
Il petrolio a 20 euro al barile sposta la speculazione sui cereali: l'Italia dipende dalle farine estere per il 70%. La Russia ha fermato le esportazioni per paura della carestia. I rincari riguardano tutti i tipi: da noi il consumo di riso bianco è aumentato del 43 per cento.Era il 9 luglio 1978 - una quarantina d'anni fa, ma pare un secolo! - e Sandro Pertini appena eletto presidente della Repubblica esortò: «L'Italia sia portatrice di pace; si svuotino gli arsenali, si colmino i granai contro la fame». Poteva immaginare che oggi si sarebbero svuotati i granai e riempiti fino a traboccare i serbatoi di petrolio? Di certo non s'aspettava che il rischio fame potesse incombere sugli italiani portatori di pace. Diventati, nostro malgrado, portatori di virus. La faccenda ora si fa seria, tanto. Con un moto di revanchismo si potrebbe dire che nei giorni della pandemia l'agricoltura prende il sopravvento su Wall Street. Ma non c'è da stare allegri. Anzi. Con il solito cinismo la finanza ha capito che più del motor (l'energia, le macchine, gli aerei fermi causa virus) poté il digiuno. Hanno smesso di scommettere sul greggio e puntano sul grano. Se n'è accorta - per dirla con Alberto Arbasino che ci ha appena lasciati - anche la casalinga di Voghera che armata di mascherina e pazienza va al supermercato e non trova la farina. È vero che nei giorni del virus la domanda di «doppio zero» è aumentata del 95%, ma non ci vuole 007 per capire che è partita una speculazione mondiale e rapace. Mentre il petrolio crolla sotto i venti dollari al barile (quello canadese di qualità scadente sta a 6.70, ed è prezzo virtuale perché nessuno lo vuole) le quotazioni del grano continuano a salire. La Coldiretti, con il presidente Ettore Prandini, già nei giorni scorsi ha segnalato che in Russia - diventata il granaio del mondo che per paura della carestia ha fermato le esportazioni - le quotazioni del frumento erano arrivate a 13.270 rubli contro un prezzo del greggio - prima voce dell'economia russa - a 12.850 rubli per tonnellata. Ma non è solo per via della guerra del greggio innescata dai russi che hanno tirato giù il prezzo e arabi che hanno alzato la produzione contro gli americani. L'Opec ha aumentato fino a 2,6 milioni di barili al giorno per mettere fuori gioco lo shale oil americano. Come si sa, gli Usa grazie alle estrazioni attraverso il crac delle pietre non solo sono autosufficienti, ma sono diventati esportatori di petrolio. Il fatto è che sotto un certo prezzo la «spremuta» di roccia non conviene. Il tetto è attorno ai 37 dollari al barile, ora stiamo alla metà. I russi e gli arabi, se l'America smette di estrarre, godono. Ma fino a un certo punto perché ora la crisi è diventata insostenibile per tutti. Donald Trump ha lanciato l'oli quantitative easing: compra 430.000 barili al giorno per sei mesi per evitare il crollo delle aziende di shale oil. Ma ora i serbatoi sono pieni e si cominciano ad avere prezzi negativi del greggio: si paga per stoccare il petrolio più di quanto non si ricava dalla vendita. E la capacità dei serbatoi è al limite perché non c'è domanda. Tutti sperano nella ripresa cinese, ma si sta fermando l'Europa. Buona parte delle compagnie americane rischiano di saltare (per Standard & Poor's gli shale oil bond sono titoli spazzatura), ma anche l'85% dei paesi Opec non regge mentre la Nigeria è già fuori mercato, così la Libia e rischia la Norvegia. Sono già stati fermati molti dei pozzi americani. Così la speculazione ha abbandonato l'(ex) oro nero e si è riversata sull'oro biondo, il grano, facendo schizzare in alto i prezzi. I Paesi produttori hanno bloccato le esportazioni: la Russia per prima, ma così ha fatto il Kazakistan mentre il Canada con i prezzi in rialzo fa di nuovo dumping sul grano duro. La crisi del petrolio diventa rischia di diventare pandemia alimentare: i rincari riguardano tutti i cereali. In Italia il consumo di riso bianco è aumentato del 43% in pochi giorni, i prezzi sono saliti: sul mercato mondiale Paesi esportatori come il Vietnam hanno bloccato la vendita. Temono la crisi alimentare. Lo stesso vale per il mais. Per l'Italia sono dolori. Siamo un Paese che ha abbandonato la cerealicoltura. Dipendiamo al 30% dall'estero per la fornitura di grano duro (quello per fare la pasta la cui domanda è cresciuta del 30%) ma di oltre il 70% per il grano tenero. Il pane, la pizza, i biscotti li facciamo con la farina straniera. E non ne abbiamo abbastanza. Lo dicono i prezzi. Il frumento sul mercato di Bologna sta a 225 euro a tonnellata, è schizzato in una settimana di 5 euro, la farine sono aumentate di 15 euro, il grano duro sfiora i 300 euro ed è al massimo delle quotazioni. L'aumento dei cereali per l'alimentazione umana - il record spetta al riso arrivato con l'Arborio a 815 euro a tonnellata con un balzo di 20 euro negli ultimi 5 giorni di contrattazione - si porta dietro l'aumento della soia, del granturco e degli sfarinati per sfamare gli animali. Siamo in una tenaglia terribile: economia ferma e prezzi dei beni primari in salita. Potremmo produrre di più. Certo, ma fino a ieri un cerealicoltore - sono 300.000 le aziende italiane - per pagarsi un caffè doveva vendere 5 chili di grano. L'Italia è forte nel grano duro (ma dopo gli accordi Ceta il Canada ci ha invaso facendo dumping sui prezzi): ne facciamo circa 4,1 milioni di tonnellate, ma andiamo malissimo nel grano tenero. Abbiamo perso anno dopo anno migliaia di ettari di frumento: ora siamo a meno di 2,8 milioni di tonnellate su 530.000 ettari. E non c'è da stare allegri perché il caldo invernale ha fatto crescere in modo anomalo le piante e le gelate di questi giorni le hanno distrutte. S'annuncia un crollo produttivo mentre i prezzi salgono. Così ci toccherà svuotare i granai, mentre i serbatoi del petrolio traboccano. E non è un bene.
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