2025-09-20
«Dai nostri artigiani alle passerelle. Guardando al futuro»
Antonio Quirici e Diego Dolcini (iStock)
Il presidente del consorzio Cuoio di Toscana Antonio Quirici,: «La tradizione non è qualcosa di immobile: noi la sposiamo con l’innovazione».Nel cuore della tradizione manifatturiera italiana, Cuoio di Toscana rappresenta da quarant’anni un’eccellenza assoluta nel panorama del cuoio conciato al vegetale. Si tratta di un consorzio che riunisce le principali concerie della Toscana specializzate nella produzione di fondi in cuoio di altissima qualità, utilizzati dai più prestigiosi brand della moda mondiale. Un marchio che unisce artigianalità, sostenibilità, innovazione e Made in Italy. In occasione del 40° anniversario, Cuoio di Toscana partecipa alla Milano Fashion Week con un evento speciale dal titolo evocativo: «Ri-nascimento», un momento di celebrazione ma anche di visione verso il futuro. Al centro della scena, l’anteprima di Opaka, una creazione esclusiva nata dalla collaborazione con il celebre designer Diego Dolcini, simbolo di eleganza, ricerca e dialogo tra arte e materia. Ne parliamo con Antonio Quirici, presidente del consorzio, per ripercorrere la storia di questa realtà simbolo del saper fare toscano, ma anche per scoprire i significati profondi di questa nuova tappa.Cuoio di Toscana celebra 40 anni di attività. Come è nato il consorzio e qual è stato l’obiettivo iniziale che lo ha ispirato? «Nel 1984 alcune aziende toscane hanno voluto unire le forze per tutelare e promuovere il valore del cuoio, un materiale nobile che affonda le sue radici nella nostra tradizione artigiana. L’obiettivo iniziale era chiaro: dare voce a un intero distretto produttivo, garantire qualità, trasparenza e riconoscibilità, e allo stesso tempo salvaguardare un saper fare che è parte integrante del patrimonio culturale italiano».Cuoio di Toscana è diventato sinonimo di qualità e sostenibilità. Quali sono i valori fondanti che vi hanno guidato in questi decenni? «I nostri valori fondanti sono tre: eccellenza, sostenibilità e innovazione. Lavoriamo solo con materiali naturali, realizzati nel pieno rispetto dell’ambiente e delle persone. Crediamo nella forza della tradizione, ma con lo sguardo sempre rivolto al futuro: significa custodire tecniche millenarie e, allo stesso tempo, adottare soluzioni innovative che garantiscano comfort, durabilità e rispetto per il pianeta».Il vostro evento «Ri-nascimento», durante la Fashion Week di Milano, ha un titolo evocativo. Cosa rappresenta per voi questo «nuovo inizio»?«“Ri-nascimento” racchiude due significati: celebrare la storia e dimostrare la capacità di rigenerarsi, di reinterpretare la tradizione in chiave contemporanea. Per noi è un messaggio di speranza e fiducia: l’artigianato italiano non è qualcosa di immobile, ma un patrimonio che sa rinnovarsi costantemente, dialogando con le nuove generazioni e con i linguaggi della moda».Come avete scelto di raccontare i 40 anni di Cuoio di Toscana all’interno di questo evento? «Abbiamo voluto che la celebrazione fosse concreta. Lo abbiamo fatto attraverso un progetto speciale con un grande designer come Diego Dolcini, ma anche con un riconoscimento importante, il Cdt Prize, che quest’anno va a Calcaterra, un marchio che festeggia 10 anni in calendario Camera Moda. È un modo per unire memoria e futuro: valorizzare il percorso fatto e, allo stesso tempo, sostenere chi porta avanti la creatività e la sostenibilità».L’evento prevede anche l’anteprima della nuova Opanka, nata dalla collaborazione con il designer Diego Dolcini. Come è nato questo progetto e cosa rappresenta per il consorzio? «Il progetto nasce dal desiderio di dare un seguito al successo della prima Opanka, presentata in versione maschile. Con Diego Dolcini abbiamo scelto di declinarla al femminile, mantenendo intatta l’essenza della lavorazione artigianale ma aprendo nuove prospettive stilistiche. Per noi rappresenta un manifesto: la dimostrazione che tradizione e innovazione possono convivere e generare prodotti unici, capaci di parlare al mercato contemporaneo».Quali sono le caratteristiche distintive della nuova Opanka?«La nuova Opanka è realizzata con una tecnica antica che fonde suola e tomaia in un unico elemento, simbolo di artigianalità pura. Al tempo stesso, integra innovazioni tecnologiche come Gait-Tech, che garantisce comfort e stabilità alle calzature con tacco senza rinunciare all’estetica. È l’esempio perfetto del nostro modo di intendere il Made in Italy: bellezza, funzionalità e sostenibilità che camminano insieme».Come si è sviluppato il dialogo creativo tra Cuoio di Toscana e Diego Dolcini?«È stato un incontro tra la sua sensibilità artistica e la nostra competenza tecnica. Dolcini ha portato la sua visione contemporanea, noi la solidità del nostro materiale e della nostra esperienza artigiana. Il risultato è stato un continuo scambio, dove estetica e funzionalità si sono intrecciate in maniera naturale».Il mondo della moda è in continua trasformazione, anche sotto la spinta della sostenibilità. In che direzione andrà Cuoio di Toscana nei prosimi anni?«La nostra direzione resta chiara: continuare a essere un punto di riferimento per qualità e sostenibilità. Investiremo ancora in ricerca e innovazione, mantenendo saldo il legame con il territorio e con le nostre radici artigiane. Il futuro del cuoio toscano è quello di essere sempre più protagonista di un Made in Italy responsabile, capace di unire estetica e rispetto per l’ambiente».
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Arrivò prima dei fratelli Lumière il pioniere del cinema Filoteo Alberini, quando nel 1894 cercò di brevettare il kinetografo ispirato da Edison ed inventò una macchina per le riprese su pellicola. Ma la burocrazia italiana ci mise un anno per rilasciare il brevetto, mentre i fratelli francesi presentavano l’anno successivo il loro cortometraggio «L’uscita dalle officine Lumière». Al di là del mancato primato, il regista e produttore italiano nato ad Orte nel 1865 poté fregiarsi di un altro non meno illustre successo: la prima proiezione della storia in una pubblica piazza di un’opera cinematografica, avvenuta a Roma in occasione dell’anniversario della presa di Roma. Era il 20 settembre 1905, trentacinque anni dopo i fatti che cambiarono la storia italiana, quando nell’area antistante Porta Pia fu allestito un grande schermo per la proiezione di quello che si può considerare il primo docufilm in assoluto. L’evento, pubblicizzato con la diffusione di un gran numero di volantini, fu atteso secondo diverse fonti da circa 100.000 spettatori.
Filoteo Alberini aveva fondato poco prima la casa di produzione «Alberini & Santoni», in uno stabile di via Appia Nuova attrezzato con teatri di posa e sale per il montaggio e lo sviluppo delle pellicole. La «Presa di Roma» era un film della durata di una decina di minuti per una lunghezza totale di 250 metri di pellicola, della quale ne sono stati conservati 75, mentre i rimanenti sono andati perduti. Ciò che oggi è visibile, grazie al restauro degli specialisti del Centro Sperimentale di Cinematografia, sono circa 4 minuti di una storia divisa in «quadri», che sintetizzano la cronaca di quel giorno fatale per la storia dell’Italia postunitaria. La sequenza parte con l’arrivo a Ponte Milvio del generale Carchidio di Malavolta, intenzionato a chiedere al generale Kanzler la resa senza spargimento di sangue. Il secondo quadro è girato in un interno, probabilmente nei teatri di posa della casa di Alberici e mostra in un piano sequenza l’incontro tra il messo italiano e il comandante delle forze pontificie generale Hermann Kanzler, che rifiuta la resa agli italiani. I quadri successivi sono andati perduti e il girato riprende con i Bersaglieri che passano attraverso la breccia nelle mura di Porta Pia, per passare quindi all’inquadratura di una bandiera bianca che sventola sopra le mura vaticane. L’ultimo quadro non è animato ed è colorato artificialmente (anche se negli anni alcuni studiosi hanno affermato che in origine lo fosse). Nominata «Apoteosi», l’ultima sequenza è un concentrato di allegorie, al centro della quale sta l’Italia turrita affiancata dalle figure della mitopoietica risorgimentale: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini. Sopra la figura dell’Italia brilla una stella che irradia la scena. Questo dettaglio è stato interpretato come un simbolo della Massoneria, della quale Alberici faceva parte, ed ha consolidato l’idea della forte impronta anticlericale del film. Le scene sono state girate sia in esterna che in studio e le scenografie realizzate da Augusto Cicognani, che si basò sulle foto dell’epoca scattate da Ludovico Tumminello nel giorno della presa di Roma. Gli attori principali del film sono Ubaldo Maria del Colle e Carlo Rosaspina. La pellicola era conosciuta all’epoca anche con il titolo di «La Breccia di Porta Pia» e «Bandiera Bianca».
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