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2021-06-03
«Ricreazione» Covid finita: nel 2022 torna l’austerità Ue
Valdis Dombrovskis e Paolo Gentiloni (Ansa)
Non c'era giorno migliore della festa della Repubblica per ricordare all'Italia che l'Europa non è cambiata. Finita la pandemia si torna al vocabolario di sempre, alle linee economiche che hanno contraddistinto un decennio a impronta sovietica e, soprattutto, si torna all'austerity. Valdis Dombrovskis, il vice presidente lettone, ha suonato la campanella. Un chiaro segnale che la «ricreazione da Covid» è finita.
Ieri l'Ue ha infatti pubblicato le raccomandazioni di primavera. Un termine romantico per indorare la pillola e sancire la fine della politica espansiva, nei fatti a partire già dal prossimo anno. La Commissione europea ha a parole confermato la sospensione del Patto di stabilità fino al 2023, ma ha sollecitato «gli Stati membri a mantenere politiche di sostegno all'economia nel 2021 e 2022 ed evitare un prematuro ritiro degli stimoli approntati durante la crisi innescata» dalla pandemia di Covid.
L'Italia, assieme a Cipro e alla Grecia, resta fra i Paesi «con squilibri macroeconomici eccessivi». Le vulnerabilità sono «legate all'alto debito e a una protratta dinamica di bassa produttività, che assieme alla bassa occupazione, rallentano la crescita potenziale nel medio periodo». Insomma, i mesi di lockdown non sono serviti nemmeno a Bruxelles. Non hanno dimostrato che le politiche attuate in precedenza non sono mai state all'altezza. Non sono mai state pensate per affrontare le crisi o qualunque evento non previsto dalla letteratura di Bruxelles. L'approccio della stessa Ue alla pandemia è stato fallimentare e ha portato il continente a scivolare in fondo alla classifica economica. L'ultimo nella corsa ai vaccini. L'ultimo nella corsa al rilancio. E l'ultimo nella capacità di comprensione delle dinamiche future: dall'inflazione alla protezione della filiera protettiva.
Così, nel documento iper burocratizzato la Commissione ha inserito tre raccomandazioni per il nostro Paese: utilizzare i fondi del Recovery per finanziare interventi aggiuntivi di stimolo per la ripresa; limitare la spesa corrente e mantenere una politica di bilancio prudente che assicuri sostenibilità nel medio termine; accelerare gli investimenti per rafforzare il potenziale di crescita.
Eppure stanno arrivando tempi duri. Il Vecchio continente è sempre più schiacciato tra Cina e Usa, la globalizzazione è su un binario morto. Avremmo sperato in un cambio di paradigma. Un nuovo modello di gestione, magari la capacità di avviare una battaglia per la sovranità, va bene anche quella della bandiera azzurra. Ma almeno un guanto di sfida alle superpotenze emergenti e un nuovo legame con l'America. Invece la solita solfa che ieri ha, inutile dirlo, sintetizzato perfettamente Paolo Gentiloni, il quale si è rivolto a Roma come se mai fosse stato premier. Ha spiegato che i Paesi con troppo debito come l'Italia dovranno cominciare a differenziare le politiche fiscali. Da un lato, la spesa per le infrastrutture. E il riferimento è esclusivamente ai progetti contenuti nel Recovery plan. Dall'altro, i tagli alla spesa corrente. Un modo gentile per spiegare al nostro Paese che già dalla prossima manovra andrà impostato un piano di rientro dei circa 800 miliardi che ogni anno il Paese va a destinare ai servizi, al welfare, alle pensioni e ai dipendenti pubblici. Tradotto in maniera ancora più semplice. Il budget destinato al Pnrr (nella speranza che i progetti vengano approvati) non si tocca, sul resto l'invito caloroso è a usare l'accetta. Pensioni, stipendi della Pa e prestazioni pubbliche sono di fatto già circondate da un cerchio rosso. A chi toccherà far partire i proiettili? Domanda retorica fino a un certo punto. Toccherà infatti a Mario Draghi prendere scelte forti. O fare il Mario Monti oppure dare seguito al suo discorso di fiducia all'Aula. Non solo la messa a terra del Pnrr (l'unica cosa che interessa all'Ue), ma anche l'avvio di una vera riforma fiscale e di nuove leggi che attirino gli investimenti. Senza fabbriche o aziende non ci sono politiche attive che tengano. Tali riforme non si possono fare se nel frattempo si taglia con l'accetta il welfare e si impoverisce ancor di più l'economia dei consumi interni. Una sfida frontale con Bruxelles ma soprattutto con Berlino. Ieri il presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, l'uomo che ha dettato la linea sui vaccini, è intervenuto sulle colonne del Ft. «Da ministro delle Finanze ero celebre per la frugalità, ma il mio obiettivo è sempre stato quello della sostenibilità», ha scritto per introdurre di nuovo il principio del moral hazard e l'idea di rafforzare l'unione monetaria e fiscale. «Ne ho discusso più volte con Draghi», ha aggiunto, «e lui era d'accordo. Mi auguro porti questi principi a Palazzo Chigi. Altrimenti ci vorrà una autorità Ue che forzi l'applicazione delle regole». Un messaggio pesantissimo che apre una frattura insanabile. A dicembre quando la legge finanziaria dovrà già fare i conti dei prossimi tre anni vedremo le scintille.
Bruxelles vuole la nuova Schengen: sui profughi niente redistribuzione
Una riforma dell'area Schengen, ma sui flussi di immigrati nessuna novità. La redistribuzione tra Paesi Ue resterà un miraggio. O meglio una decisione volontaria. È questo il succo dell'annuncio dato ieri dal presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen: «La libertà di circolare, vivere e lavorare in diversi Stati membri è una libertà cara agli europei. Uno dei più grandi successi dell'Ue. Diverse crisi e sfide ci hanno dimostrato che non possiamo dare per scontata Schengen». «Oggi», ha proseguito, «presentiamo una via da seguire che assicurerà che Schengen possa resistere alla prova del tempo, che assicurerà il libero flusso di persone, beni e servizi in qualsiasi circostanza per ricostruire le nostre economie e per farci emergere più forti insieme». Nel dettaglio, le novità riguardano innanzitutto la gestione delle frontiere esterne all'Unione europea: il controllo dei confini avverrà attraverso il lancio di un «corpo permanente della guardia di frontiera e costiera europea», con l'obiettivo di «rendere interoperabili i sistemi informativi per la gestione delle frontiere e della migrazione entro il 2023». In tutto questo, si prevede di «rendere digitali le domande di visto e i documenti di viaggio». Un secondo elemento di intervento riguarda poi il rafforzamento interno dell'area Schengen. In particolare, verranno introdotti «un codice di cooperazione per la polizia dell'Ue; l'aggiornamento del quadro “Prüm" per lo scambio di informazioni su Dna, impronte digitali e immatricolazione dei veicoli; e l'estensione dell'uso delle Advance passenger information ai voli intra Schengen». La Commissione ha infine auspicato un non meglio precisato «approccio comune» nella gestione migratoria, quando sarà adottato il Nuovo patto su migrazione e asilo. Un vago accenno che nasconde la realtà dei fatti. Il vertice tra i governi di Berlino e Parigi ha già mostrato che Emmanuel Macron e Angela Merkel non cederanno sul punto. Il presidente francese vorrebbe riaprire sulle quote solo in cambio della garanzia che le persone che arrivano dall'Italia saranno respinte in Italia. Una fonte citata da Repubblica parla apertamente di una redistribuzione del 30% tra Italia, Francia e Germania con l'esplicita richiesta che chi arriva passando per l'Italia possa essere rimandato nel Belpaese. In sostanza, una fregatura.
Ora, è senz'altro una buona notizia che Bruxelles pensi a come irrobustire i confini esterni dell'Unione. Così come ha un senso il rafforzamento della cooperazione tra le forze dell'ordine nazionali. Ciò detto, gli annunci della von der Leyen appaiono volutamente così vaghi sulla tutela delle frontiere meridionali e sulla spinosa questione migratoria. Un conto è infatti il controllo dei confini polacchi, un conto è quello delle coste del Sud Italia. Lo stesso fatto di aver citato, come abbiamo visto, il Nuovo patto su migrazione e asilo non è esattamente di buon auspicio per Roma. Quando questo patto fu proposto a settembre scorso, la Commissione europea diramò infatti un comunicato in cui si sosteneva: «Sebbene il nuovo sistema si fondi sulla cooperazione e su forme flessibili di sostegno inizialmente su base volontaria, saranno richiesti contributi più rigorosi nei periodi di pressione su singoli Stati membri, sulla base di una rete di sicurezza». Insomma, nessuna garanzia sui ricollocamenti: tanto che lo stesso ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, segnalò all'epoca come quel piano fosse insufficiente. Tra l'altro, proprio la settimana scorsa, la Johansson ha lasciato intendere che, su questo patto, non è ancora vicino un compromesso tra i vari Paesi membri.
Sembrano quindi preannunciarsi degli attriti tra Palazzo Chigi e Bruxelles, soprattutto dopo che Mario Draghi ha invocato un maggiore coinvolgimento dell'Unione europea in materia di gestione migratoria. Intervenendo lunedì sulla questione, ha non a caso affermato: «L'Italia continuerà a fare la sua parte in termini di risorse e capacità formative, ma serve un'azione dell'Ue determinata e rapida». Un'azione che tuttavia, almeno per ora, non si scorge all'orizzonte.
L’Ue verso Web tax e unione fiscale
Con l'accordo sulla trasparenza fiscale per le multinazionali l'Ue fa un primo passo verso la fine dei trattamenti agevolati per le grandi società che operano in più Paesi e verso l'introduzione dell'unione fiscale. In base all'intesa, raggiunta nella tarda serata di martedì tra i negoziatori del Parlamento europeo e del Consiglio, le multinazionali e le loro controllate che realizzino un fatturato annuo di oltre 750 milioni di euro, e che siano attive in diversi Paesi, dovranno dichiarare al pubblico e alle autorità fiscali quante tasse pagano in ognuno dei 27 Stati membri e nei cosiddetti paradisi fiscali inseriti in un apposito elenco. La misura era rimasta ferma per cinque anni.
«Si ritiene che l'elusione dell'imposta sulle società e la pianificazione fiscale aggressiva da parte delle grandi multinazionali privino i Paesi dell'Ue di oltre 50 miliardi di euro di entrate all'anno», ha fatto sapere Pedro Siza Vieira, il ministro portoghese per l'Economia e la transizione digitale, a nome della presidenza del Consiglio europeo. «Queste pratiche sono agevolate dall'assenza di qualsiasi obbligo per le grandi multinazionali di dichiarare dove realizzano i loro profitti e dove pagano le tasse nell'Ue Paese per Paese. In un momento in cui i nostri cittadini stanno lottando per superare gli effetti della crisi pandemica, è più cruciale che mai richiedere una trasparenza finanziaria significativa riguardo a tali pratiche. È nostro dovere garantire che tutti gli attori economici contribuiscano con la loro giusta quota alla ripresa», ha aggiunto Siza Vieira.
In base al testo concordato, le imprese multinazionali o autonome con un fatturato consolidato totale superiore a 750 milioni di euro in ciascuno degli ultimi due esercizi finanziari consecutivi, con sede nell'Ue o al di fuori, devono «divulgare al pubblico le informazioni sull'imposta sul reddito in ciascuno Stato membro, nonché in ciascun Paese terzo compreso nell'elenco Ue delle giurisdizioni non cooperative a fini fiscali». Le informazioni da divulgare sono contenute in un elenco completo, al fine, sottolinea una nota, di «evitare oneri amministrativi sproporzionati per le società coinvolte»; la segnalazione avverrà entro 12 mesi dalla data di chiusura del bilancio dell'esercizio in esame.
Per quanto le autorità europee abbiano parlato di un «significativo passo in avanti», diverse organizzazioni non governative hanno definito l'accordo insufficiente. «La proposta di legislazione così com'è è praticamente priva di senso, perché obbliga le multinazionali a dichiarare le tasse che pagano solo in Ue e nell'elenco, molto lacunoso, dei paradisi fiscali: questo significa che le operazioni effettuate in gran parte del mondo sfuggiranno comunque», ha osservato Elena Gaita di Transparency international, secondo la quale un altro punto controverso riguarda la clausola che prevede la possibilità di non diffondere informazioni che le società «considerino pregiudizievoli per la loro posizione commerciale». Si tratta comunque di un primo approccio concreto al problema della disparità di trattamento fiscale all'interno dell'Ue, di cui godono multinazionali come Amazon: nel 2020 il colosso di Jeff Bezos, nonostante abbia realizzato vendite record per 44 miliardi di euro, non pagherà tasse in Europa perché ha sede in Lussemburgo, Paese in cui ha dichiarato perdite per 1,2 miliardi.
Una notizia che ha riportato in auge il dibattito sull'introduzione di una tassa europea sui guadagni delle grandi multinazionali del Web, un'ipotesi che ora sembra più vicina e che potrebbe preludere alla nascita di un regime fiscale unico. Anche perché questa imposta è una delle principali fonti di gettito con cui Bruxelles intende finanziare il Recovery fund.
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Mentre benedice il Recovery, Paolo Gentiloni, su ordine di Valdis Dombrovskis, chiede di ridurre il debito dal 2022. Ovvero di tagliare welfare e pensioni. Mario Draghi ha in mente un modello diverso: riforma fiscale e più investimenti. E Wolfgang Schäuble già minaccia il commissariamento.Annuncio della Commissione. Sui ricollocamenti dei migranti si parla ancora di schema volontario.Le aziende sopra i 750 milioni di fatturato dovranno dire quante imposte pagano e dove. Il vero obiettivo è togliere la sovranità tributaria ai singoli Paesi e finanziare il Pnrr.Lo speciale contiene tre articoli.Non c'era giorno migliore della festa della Repubblica per ricordare all'Italia che l'Europa non è cambiata. Finita la pandemia si torna al vocabolario di sempre, alle linee economiche che hanno contraddistinto un decennio a impronta sovietica e, soprattutto, si torna all'austerity. Valdis Dombrovskis, il vice presidente lettone, ha suonato la campanella. Un chiaro segnale che la «ricreazione da Covid» è finita. Ieri l'Ue ha infatti pubblicato le raccomandazioni di primavera. Un termine romantico per indorare la pillola e sancire la fine della politica espansiva, nei fatti a partire già dal prossimo anno. La Commissione europea ha a parole confermato la sospensione del Patto di stabilità fino al 2023, ma ha sollecitato «gli Stati membri a mantenere politiche di sostegno all'economia nel 2021 e 2022 ed evitare un prematuro ritiro degli stimoli approntati durante la crisi innescata» dalla pandemia di Covid. L'Italia, assieme a Cipro e alla Grecia, resta fra i Paesi «con squilibri macroeconomici eccessivi». Le vulnerabilità sono «legate all'alto debito e a una protratta dinamica di bassa produttività, che assieme alla bassa occupazione, rallentano la crescita potenziale nel medio periodo». Insomma, i mesi di lockdown non sono serviti nemmeno a Bruxelles. Non hanno dimostrato che le politiche attuate in precedenza non sono mai state all'altezza. Non sono mai state pensate per affrontare le crisi o qualunque evento non previsto dalla letteratura di Bruxelles. L'approccio della stessa Ue alla pandemia è stato fallimentare e ha portato il continente a scivolare in fondo alla classifica economica. L'ultimo nella corsa ai vaccini. L'ultimo nella corsa al rilancio. E l'ultimo nella capacità di comprensione delle dinamiche future: dall'inflazione alla protezione della filiera protettiva. Così, nel documento iper burocratizzato la Commissione ha inserito tre raccomandazioni per il nostro Paese: utilizzare i fondi del Recovery per finanziare interventi aggiuntivi di stimolo per la ripresa; limitare la spesa corrente e mantenere una politica di bilancio prudente che assicuri sostenibilità nel medio termine; accelerare gli investimenti per rafforzare il potenziale di crescita. Eppure stanno arrivando tempi duri. Il Vecchio continente è sempre più schiacciato tra Cina e Usa, la globalizzazione è su un binario morto. Avremmo sperato in un cambio di paradigma. Un nuovo modello di gestione, magari la capacità di avviare una battaglia per la sovranità, va bene anche quella della bandiera azzurra. Ma almeno un guanto di sfida alle superpotenze emergenti e un nuovo legame con l'America. Invece la solita solfa che ieri ha, inutile dirlo, sintetizzato perfettamente Paolo Gentiloni, il quale si è rivolto a Roma come se mai fosse stato premier. Ha spiegato che i Paesi con troppo debito come l'Italia dovranno cominciare a differenziare le politiche fiscali. Da un lato, la spesa per le infrastrutture. E il riferimento è esclusivamente ai progetti contenuti nel Recovery plan. Dall'altro, i tagli alla spesa corrente. Un modo gentile per spiegare al nostro Paese che già dalla prossima manovra andrà impostato un piano di rientro dei circa 800 miliardi che ogni anno il Paese va a destinare ai servizi, al welfare, alle pensioni e ai dipendenti pubblici. Tradotto in maniera ancora più semplice. Il budget destinato al Pnrr (nella speranza che i progetti vengano approvati) non si tocca, sul resto l'invito caloroso è a usare l'accetta. Pensioni, stipendi della Pa e prestazioni pubbliche sono di fatto già circondate da un cerchio rosso. A chi toccherà far partire i proiettili? Domanda retorica fino a un certo punto. Toccherà infatti a Mario Draghi prendere scelte forti. O fare il Mario Monti oppure dare seguito al suo discorso di fiducia all'Aula. Non solo la messa a terra del Pnrr (l'unica cosa che interessa all'Ue), ma anche l'avvio di una vera riforma fiscale e di nuove leggi che attirino gli investimenti. Senza fabbriche o aziende non ci sono politiche attive che tengano. Tali riforme non si possono fare se nel frattempo si taglia con l'accetta il welfare e si impoverisce ancor di più l'economia dei consumi interni. Una sfida frontale con Bruxelles ma soprattutto con Berlino. Ieri il presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, l'uomo che ha dettato la linea sui vaccini, è intervenuto sulle colonne del Ft. «Da ministro delle Finanze ero celebre per la frugalità, ma il mio obiettivo è sempre stato quello della sostenibilità», ha scritto per introdurre di nuovo il principio del moral hazard e l'idea di rafforzare l'unione monetaria e fiscale. «Ne ho discusso più volte con Draghi», ha aggiunto, «e lui era d'accordo. Mi auguro porti questi principi a Palazzo Chigi. Altrimenti ci vorrà una autorità Ue che forzi l'applicazione delle regole». Un messaggio pesantissimo che apre una frattura insanabile. A dicembre quando la legge finanziaria dovrà già fare i conti dei prossimi tre anni vedremo le scintille.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ricreazione-covid-2022-austerita-ue-2653211311.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="bruxelles-vuole-la-nuova-schengen-sui-profughi-niente-redistribuzione" data-post-id="2653211311" data-published-at="1622665160" data-use-pagination="False"> Bruxelles vuole la nuova Schengen: sui profughi niente redistribuzione Una riforma dell'area Schengen, ma sui flussi di immigrati nessuna novità. La redistribuzione tra Paesi Ue resterà un miraggio. O meglio una decisione volontaria. È questo il succo dell'annuncio dato ieri dal presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen: «La libertà di circolare, vivere e lavorare in diversi Stati membri è una libertà cara agli europei. Uno dei più grandi successi dell'Ue. Diverse crisi e sfide ci hanno dimostrato che non possiamo dare per scontata Schengen». «Oggi», ha proseguito, «presentiamo una via da seguire che assicurerà che Schengen possa resistere alla prova del tempo, che assicurerà il libero flusso di persone, beni e servizi in qualsiasi circostanza per ricostruire le nostre economie e per farci emergere più forti insieme». Nel dettaglio, le novità riguardano innanzitutto la gestione delle frontiere esterne all'Unione europea: il controllo dei confini avverrà attraverso il lancio di un «corpo permanente della guardia di frontiera e costiera europea», con l'obiettivo di «rendere interoperabili i sistemi informativi per la gestione delle frontiere e della migrazione entro il 2023». In tutto questo, si prevede di «rendere digitali le domande di visto e i documenti di viaggio». Un secondo elemento di intervento riguarda poi il rafforzamento interno dell'area Schengen. In particolare, verranno introdotti «un codice di cooperazione per la polizia dell'Ue; l'aggiornamento del quadro “Prüm" per lo scambio di informazioni su Dna, impronte digitali e immatricolazione dei veicoli; e l'estensione dell'uso delle Advance passenger information ai voli intra Schengen». La Commissione ha infine auspicato un non meglio precisato «approccio comune» nella gestione migratoria, quando sarà adottato il Nuovo patto su migrazione e asilo. Un vago accenno che nasconde la realtà dei fatti. Il vertice tra i governi di Berlino e Parigi ha già mostrato che Emmanuel Macron e Angela Merkel non cederanno sul punto. Il presidente francese vorrebbe riaprire sulle quote solo in cambio della garanzia che le persone che arrivano dall'Italia saranno respinte in Italia. Una fonte citata da Repubblica parla apertamente di una redistribuzione del 30% tra Italia, Francia e Germania con l'esplicita richiesta che chi arriva passando per l'Italia possa essere rimandato nel Belpaese. In sostanza, una fregatura. Ora, è senz'altro una buona notizia che Bruxelles pensi a come irrobustire i confini esterni dell'Unione. Così come ha un senso il rafforzamento della cooperazione tra le forze dell'ordine nazionali. Ciò detto, gli annunci della von der Leyen appaiono volutamente così vaghi sulla tutela delle frontiere meridionali e sulla spinosa questione migratoria. Un conto è infatti il controllo dei confini polacchi, un conto è quello delle coste del Sud Italia. Lo stesso fatto di aver citato, come abbiamo visto, il Nuovo patto su migrazione e asilo non è esattamente di buon auspicio per Roma. Quando questo patto fu proposto a settembre scorso, la Commissione europea diramò infatti un comunicato in cui si sosteneva: «Sebbene il nuovo sistema si fondi sulla cooperazione e su forme flessibili di sostegno inizialmente su base volontaria, saranno richiesti contributi più rigorosi nei periodi di pressione su singoli Stati membri, sulla base di una rete di sicurezza». Insomma, nessuna garanzia sui ricollocamenti: tanto che lo stesso ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, segnalò all'epoca come quel piano fosse insufficiente. Tra l'altro, proprio la settimana scorsa, la Johansson ha lasciato intendere che, su questo patto, non è ancora vicino un compromesso tra i vari Paesi membri. Sembrano quindi preannunciarsi degli attriti tra Palazzo Chigi e Bruxelles, soprattutto dopo che Mario Draghi ha invocato un maggiore coinvolgimento dell'Unione europea in materia di gestione migratoria. Intervenendo lunedì sulla questione, ha non a caso affermato: «L'Italia continuerà a fare la sua parte in termini di risorse e capacità formative, ma serve un'azione dell'Ue determinata e rapida». Un'azione che tuttavia, almeno per ora, non si scorge all'orizzonte. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ricreazione-covid-2022-austerita-ue-2653211311.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="lue-verso-web-tax-e-unione-fiscale" data-post-id="2653211311" data-published-at="1622665160" data-use-pagination="False"> L’Ue verso Web tax e unione fiscale Con l'accordo sulla trasparenza fiscale per le multinazionali l'Ue fa un primo passo verso la fine dei trattamenti agevolati per le grandi società che operano in più Paesi e verso l'introduzione dell'unione fiscale. In base all'intesa, raggiunta nella tarda serata di martedì tra i negoziatori del Parlamento europeo e del Consiglio, le multinazionali e le loro controllate che realizzino un fatturato annuo di oltre 750 milioni di euro, e che siano attive in diversi Paesi, dovranno dichiarare al pubblico e alle autorità fiscali quante tasse pagano in ognuno dei 27 Stati membri e nei cosiddetti paradisi fiscali inseriti in un apposito elenco. La misura era rimasta ferma per cinque anni. «Si ritiene che l'elusione dell'imposta sulle società e la pianificazione fiscale aggressiva da parte delle grandi multinazionali privino i Paesi dell'Ue di oltre 50 miliardi di euro di entrate all'anno», ha fatto sapere Pedro Siza Vieira, il ministro portoghese per l'Economia e la transizione digitale, a nome della presidenza del Consiglio europeo. «Queste pratiche sono agevolate dall'assenza di qualsiasi obbligo per le grandi multinazionali di dichiarare dove realizzano i loro profitti e dove pagano le tasse nell'Ue Paese per Paese. In un momento in cui i nostri cittadini stanno lottando per superare gli effetti della crisi pandemica, è più cruciale che mai richiedere una trasparenza finanziaria significativa riguardo a tali pratiche. È nostro dovere garantire che tutti gli attori economici contribuiscano con la loro giusta quota alla ripresa», ha aggiunto Siza Vieira. In base al testo concordato, le imprese multinazionali o autonome con un fatturato consolidato totale superiore a 750 milioni di euro in ciascuno degli ultimi due esercizi finanziari consecutivi, con sede nell'Ue o al di fuori, devono «divulgare al pubblico le informazioni sull'imposta sul reddito in ciascuno Stato membro, nonché in ciascun Paese terzo compreso nell'elenco Ue delle giurisdizioni non cooperative a fini fiscali». Le informazioni da divulgare sono contenute in un elenco completo, al fine, sottolinea una nota, di «evitare oneri amministrativi sproporzionati per le società coinvolte»; la segnalazione avverrà entro 12 mesi dalla data di chiusura del bilancio dell'esercizio in esame. Per quanto le autorità europee abbiano parlato di un «significativo passo in avanti», diverse organizzazioni non governative hanno definito l'accordo insufficiente. «La proposta di legislazione così com'è è praticamente priva di senso, perché obbliga le multinazionali a dichiarare le tasse che pagano solo in Ue e nell'elenco, molto lacunoso, dei paradisi fiscali: questo significa che le operazioni effettuate in gran parte del mondo sfuggiranno comunque», ha osservato Elena Gaita di Transparency international, secondo la quale un altro punto controverso riguarda la clausola che prevede la possibilità di non diffondere informazioni che le società «considerino pregiudizievoli per la loro posizione commerciale». Si tratta comunque di un primo approccio concreto al problema della disparità di trattamento fiscale all'interno dell'Ue, di cui godono multinazionali come Amazon: nel 2020 il colosso di Jeff Bezos, nonostante abbia realizzato vendite record per 44 miliardi di euro, non pagherà tasse in Europa perché ha sede in Lussemburgo, Paese in cui ha dichiarato perdite per 1,2 miliardi. Una notizia che ha riportato in auge il dibattito sull'introduzione di una tassa europea sui guadagni delle grandi multinazionali del Web, un'ipotesi che ora sembra più vicina e che potrebbe preludere alla nascita di un regime fiscale unico. Anche perché questa imposta è una delle principali fonti di gettito con cui Bruxelles intende finanziare il Recovery fund.
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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