti portiamo via. Da allora Giorgia è chiusa in una comunità terapeutica per minori in provincia di Asti. Non può uscire, non va a scuola, dorme per la gran parte del tempo. Può parlare con la madre solo una volta alla settimana: dieci minuti di telefonata sotto la supervisione di un operatore che ha facoltà di interrompere la comunicazione se la conversazione diventa troppo problematica.
È come se questa ragazza fosse stata risucchiata via dalla vita. Se parliamo di lei, oggi, è perché la madre non si è data per vinta, ha bussato alle porte di politici e giornalisti, e ieri - opportunamente protetta dall'anonimato - è intervenuta a Unomattina, il programma di Rai 1 condotto da Roberto Poletti e Valentina Bisti. La storia che questa donna racconta è agghiacciante, e ricalca quelle - numerose - che abbiamo sentito in questi mesi. Tutte dicono la stessa cosa: entrare in una comunità terapeutica è come svanire.
A ricostruire la vicenda di Giorgia con La Verità è l'avvocato Bruna Puglisi, che segue la ragazza e la madre. I problemi sono cominciati tre anni fa, quando il rapporto tra mamma e figlia è diventato molto conflittuale. La donna, impegnata in una nuova relazione, era rimasta incinta di due gemelli, e Giorgia proprio non lo digeriva. Così la madre ha deciso di fare ciò che fanno tante famiglie in difficoltà: si è rivolta ai servizi sociali per avere un aiuto. Ha avuto fiducia nelle istituzioni, il cui compito dovrebbe essere quello di proteggere e sostenere le famiglie più fragili. Non è finita bene.
La donna sperava che la figlia potesse vedere un esperto che la aiutasse a superare il momento difficile, uno psicologo magari. E in effetti ha visto dei professionisti.
«Quando è stata presa in carico dai servizi», spiega l'avvocato Puglisi, «ha visto 2 o 3 volte la psicologa e una volta la psichiatra. Tanto è bastato perché le diagnosticassero un funzionamento psichico a tratti paranoide. I servizi sociali, nelle loro relazioni, hanno scritto che Giorgia era chiusa, isolata. Ma non è affatto vero. Andava a scuola regolarmente, frequentava un corso di nuoto parecchio impegnativo e stava per prendere l'abilitazione come istruttrice. Aveva delle amiche, usciva».
Giorgia e la madre hanno cominciato a seguire degli incontri, alla ragazza è stato detto di frequentare un centro diurno, ma lei lì non si trovava bene. Si spaventava quando vedeva gli altri ragazzini presenti, quasi tutti con problemi piuttosto gravi. «Veniva anche una educatrice una volta ogni dieci giorni», racconta l'avvocato. «Ma le faceva fare per lo più attività ludiche, uscivano a passeggiare...».
Con il passare del tempo, il conflitto con la madre è andato sciogliendosi. La donna ha perso i due figli che portava in grembo, e la tragedia l'ha riavvicinata alla figlia. Così la loro presenza agli incontri si è diradata, al centro diurno Giorgia non è voluta andare più. E questo cambio d'atteggiamento ha spinto i servizi sociali a intervenire. Hanno chiesto e ottenuto dal Tribunale dei minori il trasferimento in una comunità terapeutica. Trasferimento coattivo, se ce ne fosse stato bisogno. Infine è arrivato quel giorno di maggio: tante persone alla porta, Giorgia che viene circondata e poi portata lontano da casa, in provincia di Asti, nella comunità terapeutica per minori.
«Da maggio a luglio», dice l'avvocato Puglisi, «alla ragazza sono stati somministrati psicofarmaci, di quelli utilizzati per curare le schizofrenie. Visto che la ragazza stava male, la madre non ha dato il consenso. Ma hanno continuato a darglieli lo stesso». Benché limitata, la madre di Giorgia è ancora titolare della potestà. E, almeno in teoria, se i genitori non sono d'accordo ai minorenni non dovrebbero essere somministrati farmaci se non in casi di estrema necessità. A Giorgia li hanno dati, e anche per bel po' di tempo.
«Ci siamo rivolti alla Corte d'appello», continua l'avvocato, «per chiedere che fosse dimessa. Persino il pm, che in questi casi viene sentito per un parere, ha chiesto una ispezione in comunità. Da quel momento, i responsabili hanno deciso che avrebbero dato farmaci a Giorgia soltanto “al bisogno". La Corte d'appello ha chiesto relazioni ai servizi sociali, e abbiamo dovuto aspettare fino a settembre perché arrivassero». In tutto questo tempo, Giorgia è rimasta rinchiusa. Poi, dopo aver letto le relazioni e aver sentito la madre della ragazza, la Corte ha rigettato il ricorso dell'avvocato.
Tutto finito, dunque? Affatto. La comunità terapeutica voleva continuare a somministrare psicofarmaci a Giorgia, così si è rivolta al giudice tutelare di Asti per chiedere l'autorizzazione. Piccolo problema: il giudice ha chiesto una consulenza tecnica. Sono arrivate due perizie: una di parte e una dall'esperto chiamato dal giudice, ed entrambe hanno raccontato sulla ragazza una verità diversa.
Il perito scelto dal giudice, ovviamente più moderato, ha spiegato che Giorgia «non manifesta sintomi psicotici, ma ha manifestato gravi disturbi del comportamento reattivi a eventi particolarmente stressanti, che possono essere stati interpretati come sintomi psicotici». Motivo per cui può prendere farmaci solo in caso «di intensi stati di ansia o di gravi disturbi comportamentali». Ma «non appare necessario un impiego continuativo della terapia farmacologica», spiega l'esperto del giudice. Dunque a Giorgia non devono essere somministrati psicofarmaci con continuità, eppure glieli hanno dati per mesi senza il consenso della madre. Non solo. Il perito specifica che «appare necessaria una presa in carico della minore per consentirle di conseguire maggiori competenze cognitive e migliori abilità sociali». Insomma, per stare meglio Giorgia dovrebbe essere attiva, magari andare a scuola, magari uscire. Di certo non restare in un letto per ore e ore ogni giorno.
La sua storia è talmente allucinante che Chiara Caucino, assessore regionale del Piemonte alle politiche sociali, ha deciso di verificare personalmente la situazione. Qualche settimana fa si è presentata ai cancelli della comunità terapeutica. «Non mi hanno fatto entrare», spiega. «Non mi hanno neppure aperto il cancelletto. Siamo rimasti fuori per due ore sotto la pioggia». La sua non era una ispezione, ma una visita istituzionale. Va tenuto presente, infatti, che è la Regione a stabilire quali strutture possano essere accreditate come comunità terapeutiche e quali no. Soprattutto, è la Regione che paga le rette. E in questo caso si parla di una marea di soldi. Per Giorgia il Piemonte versa alla comunità 260 euro al giorno. Assieme a lei ci sono altre nove ragazze. In una comunità di quel tipo si dovrebbe restare per 4 mesi, massimo 8 se il tribunale proroga. Ma, a quanto pare, lì ci sono minorenni da 12, 14 mesi e oltre.
Ragazzine risucchiate, messe a letto alle 9 di sera dopo che hanno dormito pure il pomeriggio. Non possono uscire. Giorgia ha visto la madre due volte, da maggio a oggi: un'ora ad agosto e una a settembre. Le hanno dato psicofarmaci anche se, secondo i periti, non ne aveva bisogno. Tutto perché sua madre, in un momento difficile, ha chiesto aiuto.
La famiglia riesce a riunire i leader del centrodestra
Prove di centrodestra unito. Almeno in Umbria, e almeno su vita, famiglia e libertà educativa. Non bazzecole, comunque. Il primo evento unitario nella campagna elettorale per la Regione Umbria è la firma del manifesto valoriale messo a punto dalle associazioni pro-family. Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi si sono ritrovati sul palco del Centro Congressi Capitini di Perugia per l'evento (seguitissimo) «L'Umbria mette al centro la famiglia», in occasione del quale candidata della coalizione a Presidente della Regione, Donatella Tesei, ha sottoscritto le proposte per la famiglia, facendosi garante dell'esistenza di un accordo chiaro e condiviso, che dovrà essere integrato nel programma di governo. Tutti e tre i leader hanno tenuto una conferenza stampa assieme alla candidata Tesei, e poi sono intervenuti al convegno promosso da Family Day, Associazione Nazionale Famiglie Numerose, Movimento Per la Vita sedi di Terni - Città di Castello - Spoleto, ProVita & Famiglia, Steadfast onlus, CitizenGo e Alleanza Cattolica. Sigle che intendono in questo modo continuare anche sul piano regionale il lavoro di collaborazione con le amministrazioni locali umbre.
In particolare, il manifesto rilancia il ruolo della famiglia come motore dello sviluppo economico, umano e sociale del territorio umbro.
«Posso dire senza ombra di dubbio che insieme a Giorgia e Silvio condividiamo tutti i principi che state riaffermando oggi. In particolar modo la libertà educativa», ha detto Salvini, aggiungendo: «L'utero in affitto dovrebbe far rivoltare lo stomaco delle donne. In questa terra di santi ribadiamo che il crocefisso non si tocca». Sulle droghe, poi, ha continuato, «ci sono disegni di legge leggi in parlamento vogliono creare lo Stato spacciatore. Dovranno passare sul mio corpo». Salvini ha irriso infine chi ha definito come «divisivo» il Family day: «dovrebbero vedere le facce che ci sono qui questa sera».
Il riconoscimento del ruolo delle associazioni pro family e pro life arriva anche da Giorgia Meloni: «Nelle ultime campagne elettorali ci costringete a parlare di famiglia, della sacralità della vita e della nostra identità, è su questi temi la vera cifra dello scontro in atto». Il presidente di Fratelli d'Italia ha ricordato le invettive del pensiero unico contro il Congresso delle famiglie di Verona, perché «per parlare di papà e mamma si viene tacciati di ogni nefandezza», e se non si ha coscienza delle proprie radici non si può chiedere rispetto «per questo anche uno Stato laico deve difendere il crocefisso». «Io sono una donna, una madre e un'italiana», ha detto: «Nessuno potrà mai cancellare la nostra identità».
Corde simili sono state toccate con accenti diversi da Berlusconi, che ha parlato di famiglia «come istituzione più importante per una società che possa vivere nel massimo della civiltà». Il leader di Forza Italia ha quindi rimarcato quella che ritiene una differenza inconciliabile con la sinistra: «Noi crediamo che dal diritto alla vita e alla libertà discendano tutti gli altri diritti e che questi sono indipendenti da ogni forma di Stato».
Soddisfazione è stata espressa anche da Jacopo Coghe (Pro Vita & Famiglia): «È stato promesso. Con la firma del manifesto per la vita e la famiglia, i nostri valori saranno al centro dell'azione del centrodestra in Umbria. Come co-organizzatori con Salvini, Meloni e Berlusconi abbiamo ottenuto la promessa che il candidato presidente agirà per proteggere quello che è il nucleo fondamentale della società: mamme, papà e figli. Insieme al leader del Family Day, Massimo Gandolfini, ci coordineremo per un'azione efficace delineando priorità, azioni concrete e misure adeguate per realizzare una Regione a misura di famiglie. Abbiamo strappato una promessa: la Regione sosterrà la vita, dal concepimento fino alla morte naturale sia su un piano politico che culturale». Intervenendo sulle polemiche in vista della manifestazione unitaria del centrodestra a Roma, prevista domani, Berlusconi ha confermato la sua presenza a prescindere dalla partecipazione di Casapound: «È a rischio la libertà», ha detto il Cavaliere, «vado ovunque». Di diverso avviso Mara Carfagna.
L'Italia non sarà più quella «felice eccezione», in tema di difesa della vita e della famiglia, di cui parlava Giovanni Paolo II ma resta un Paese che continua ad insegnare al mondo cosa significa prendersi cura delle persone più fragili. A ricordarcelo sono le parole della mamma della piccola Tafida Raqeeb, 5 anni, giunta all'Ospedale Gaslini di Genova nella tarda serata di martedì, dopo una estenuante battaglia legale con i medici del Royal London Hospital che volevano staccarle i supporti vitali.
«La principale differenza tra la sanità inglese e quella italiana è che dal primo momento in cui Tafida è stata ricoverata in Inghilterra i dottori continuavano a dire “non ce la farà". Questo me lo sono sentita dire fino all'ultimo momento. Invece qui al Gaslini ho trovato speranza», ha detto Shelina Begum, madre della bimba inglese in gravi condizioni. «Questa è la grandissima differenza», ha ribadito, «tra cosa ho trovato in Inghilterra e cosa ho trovato in Italia».
Per portare la figlia in Italia, i genitori di Tafida hanno dovuto affrontare una serie di processi che li hanno portati sino all'Alta Corte britannica, che poi ha deciso di concedere il permesso per il trasferimento. La bambina, che si trova in stato coscienza minima dopo un intervento al cervello subito a febbraio, è stata ricoverata nella terapia intensiva del nosocomio genovese, dove sarà valutata da un'equipe composta anche dal neurologo Lino Nobili e dal neurochirurgo Michele Torre.
«Non sempre si può guarire, ma sempre si può e si deve prendersi cura dei nostri piccoli pazienti», ha detto il direttore generale del Gaslini, Paolo Petralia, «questo è quello che il Gaslini fa da oltre 80 anni, perché prendersi cura precede e moltiplica gli effetti delle cure».
Ad accogliere la bimba sul suolo italiano il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, insieme al vicepresidente e assessore alla Sanità, Sonia Viale. «Abbiamo fatto credo la cosa giusta. Adesso siamo certi che sia nelle mani di straordinari pediatri di uno dei migliori ospedali e nelle mani del buon Dio», ha detto il governatore.
Tafida non si è mai risvegliata del tutto dall'operazione subita a febbraio per la rara malformazione artero-venosa. Nel dare l'ok al trasferimento in Italia, «nel miglior interesse di Tafida», il giudice dell'Alta Corte inglese Alistair MacDonald aveva sottolineato la differenza fra il caso di malati terminali o inguaribili e quello della bambina, a cui gli specialisti non negano una potenziale aspettativa di vita superiore ai 20 anni. Ieri mattina presso il Gaslini è stato fatto il punto della situazione in una conferenza stampa animata dai medici e da Filippo Martini, segretario di Giuristi per la vita, l'associazione di legali e magistrati che ha assistito per le questioni giuridiche italiane la famiglia nella complessa battaglia. «Sono stato in rianimazione, ho visto Tafida», ha raccontato l'avvocato Martini. È stata una «emozione grande» ha detto ancora Martini, che poi ha aggiunto: «Rispondeva, eccome alle sollecitazioni della mamma». Il segretario dell'associazione di giuristi ha quindi riferito che è stata presentata per Tafida un'istanza di acquisizione della cittadinanza italiana. «Ricordiamoci che la famiglia si è dovuta distaccare dalla sua realtà per venire in un Paese nuovo», ha spiegato Martini, «qui inizia un percorso di integrazione, vogliamo mettere in contatto la mamma-avvocato Shelina con studi legali qui in Italia che possano iniziare a riavviare il percorso che lei con la sua professione aveva già fatto».
La prima giornata in Italia di Tafida è stata scandita anche dalla calorosa accoglienza dei militanti di Citizengo, organizzazione pro-life aderente al Family day. Presente anche Filippo Savarese, direttore delle campagne per l'Italia di Citizengo, che ha coordinato la raccolta di quasi 300.000 firme per sostenere la richiesta di trasferimento della piccola Tafida.
Il lieto fine di questa vicenda fotografa uno spaccato dell'Italia migliore, che lancia grandi segnali di speranza. Emblematico l'episodio condiviso in conferenza stampa da Paolo Petralia, direttore generale dell'Ospedale Gaslini. Una poliziotta che scortava l'ambulanza con la piccola paziente ha consegnato a Petralia una rosa e dicendogli: «Questa è per Tafida», con le lacrime agli occhi. «Mi ha colpito la tenerezza, la delicatezza e soprattutto la partecipazione di una persona che aveva svolto il suo lavoro ma che ha voluto aggiungere qualcosa in più, un pezzettino di umanità in più».





