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2018-10-30
Schiaffo ai profeti di sventura: spread giù
ANSA
Alla fine il partito «forza spread» ha perso. Il tanto atteso, quasi invocato in certe redazioni, declassamento dell'Italia da parte di Standard & Poor's non c'è stato e ieri lo spread Btp-Bund è addirittura battuto in ritirata a 297,6 punti base, rispetto ai 309 di venerdì scorso.
Lo schiaffo, dunque, non c'è stato. La settimana scorsa l'agenzia non ha abbassato il grado di affidabilità del Paese (mantenendolo a BBB) ma sono state riviste in maniera negativa le previsioni per il futuro (l'outlook), perché «il piano economico del governo rischia di indebolire le performance di crescita del Paese». Tanto era bastato però a quasi tutti i giornali, Repubblica e La Sampa in testa, a disegnare scenari apocalittici, come se il colosso Usa avesse di fatto bocciato il nostro Paese, cosa che invece non aveva fatto. Un ribaltamento della realtà che, però, con la realtà ha dovuto fare i conti ieri. E gli effetti sono stati tragicomici. Quegli stessi cantori di sventura hanno dovuto fare marcia indietro. Il sito di Repubblica, ad esempio, è paradigmatico dello «sdeng»: «S&P spinge lo spread al ribasso. Il mancato declassamento dell'Italia dà respiro ai nostri titoli di Stato». Insomma, i nostri becchini sono diventati magicamente i nostri salvatori. In tutto questo processo mediatico, inoltre, non si è poi considerato che lo spread altro che non è che un differenziale tra il decennale italiano e quello tedesco. In parole povere, le forze in gioco sono due, non una come molti hanno voluto far credere. Solo ieri mattina, ad esempio, i rendimenti dei titoli di Berlino hanno preso il volo (+10 punti) perché hanno scontato l'annuncio della cancelliera Angela Merkel di non rinnovare la corsa alla leadership della Cdu dopo la disfatta delle elezioni in Assia.
Insomma, ieri chi ha tifato contro l'Italia ha perso. La decisione di S&P di non tagliare il rating dell'Italia «non cambia il nostro outlook negativo di medio termine sui titoli italiani», ma apre la strada per «un periodo di relativa tranquillità», ha sottolineato ieri James McCormick, esperto di NatWest Markets, secondo cui la scelta di S&P è stato «l'ultimo momento chiave del flusso di notizie atteso sull'Italia».
Non solo il decennale italiano, inoltre, ha tirato un sospiro di sollievo. Nel corso della giornata di ieri, il Tesoro italiano ha collocato in asta sei miliardi di euro di Bot a sei mesi, con un tasso medio dello 0,159%, in discesa di 5 punti base rispetto allo 0,206 di fine settembre. Segnale che anche su durate più brevi c'è un po' più di serenità. Lo stesso clima di ottimismo ieri si è visto anche a Piazza Affari, dove si è registrato un aumento dell'1,91%, sempre grazie al verdetto di S&P: la piazza italiana è stata la migliore del continente.
A beneficiarne sono state, come era largamente atteso, le banche: tutte con rialzi importanti. Ieri Banca Mps ha messo a segno un +7,62%, Banca Carige +8,7%, Banco Bpm +5,01%, Bper +4,41%, Intesa Sanpaolo +3,03%, Mediobanca +2,85%, Unicredit +4,32% e Unipol +3,53%.
Non solo, ieri anche il titolo Fca ha visto buoni rialzi in scia alle indiscrezioni secondo le quali il governo cinese starebbe pensando di dimezzare le tariffe sulle importazioni di auto. Progressi ancora più evidenti si sono visti per Stm (+5,62%) e Cnh Industrial (+3,49%), mentre hanno registrato un segno meno Leonardo (-1,85%) e Moncler (-1,42%).
Particolarmente bene anche Tim (+4,36%), titolo su cui Deutsche Bank ha confermato la raccomandazione positiva. Gli esperti evidenziano che il terzo trimestre sarà difficile per le compagnie telefoniche italiane, ma Telecom è meglio posizionata rispetto agli altri competitor. Acquisti pure su Atlantia (+0,91%). La società italiana, Acs e Hochtief hanno perfezionato l'accordo sottoscritto il 23 marzo per un investimento congiunto in Abertis Infraestructuras.
In ascesa, tra gli altri titoli, Ansaldo Sts (+8,97%). Hitachi ha acquistato l'intera partecipazione di Elliot, pari al 31,794% del capitale, ad un prezzo unitario pari a 12,70 euro. Hitachi ha poi deciso di promuovere un'offerta pubblica di acquisto volontaria totalitaria sulla totalità delle azioni ordinarie di Ansaldo Sts. Infine, hanno brillato Clabo (+24,68%) e Isagro (+9,87%) mentre D'Amico (-13,01%) ha continuato a registrare nuovi minimi.
Anche le altre Borse del Vecchio continente hanno chiuso in positivo, trainate da Piazza Affari. Londra è salita dell'1,74%, Francoforte dell'1,93%. Parigi, partita in ritardo a causa di un problema tecnico, cresce è comunque cresciuta dell'1,13%.
Anche dall'altra parte dell'oceano, al momento della chiusura delle piazze europee, l'ottimismo non mancava. Intorno alle 17.30 ora italiana il Dow Jones era in crescita dello 0,29%, mentre l'S&P 500 viaggiava a quota + 0,6%. Solo il Nasdaq si è mostrato in leggera flessione dello 0,39%.
Chi «remava» contro l'Italia, dunque, deve mettersi l'anima in pace. Dopo il verdetto di Standard & Poor's, almeno per un po', non ci dovrebbero essere grossi scogli all'orizzonte. La nave Italia ha passato la tempesta. Alla faccia di chi sperava che colasse a picco.
Gianluca Baldini
La svendita dei crediti deteriorati è la vera maledizione per le banche
Dopo lo scampato pericolo del downgrade targato Standard & Poor's (l'agenzia di rating venerdì si è limitata infatti a tagliare l'outlook da «stabile» a «negativo») brillano i bancari a Piazza Affari. Quello di ieri è stato un rialzo generalizzato che ha coinvolto un po' tutti gli istituti, da Mps a Carige, a Banco Bpm passando per Ubi Banca, Mediobanca e Intesa Sanpaolo. Bene anche lo spread, che è tornato dopo ben due settimane sotto la soglia psicologica di 300 punti base.
Proprio riferendosi allo spread, nella conferenza stampa di giovedì scorso il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, aveva avvertito che «se mi si chiede cosa si può fare riguardo alle banche, dato l'allargamento dello spread negli ultimi sei mesi, una prima risposta è ridurre lo spread». Non si può negare che lo spread rappresenti un fattore di stress per gli istituti di credito. Uno studio di Credit Suisse pubblicato qualche settimana fa prevede che un livello prolungato del differenziale superiore ai 400 punti «non è sostenibile». «Un ampliamento di 200 punti base da fine giugno (238 bps) ridurrebbe il Cet1 (l'indice di solidità patrimoniale delle banche, ndr) di 66 punti base in media, dal 12,53% a 11,87%», una variazione che farebbe «scattare aumenti di capitale», si legge.
Lo spread, dunque, è diventato il nuovo feticcio da agitare in vista della prossima crisi bancaria. Come tutti i fenomeni, però, un'osservazione troppo ravvicinata rischia di indurre a conclusioni errate. Il sistema bancario italiano è arrivato già profondamente provato alle soglie di questa nuova possibile, imminente recessione. Basti pensare che, tra il 2012 e il 2013 l'erogazione di nuovi crediti è risultata negativa per ben quattro trimestri di seguito. La stretta creditizia si è abbattuta con tutta la sua forza sulle nostre imprese. Dato drammatico per eccellenza è quello dei fallimenti delle aziende, passati dai 12.300 del 2012 ai 15.300 del 2014. Ovviamente, l'impatto della Grande recessione si è fatto sentire anche in termini di qualità degli impieghi. Questa è una conseguenza piuttosto ovvia, dal momento che se diminuisce la capacità di rimborso delle imprese e delle famiglie è più facile che i finanziamenti finiscano in contenzioso. Il riflesso, come tutti sappiamo, è stato l'aumento vertiginoso dei crediti deteriorati (noti anche come non performing loans, o più brevemente Npl), il cui volume è quintuplicato in meno di un decennio. Lo stock di Npl, infatti, è passato dai 65 miliardi di euro del 2007 ai 341 miliardi del 2015.
Ora, cosa ha pensato bene di fare il regolatore europeo, cioè il Meccanismo di vigilanza unico, in un contesto del genere? Anziché facilitare uno smaltimento graduale di questi crediti, ha pressato per una loro frettolosa (e molto meno remunerativa) riduzione. Come dimenticare gli innumerevoli discorsi di Danièle Nouy, capo della Vigilanza europea, per demonizzare l'enorme mole di crediti deteriorati in pancia alle banche italiane? La ragione principale addotta dagli euroburocrati è che le banche che possiedono molti Npl nei propri bilanci trovano più difficoltà nell'erogazione del credito. Fidandosi delle indicazioni del regolatore, molti istituti hanno perciò svenduto in fretta e furia i crediti problematici.
Secondo uno studio di Banca d'Italia di aprile 2018, del quale La Verità ha dato conto pochi giorni dopo la sua pubblicazione, la correlazione tra Npl e mancata erogazione del credito è tutta da dimostrare. Non si spiegherebbe altrimenti come mai, a fronte della diminuzione dello stock di Npl, il credito faccia comunque fatica a riprendersi. Secondo l'ultimo rapporto Unimpresa, basato su dati diffusi da Banca d'Italia, nell'ultimo anno i prestiti delle banche alle imprese sono infatti diminuiti di oltre 45 miliardi di euro (-5,84%).
Secondo il colosso di consulenza PwC, solo nel 2017 le cessioni di Npl sono state pari a 64 miliardi di euro, trainate «principalmente da alcune mega operazioni», concluse da pochi operatori specializzati. Un trend pienamente rispettato anche nel 2018, con circa 37 miliardi di transazioni nel primo semestre. La pressione normativa della Vigilanza sulle banche italiane, attuata anche con criteri più stringenti in materia di accantonamenti dei crediti, non ha ottenuto i risultati sperati dal punto di vista né dell'erogazione di nuovi crediti, né tanto meno della ripresa economica. Per contro, abbiamo assistito alla nascita di un mercato molto redditizio (quello degli Npl appunto) con rendimenti che, per gli operatori che riescono ad affacciarvisi, arrivano con facilità alla doppia cifra. A nulla sono serviti gli appelli alla calma di Banca d'Italia. «Vanno evitate politiche generalizzate di vendita, che condurrebbero di fatto a un indesiderabile trasferimento di risorse a danno delle banche italiane e in favore dei pochi investitori specializzati, in larga misura di origine estera», avvertiva a giugno del 2017 il vicedirettore generale della Banca d'Italia, Fabio Panetta. Parole rimaste inascoltate, nel mentre che a Francoforte cuoceva indisturbato lo spezzatino delle banche italiane.
Antonio Grizzuti
Flat tax ripetizioni e terre ai giovani
81 pagine, 115 articoli: cresce molto, nell'ultima bozza in circolazione, la «cubatura» della manovra, che potrebbe approdare in commissione Bilancio alla Camera già stamattina. Ma questo accade ogni anno: nel caos «ferroviario» parlamentare, si sa che uno dei pochi treni ad arrivare con certezza (e in orario) in stazione è proprio la legge di bilancio, ed è quindi fatale che in quel ddl trovino posto sempre più vagoni. Ecco alcune novità.
1Le Regioni sono chiamate a un taglio dei vitalizi di consiglieri e presidenti, sulla scia di quanto fatto dalla Camera. Per farlo, hanno sei mesi di tempo. Se non lo faranno, sanzioni pesanti: taglio delle risorse statali nella misura del 30% per il 2019, salvaguardando comunque le voci come sanità, politiche sociali e trasporto pubblico locale. Dall'anno successivo, tagli lineari corrispondenti alla metà delle somme destinate nel 2018 ai vitalizi. Insomma, un poderoso incentivo a un intervento forte sui vitalizi.
2 Sulla cedolare secca da estendere al commercio, emergono i paletti che sarebbero stati decisi dal governo: la tassa al 21% sarà applicata agli immobili di categoria catastale C1 di «superficie fino a 600 mq, escluse le pertinenze». E inoltre deve trattarsi di nuovi contratti. La speranza è che questo regime sperimentale possa essere significativamente esteso nei prossimi anni.
3 Incremento del fondo per il Servizio sanitario nazionale, tema foriero di tensioni nelle ultime settimane. Il fondo arriverà a 114,4 miliardi, con previsioni di ulteriore crescita per gli anni successivi. Ma gli aumenti futuri saranno subordinati alla realizzazione di un nuovo «Patto per la salute» tra Stato e Regioni per ottimizzare servizi e costi.
4 Novità vera, la flat tax al 15% per ripetizioni scolastiche e lezioni private, con un potente incentivo all'emersione di attività molto spesso svolte in nero. Dal primo gennaio 2019, «i titolari di cattedre nelle scuole di ogni ordine e grado» potranno chiedere l'applicazione di «una imposta sostitutiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 15%, salva l'opzione per l'applicazione dell'imposta sul reddito nei modi ordinari». Quindi un'opportunità in più.
5 Arriva la misura pro eccellenze che era stata anticipata alla Verità dal sottosegretario Guido Guidesi. Si tratta di un bonus-occupazione per i giovani con carriere universitarie eccellenti, laureati under 30 o dottori di ricerca under 34. In pratica, il datore di lavoro che dovesse assumerli sarebbe esonerato dai contributi, ad eccezione dei premi e contributi Inail, per un anno al massimo e con un tetto di 8.000 euro. Lo sconto vale per le assunzioni a tempo indeterminato avvenute nel 2019.
6 Come La Verità aveva anticipato, le misure più corpose (quota 100 e reddito di cittadinanza) troveranno posto in disegni di legge appositi che marceranno in parallelo rispetto alla manovra.
Resta invariato l'articolo che dispone l'istituzione di due fondi da 9 miliardi per il reddito e di 6,7 miliardi (7 miliardi dal 2020) per le pensioni.
7 Desterà infine curiosità una misura che vuole incrociare agricoltura e demografia, con la concessione gratuita di alcuni terreni incolti (per un periodo non inferiore a 20 anni) ai nuclei familiari con terzo figlio (nato negli anni 2019, 2020, 2021), o ai giovani imprenditori agricoli che destineranno una quota societaria pari al 30% a questi nuclei familiari. A queste famiglie sarà anche concesso un mutuo fino a 200.000 euro (a tasso zero) per l'acquisto di una casa in prossimità del terreno assegnato.
Daniele Capezzone
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Riduci
Dopo la conferma del rating di S&P il differenziale scende a 297 (dai 309 di venerdì). Influisce pure il balzo dei rendimenti dei Bund legato ai guai della Merkel. Piazza Affari, con un +1,9%, è la migliore d'Europa. E «Repubblica» e soci si rimangiano gli anatemi.È la corsa a liberarsi degli Npl, imposta dalla Vigilanza europea, ad aver messo in difficoltà gli istituti: i guadagni sono stati limitati, il business lo hanno fatto altri. E i prestiti alle imprese? Rimasti al palo.Nell'ultima bozza aliquota fissa al 15% per le lezioni private. Alle famiglie numerose concessioni gratuite di campi da coltivare. Reddito e quota 100 in due ddl distinti.Lo speciale contiene tre articoliAlla fine il partito «forza spread» ha perso. Il tanto atteso, quasi invocato in certe redazioni, declassamento dell'Italia da parte di Standard & Poor's non c'è stato e ieri lo spread Btp-Bund è addirittura battuto in ritirata a 297,6 punti base, rispetto ai 309 di venerdì scorso.Lo schiaffo, dunque, non c'è stato. La settimana scorsa l'agenzia non ha abbassato il grado di affidabilità del Paese (mantenendolo a BBB) ma sono state riviste in maniera negativa le previsioni per il futuro (l'outlook), perché «il piano economico del governo rischia di indebolire le performance di crescita del Paese». Tanto era bastato però a quasi tutti i giornali, Repubblica e La Sampa in testa, a disegnare scenari apocalittici, come se il colosso Usa avesse di fatto bocciato il nostro Paese, cosa che invece non aveva fatto. Un ribaltamento della realtà che, però, con la realtà ha dovuto fare i conti ieri. E gli effetti sono stati tragicomici. Quegli stessi cantori di sventura hanno dovuto fare marcia indietro. Il sito di Repubblica, ad esempio, è paradigmatico dello «sdeng»: «S&P spinge lo spread al ribasso. Il mancato declassamento dell'Italia dà respiro ai nostri titoli di Stato». Insomma, i nostri becchini sono diventati magicamente i nostri salvatori. In tutto questo processo mediatico, inoltre, non si è poi considerato che lo spread altro che non è che un differenziale tra il decennale italiano e quello tedesco. In parole povere, le forze in gioco sono due, non una come molti hanno voluto far credere. Solo ieri mattina, ad esempio, i rendimenti dei titoli di Berlino hanno preso il volo (+10 punti) perché hanno scontato l'annuncio della cancelliera Angela Merkel di non rinnovare la corsa alla leadership della Cdu dopo la disfatta delle elezioni in Assia.Insomma, ieri chi ha tifato contro l'Italia ha perso. La decisione di S&P di non tagliare il rating dell'Italia «non cambia il nostro outlook negativo di medio termine sui titoli italiani», ma apre la strada per «un periodo di relativa tranquillità», ha sottolineato ieri James McCormick, esperto di NatWest Markets, secondo cui la scelta di S&P è stato «l'ultimo momento chiave del flusso di notizie atteso sull'Italia».Non solo il decennale italiano, inoltre, ha tirato un sospiro di sollievo. Nel corso della giornata di ieri, il Tesoro italiano ha collocato in asta sei miliardi di euro di Bot a sei mesi, con un tasso medio dello 0,159%, in discesa di 5 punti base rispetto allo 0,206 di fine settembre. Segnale che anche su durate più brevi c'è un po' più di serenità. Lo stesso clima di ottimismo ieri si è visto anche a Piazza Affari, dove si è registrato un aumento dell'1,91%, sempre grazie al verdetto di S&P: la piazza italiana è stata la migliore del continente. A beneficiarne sono state, come era largamente atteso, le banche: tutte con rialzi importanti. Ieri Banca Mps ha messo a segno un +7,62%, Banca Carige +8,7%, Banco Bpm +5,01%, Bper +4,41%, Intesa Sanpaolo +3,03%, Mediobanca +2,85%, Unicredit +4,32% e Unipol +3,53%.Non solo, ieri anche il titolo Fca ha visto buoni rialzi in scia alle indiscrezioni secondo le quali il governo cinese starebbe pensando di dimezzare le tariffe sulle importazioni di auto. Progressi ancora più evidenti si sono visti per Stm (+5,62%) e Cnh Industrial (+3,49%), mentre hanno registrato un segno meno Leonardo (-1,85%) e Moncler (-1,42%).Particolarmente bene anche Tim (+4,36%), titolo su cui Deutsche Bank ha confermato la raccomandazione positiva. Gli esperti evidenziano che il terzo trimestre sarà difficile per le compagnie telefoniche italiane, ma Telecom è meglio posizionata rispetto agli altri competitor. Acquisti pure su Atlantia (+0,91%). La società italiana, Acs e Hochtief hanno perfezionato l'accordo sottoscritto il 23 marzo per un investimento congiunto in Abertis Infraestructuras. In ascesa, tra gli altri titoli, Ansaldo Sts (+8,97%). Hitachi ha acquistato l'intera partecipazione di Elliot, pari al 31,794% del capitale, ad un prezzo unitario pari a 12,70 euro. Hitachi ha poi deciso di promuovere un'offerta pubblica di acquisto volontaria totalitaria sulla totalità delle azioni ordinarie di Ansaldo Sts. Infine, hanno brillato Clabo (+24,68%) e Isagro (+9,87%) mentre D'Amico (-13,01%) ha continuato a registrare nuovi minimi.Anche le altre Borse del Vecchio continente hanno chiuso in positivo, trainate da Piazza Affari. Londra è salita dell'1,74%, Francoforte dell'1,93%. Parigi, partita in ritardo a causa di un problema tecnico, cresce è comunque cresciuta dell'1,13%.Anche dall'altra parte dell'oceano, al momento della chiusura delle piazze europee, l'ottimismo non mancava. Intorno alle 17.30 ora italiana il Dow Jones era in crescita dello 0,29%, mentre l'S&P 500 viaggiava a quota + 0,6%. Solo il Nasdaq si è mostrato in leggera flessione dello 0,39%. Chi «remava» contro l'Italia, dunque, deve mettersi l'anima in pace. Dopo il verdetto di Standard & Poor's, almeno per un po', non ci dovrebbero essere grossi scogli all'orizzonte. La nave Italia ha passato la tempesta. Alla faccia di chi sperava che colasse a picco. Gianluca Baldini<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/schiaffo-ai-profeti-di-sventura-spread-giu-2616307636.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-svendita-dei-crediti-deteriorati-e-la-vera-maledizione-per-le-banche" data-post-id="2616307636" data-published-at="1765662647" data-use-pagination="False"> La svendita dei crediti deteriorati è la vera maledizione per le banche Dopo lo scampato pericolo del downgrade targato Standard & Poor's (l'agenzia di rating venerdì si è limitata infatti a tagliare l'outlook da «stabile» a «negativo») brillano i bancari a Piazza Affari. Quello di ieri è stato un rialzo generalizzato che ha coinvolto un po' tutti gli istituti, da Mps a Carige, a Banco Bpm passando per Ubi Banca, Mediobanca e Intesa Sanpaolo. Bene anche lo spread, che è tornato dopo ben due settimane sotto la soglia psicologica di 300 punti base. Proprio riferendosi allo spread, nella conferenza stampa di giovedì scorso il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, aveva avvertito che «se mi si chiede cosa si può fare riguardo alle banche, dato l'allargamento dello spread negli ultimi sei mesi, una prima risposta è ridurre lo spread». Non si può negare che lo spread rappresenti un fattore di stress per gli istituti di credito. Uno studio di Credit Suisse pubblicato qualche settimana fa prevede che un livello prolungato del differenziale superiore ai 400 punti «non è sostenibile». «Un ampliamento di 200 punti base da fine giugno (238 bps) ridurrebbe il Cet1 (l'indice di solidità patrimoniale delle banche, ndr) di 66 punti base in media, dal 12,53% a 11,87%», una variazione che farebbe «scattare aumenti di capitale», si legge. Lo spread, dunque, è diventato il nuovo feticcio da agitare in vista della prossima crisi bancaria. Come tutti i fenomeni, però, un'osservazione troppo ravvicinata rischia di indurre a conclusioni errate. Il sistema bancario italiano è arrivato già profondamente provato alle soglie di questa nuova possibile, imminente recessione. Basti pensare che, tra il 2012 e il 2013 l'erogazione di nuovi crediti è risultata negativa per ben quattro trimestri di seguito. La stretta creditizia si è abbattuta con tutta la sua forza sulle nostre imprese. Dato drammatico per eccellenza è quello dei fallimenti delle aziende, passati dai 12.300 del 2012 ai 15.300 del 2014. Ovviamente, l'impatto della Grande recessione si è fatto sentire anche in termini di qualità degli impieghi. Questa è una conseguenza piuttosto ovvia, dal momento che se diminuisce la capacità di rimborso delle imprese e delle famiglie è più facile che i finanziamenti finiscano in contenzioso. Il riflesso, come tutti sappiamo, è stato l'aumento vertiginoso dei crediti deteriorati (noti anche come non performing loans, o più brevemente Npl), il cui volume è quintuplicato in meno di un decennio. Lo stock di Npl, infatti, è passato dai 65 miliardi di euro del 2007 ai 341 miliardi del 2015. Ora, cosa ha pensato bene di fare il regolatore europeo, cioè il Meccanismo di vigilanza unico, in un contesto del genere? Anziché facilitare uno smaltimento graduale di questi crediti, ha pressato per una loro frettolosa (e molto meno remunerativa) riduzione. Come dimenticare gli innumerevoli discorsi di Danièle Nouy, capo della Vigilanza europea, per demonizzare l'enorme mole di crediti deteriorati in pancia alle banche italiane? La ragione principale addotta dagli euroburocrati è che le banche che possiedono molti Npl nei propri bilanci trovano più difficoltà nell'erogazione del credito. Fidandosi delle indicazioni del regolatore, molti istituti hanno perciò svenduto in fretta e furia i crediti problematici. Secondo uno studio di Banca d'Italia di aprile 2018, del quale La Verità ha dato conto pochi giorni dopo la sua pubblicazione, la correlazione tra Npl e mancata erogazione del credito è tutta da dimostrare. Non si spiegherebbe altrimenti come mai, a fronte della diminuzione dello stock di Npl, il credito faccia comunque fatica a riprendersi. Secondo l'ultimo rapporto Unimpresa, basato su dati diffusi da Banca d'Italia, nell'ultimo anno i prestiti delle banche alle imprese sono infatti diminuiti di oltre 45 miliardi di euro (-5,84%). Secondo il colosso di consulenza PwC, solo nel 2017 le cessioni di Npl sono state pari a 64 miliardi di euro, trainate «principalmente da alcune mega operazioni», concluse da pochi operatori specializzati. Un trend pienamente rispettato anche nel 2018, con circa 37 miliardi di transazioni nel primo semestre. La pressione normativa della Vigilanza sulle banche italiane, attuata anche con criteri più stringenti in materia di accantonamenti dei crediti, non ha ottenuto i risultati sperati dal punto di vista né dell'erogazione di nuovi crediti, né tanto meno della ripresa economica. Per contro, abbiamo assistito alla nascita di un mercato molto redditizio (quello degli Npl appunto) con rendimenti che, per gli operatori che riescono ad affacciarvisi, arrivano con facilità alla doppia cifra. A nulla sono serviti gli appelli alla calma di Banca d'Italia. «Vanno evitate politiche generalizzate di vendita, che condurrebbero di fatto a un indesiderabile trasferimento di risorse a danno delle banche italiane e in favore dei pochi investitori specializzati, in larga misura di origine estera», avvertiva a giugno del 2017 il vicedirettore generale della Banca d'Italia, Fabio Panetta. Parole rimaste inascoltate, nel mentre che a Francoforte cuoceva indisturbato lo spezzatino delle banche italiane. Antonio Grizzuti <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/schiaffo-ai-profeti-di-sventura-spread-giu-2616307636.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="flat-tax-ripetizioni-e-terre-ai-giovani" data-post-id="2616307636" data-published-at="1765662647" data-use-pagination="False"> Flat tax ripetizioni e terre ai giovani 81 pagine, 115 articoli: cresce molto, nell'ultima bozza in circolazione, la «cubatura» della manovra, che potrebbe approdare in commissione Bilancio alla Camera già stamattina. Ma questo accade ogni anno: nel caos «ferroviario» parlamentare, si sa che uno dei pochi treni ad arrivare con certezza (e in orario) in stazione è proprio la legge di bilancio, ed è quindi fatale che in quel ddl trovino posto sempre più vagoni. Ecco alcune novità. 1Le Regioni sono chiamate a un taglio dei vitalizi di consiglieri e presidenti, sulla scia di quanto fatto dalla Camera. Per farlo, hanno sei mesi di tempo. Se non lo faranno, sanzioni pesanti: taglio delle risorse statali nella misura del 30% per il 2019, salvaguardando comunque le voci come sanità, politiche sociali e trasporto pubblico locale. Dall'anno successivo, tagli lineari corrispondenti alla metà delle somme destinate nel 2018 ai vitalizi. Insomma, un poderoso incentivo a un intervento forte sui vitalizi. 2 Sulla cedolare secca da estendere al commercio, emergono i paletti che sarebbero stati decisi dal governo: la tassa al 21% sarà applicata agli immobili di categoria catastale C1 di «superficie fino a 600 mq, escluse le pertinenze». E inoltre deve trattarsi di nuovi contratti. La speranza è che questo regime sperimentale possa essere significativamente esteso nei prossimi anni. 3 Incremento del fondo per il Servizio sanitario nazionale, tema foriero di tensioni nelle ultime settimane. Il fondo arriverà a 114,4 miliardi, con previsioni di ulteriore crescita per gli anni successivi. Ma gli aumenti futuri saranno subordinati alla realizzazione di un nuovo «Patto per la salute» tra Stato e Regioni per ottimizzare servizi e costi. 4 Novità vera, la flat tax al 15% per ripetizioni scolastiche e lezioni private, con un potente incentivo all'emersione di attività molto spesso svolte in nero. Dal primo gennaio 2019, «i titolari di cattedre nelle scuole di ogni ordine e grado» potranno chiedere l'applicazione di «una imposta sostitutiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 15%, salva l'opzione per l'applicazione dell'imposta sul reddito nei modi ordinari». Quindi un'opportunità in più. 5 Arriva la misura pro eccellenze che era stata anticipata alla Verità dal sottosegretario Guido Guidesi. Si tratta di un bonus-occupazione per i giovani con carriere universitarie eccellenti, laureati under 30 o dottori di ricerca under 34. In pratica, il datore di lavoro che dovesse assumerli sarebbe esonerato dai contributi, ad eccezione dei premi e contributi Inail, per un anno al massimo e con un tetto di 8.000 euro. Lo sconto vale per le assunzioni a tempo indeterminato avvenute nel 2019. 6 Come La Verità aveva anticipato, le misure più corpose (quota 100 e reddito di cittadinanza) troveranno posto in disegni di legge appositi che marceranno in parallelo rispetto alla manovra. Resta invariato l'articolo che dispone l'istituzione di due fondi da 9 miliardi per il reddito e di 6,7 miliardi (7 miliardi dal 2020) per le pensioni. 7 Desterà infine curiosità una misura che vuole incrociare agricoltura e demografia, con la concessione gratuita di alcuni terreni incolti (per un periodo non inferiore a 20 anni) ai nuclei familiari con terzo figlio (nato negli anni 2019, 2020, 2021), o ai giovani imprenditori agricoli che destineranno una quota societaria pari al 30% a questi nuclei familiari. A queste famiglie sarà anche concesso un mutuo fino a 200.000 euro (a tasso zero) per l'acquisto di una casa in prossimità del terreno assegnato. Daniele Capezzone
iStock
Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Riduci
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Riduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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