
Il governo Draghi si era presentato come l'esecutivo che avrebbe finalmente aiutato genitori e figli. Ma i fatti lo smentiscono. Tutti i capitoli dell'ennesimo fallimento.Va detto con chiarezza: il governo Draghi si era presentato come particolarmente attento ai numerosi e pesanti problemi che gravano sulle famiglie italiane, in particolare quelle numerose e con disabilità, e oggi ci troviamo di fronte al deludente evento della montagna che ha partorito il topolino. L'assegno unico universale (Auu) per le famiglie con figli, introdotto con la legge delega 46 del 1° aprile 2021, è certamente una grossa novità nel panorama della politica familiare italiana, soprattutto sul piano formale, molto meno - purtroppo - sul piano sostanziale. Con esso si propone un quadro di semplificazione nell'erogazione di contributi statali, con l'annullamento di tutte le provvidenze finora messe in campo: detrazioni fiscali, assegni famigliari, assegno al terzo figlio, assegno per famiglie numerose, «bonus mamma» e «bonus bebè». Una novità certamente positiva sta nel fatto che l'assegno andrà anche ai lavoratori autonomi che, fino ad oggi, hanno usufruito solo di detrazioni fiscali, ma non di assegni familiari. Ciò significa però che le famiglie beneficiarie passano da 4,2 milioni a 6,6 milioni e ciò comporta un finanziamento adeguato. E qui cominciano i problemi, perché - come assai spesso accade - non è tutto oro quel che luccica. Alla prova dei fatti, le entusiastiche dichiarazioni di inizio corsa sono state pesantemente ridimensionate con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto ponte 79/2021 che delinea il quadro normativo entro cui funzionerà il nuovo regime di misure a sostegno della natalità e, quindi, della famiglia.I fondi messi in campo sono evidentemente insufficienti: nella legge di bilancio vengono stanziati 6 miliardi in più rispetto agli attuali 15, che non garantiscono l'effettiva copertura della spesa necessaria. Sulla base di questi numeri, autorevoli agenzie di ricerca - quali Arel, Fondazione Gorrieri, Alleanza per l'infanzia - hanno rilevato che circa 1,35 milioni di famiglie riceveranno un assegno inferiore alle prestazioni vigenti. Anche l'Istat ha redatto una simulazione da cui risulta che il 29,7% delle famiglie sarà penalizzato, in particolare quelle numerose e con lavoro dipendente. Così, purtroppo, ci troviamo di fronte a una doccia fredda che smorza amaramente i primi entusiastici commenti. In primis, la delusione circa la sostanza dell'assegno: 167,50 euro al mese per ciascun figlio minorenne (217,80 dal terzo figlio) per le famiglie sotto la soglia di povertà di 7.000 euro annui; 161 euro per figlio minorenne e 91 euro per figlio maggiorenne con reddito fino a 30.000 euro; 30 euro al mese (40 dal terzo figlio) per le famiglie con Isee fra 40.000 e 50.000 euro; nessun sussidio oltre i 50.000 euro. Per i figli disabili, la maggiorazione è di 50 euro al mese. Nelle 11 pagine allegate al decreto, si quantifica l'importo dell'assegno per scaglioni Isee differenziati di 100 euro in 100 euro, con differenze progressive di pochi centesimi da uno scaglione all'altro, determinati con ragionieristica pignoleria. Prescindendo dall'allucinante burocrazia che sta attorno alla determinazione dell'Isee, che oltretutto assegna poco peso ai figli dopo il primo, è bene ricordare che quel parametro non tiene conto esclusivamente del reddito, ma anche del patrimonio: ciò significa che il semplice possesso della casa di abitazione fa elevare considerevolmente l'Isee, superando quella soglia di 36.000 euro considerata limite per individuare famiglie bisognose di agevolazioni. A questo proposito, un aspetto certamente critico è rappresentato è rappresentato dall'abolizione delle detrazioni fiscali per figli a carico, anche se si tenta di addolcire questa norma sostenendo che essa deve essere letta «nel quadro di una più ampia riforma del sistema fiscale». Di cui si parla da tempo immemorabile, senza mai prenderla seriamente in mano. L'abolizione delle detrazioni fiscali, in assenza di una tassazione su base familiare (il tanto declamato e mai attuato «quoziente familiare») crea forti criticità nei nuclei famigliari con figli, in contrasto con lo stesso articolo 53 (equità fiscale e capacità contributiva) della nostra Costituzione. Senza il quoziente famigliare, la famiglia italiana viene penalizzata quanto più è numerosa, con aliquote crescenti su quote di reddito non destinate ad agi o lussi, bensì a coprire bisogni elementari dei figli, in palese contraddizione anche con l'articolo 31 della Costituzione che invoca un «particolare riguardo per le famiglie numerose». Per evitare questo danno, la soluzione migliore è certamente prevedere una deduzione dall'imponibile pari a coprire il costo del mantenimento di ogni figlio, come del resto accade in numerosi Paesi europei che utilizzano il cosiddetto «splitting», cioè il quoziente familiare. È sconcertante che, negando il quoziente familiare, la famiglia numerosa venga di fatto considerata a priori una famiglia «ricca», che può permettersi il «lusso» di fare figli, applicando incredibilmente a essa l'identico criterio delle detrazioni edilizie, ove non si tiene conto del numero di immobili che uno possiede. Il vero ricco (con numerosi immobili) tutelato e agevolato, il «povero» (con figli numerosi) che incassa oltre alla beffa, il danno. Eppure - ma forse siamo solo ingenui romantici - vogliamo continuare a credere che l'investimento in figli, nella loro cura ed educazione, è una spesa meritoria e virtuosa, almeno quanto (ma pensiamo molto di più) delle ristrutturazioni edilizie, del rifacimento dei giardini, degli interventi per la transizione ecologica e dei finanziamenti per i monopattini. C'è un grande equivoco di fondo, senza rimuovere il quale l'inverno demografico del nostro Paese si farà sempre più gelido: considerare le politiche per la famiglia un capitolo di welfare, di puro assistenzialismo, piuttosto che un grande e lungimirante investimento per l'oggi e, ancora di più, per il futuro.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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