2022-05-22
Dopo Azov, Putin al bivio: fermarsi o avanzare? Johnson si mette l’elmetto
Londra darà armi alla Moldavia per difendersi da Vladimir Putin. Mossa in linea col protagonismo britannico post Brexit, volto a smontare le previsioni nefaste degli europeisti. E a creare un corridoio di influenza politica che parte dai Paesi nordici e arriva all’Est Europa.L’annuncio (con titolo in prima pagina sul Telegraph di ieri) l’ha fatto il ministro degli Esteri del Regno Unito, Liz Truss, una donna che è una delle figure forti del governo di Boris Johnson: «Daremo alla Moldavia le armi per fermare Vladimir Putin». La Truss ha esordito esponendo la sua tesi: «Putin è stato assolutamente chiaro a proposito delle sue ambizioni di creare una greater Russia». «E - ha proseguito la Truss - il solo fatto che i suoi tentativi di prendere Kiev non abbiano avuto successo non significa che egli abbia dismesso queste ambizioni». Di qui la scelta: la Gran Bretagna intende fornire armamenti moderni alla Moldavia per proteggerla dalla minaccia posta dalla Russia. «Vorrei vedere la Moldavia equipaggiata secondo gli standard Nato», ha aggiunto la Foreign Secretary. «Questa è una discussione che avremo con i nostri alleati». Ai fini interni della politica britannica, è rilevante anche un’altra risposta della Truss, quella in cui si è definita una «low tax conservative», cioè una conservatrice che vuole tasse basse. E si tratta di un tasto delicato perché, se i Tories avranno problemi alle elezioni generali, essi verranno proprio dalla mancata riduzione fiscale che era stata promessa, con molti elettori conservatori che invece si lamentano per una certa attitudine dirigista del governo Johnson. Ma restiamo sul punto principale: non c’è alcun dubbio sul fatto che l’annuncio britannico relativo alla volontà di armare la Moldavia viaggi in senso assai diverso - si può ben dire: opposto - rispetto al piano di pace che il governo italiano, per iniziativa di Mario Draghi e Luigi Di Maio, sta facendo circolare nelle sedi internazionali. Si contrappongono due linee: da un lato, chi ritiene (come mostra di fare il governo di Roma) che già questo sia il momento per ottenere un cessate il fuoco, e conseguentemente avviare un percorso negoziale tra Russia e Ucraina; dall’altro, chi (come il governo di Londra) ritiene che il momento non sia giunto, che Putin debba ancora essere indebolito, e comunque vada messo in condizione di non minacciare più - neanche solo potenzialmente - altri paesi. In modo freddamente fattuale, giova ricordare che la Moldavia non è membro della Nato (dunque non gode di quell’ombrello militare), e di fatto è come se non avesse difesa propria (ha un esercito di pochissime migliaia di effettivi, con armi vetuste di epoca sovietica). Di più: c’è un complicato e discusso territorio, la Transnistria, con connotazioni separatiste e filorusse, che - al minimo incidente, e le avvisaglie non mancano - potrebbe trasformarsi in una sorta di «Donbass moldavo», a somiglianza dello schema che abbiamo ben conosciuto in Ucraina. Non solo: esistono spinte separatiste alimentate da Mosca anche nella regione della Gagauzia, e pure in questo caso alcuni analisti evocano il rischio potenziale di uno «scenario simil-Crimea». E se si aggiunge il fatto che la Moldavia è guidata dalla presidente Maia Sandu, filo-Occidente e di centrodestra, che ha vinto le elezioni presidenziali nel dicembre del 2020 e le legislative nel luglio del 2021 battendo proprio un candidato e formazioni politiche socialcomuniste e filorusse, si comprende la oggettiva delicatezza del quadro, nonché il rapporto teso tra Chisinau e Mosca.Ma torniamo a Londra e alle spiegazioni delle mosse di Johnson e della Truss. Alcuni criticheranno pesantemente la linea britannica secondo argomenti ben noti: così si sabota la pace; così si vanifica un possibile ruolo europeo; così si punta a umiliare Putin; così il Regno Unito assume una postura di durezza eccessiva non funzionale a stemperare le ostilità; così Londra non tiene conto dei problemi energetici dei Paesi Ue, dipendenti dal gas russo. E si tratta oggettivamente di argomenti che hanno un peso. E tuttavia esistono due argomenti opposti, che invece militano a favore della linea Uk. Il primo ha a che fare con la storica nettezza britannica contro gli autocrati: si pensi al 1940 e all’atteggiamento di Winston Churchill verso Adolf Hitler. Insomma, storicamente il Regno Unito ritiene che l’appeasement non sia una buona opzione. Il secondo fattore ha a che fare con il protagonismo britannico post Brexit, che è insieme economico (con una raffica di accordi commerciali siglati in mezzo mondo senza doversi muovere in blocco con Bruxelles) e geostrategico-militare. Londra non è al seguito degli Stati Uniti, in questo senso. Semmai, cammina con ancora maggior decisione e con una sua strategia: è quella di una Global Britain, e si tratta di una poderosa risposta a quanti (eurolirici e non solo) si erano fatti beffe di Brexit immaginando una Gran Bretagna isolata e marginale dopo il referendum del 2016. E invece, ovviamente, sta avvenendo esattamente il contrario. Dal 24 febbraio scorso, Londra ha due obiettivi: nell’immediato, difendere l’Ucraina; in prospettiva, costruire un corridoio di influenza politica e strategica (che potremmo definire: derussificato e degermanizzato) che va dai Paesi scandinavi (non a caso, al di là della richiesta di Svezia e Finlandia di ingresso nella Nato, Johnson ha subito siglato accordi di mutua difesa con Stoccolma ed Helsinki) a quelli baltici, e che poi transita dalla Polonia alla Repubblica Ceca, dalla Slovacchia alla Romania, e arriva fino all’Ucraina e alla Moldavia. È un aspetto della Global Britain, e l’Ue farebbe bene a riflettere (anche sui suoi errori di sottovalutazione di Brexit), prima di abbandonarsi all’anglofobia e alle invettive.