2024-08-28
Oscurata pure l’inchiesta su Biden jr.
Lo scoop del «New York Post» sugli affari opachi di Hunter venne nascosto dalle piattaforme, su ordine del Bureau. Il pretesto? «Disinformazione russa».Adesso è ufficiale. Nel 2020, Facebook censurò indebitamente lo scoop del New York Post su Hunter Biden a seguito di pressioni esercitate dall’Fbi. A renderlo noto, è stato lo stesso Mark Zuckerberg in una lettera indirizzata al presidente della commissione Giustizia della Camera dei rappresentanti, Jim Jordan. «L’Fbi ci avvertì di una possibile operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden e Burisma in vista delle elezioni del 2020», ha scritto il Ceo di Meta, per poi proseguire: «Quell’autunno, quando abbiamo visto un articolo del New York Post su accuse di corruzione che coinvolgevano la famiglia dell’allora candidato presidenziale dem Joe Biden, lo abbiamo inviato ai fact checker per la revisione e ne abbiamo temporaneamente ridotto la diffusione in attesa di risposta». Zuckerberg ha poi ammesso che non si trattava di disinformazione russa. «Non avremmo dovuto ridurre la diffusione dell’articolo», ha aggiunto. Era il 14 ottobre 2020, quando il New York Post pubblicò un’email, risalente ad aprile 2015, in cui un alto dirigente dell’azienda ucraina Burisma ringraziava Hunter per averlo introdotto a suo padre che, all’epoca, era vicepresidente degli Stati Uniti: un’email che proveniva dal laptop dello stesso Hunter. Si trattava di una rivelazione esplosiva, soprattutto alla luce del fatto che, durante la campagna elettorale, Joe Biden aveva più volte negato di essere stato coinvolto negli opachi affari internazionali del figlio. Quasi subito, una cinquantina di ex funzionari dell’intelligence americana sottoscrissero una lettera, in cui si sosteneva che quello scoop fosse frutto di un’operazione russa volta a danneggiare il candidato dem. In quegli stessi giorni, Facebook e Twitter applicarono delle restrizioni alla diffusione dell’articolo, mentre gran parte della stampa sposò acriticamente la narrazione del complotto russo. Una narrazione che, tuttavia, iniziò a franare poco dopo. A marzo 2022, sia il New York Times sia il Washington Post dovettero ammettere che i contenuti del laptop di Hunter erano autentici. A novembre di quello stesso anno, la Cbs pubblicò poi un’analisi indipendente, secondo cui i dati di quel pc non erano stati manomessi. Non solo. Ad aprile 2023, l’ex direttore ad interim della Cia, Michael Morell, rivelò alla Camera che la lettera sulla disinformazione russa, da lui stesso sottoscritta, era stata redatta su input di Tony Blinken che, nel 2020, era ai vertici del team elettorale di Biden e Kamala Harris. È inoltre importante sottolineare che, tra i 50 firmatari figuravano vari ex alti funzionari dell’amministrazione Obama, come Leon Panetta, Jim Clapper e John Brennan. Senza poi dimenticare Twitter. I documenti interni, pubblicati da Elon Musk nel 2022, hanno mostrato che questa piattaforma decise di censurare lo scoop del New York Post su spinta di James Baker: all’epoca deputy general counsel della società, Baker era stato in passato nell’Fbi e aveva partecipato alle controverse indagini federali sulla presunta (e mai dimostrata) collusione tra Donald Trump e il Cremlino. Un altro dirigente di Twitter, Yoel Roth, a dicembre 2020, testimoniò alla Federal election commission che, poco prima che l’articolo uscisse, il Bureau aveva messo in guardia i vertici della piattaforma su possibili attività di hackeraggio riguardanti Hunter Biden. Non è del resto un mistero che l’Fbi fosse attraversato da sentimenti antitrumpisti. A maggio 2023, il procuratore speciale, John Durham, pubblicò un rapporto in cui si ravvisava che l’indagine aperta dai federali nel 2016 su Trump e Mosca non aveva basi solide e che risultava mossa da faziosità politica. A questo vanno poi aggiunti i collegamenti tra i giganti del Web e il team Biden-Harris.Ad agosto 2020, la Harris fu scelta come vice di Biden non perché appartenente alle minoranze etniche ma in virtù dei suoi stretti legami con la Silicon Valley. In particolare, l’attuale vicepresidente intratteneva solidi e storici agganci con l’allora direttrice operativa di Facebook, Sheryl Sandberg. L’alternativa alla Harris era invece Elizabeth Warren: la senatrice del Massachusetts che invocava l’uso della legislazione antitrust contro i colossi del Web. Scegliendo la Harris, i dem hanno quindi teso un ramoscello d’ulivo a quei giganti che, censurando lo scoop del New York Post, hanno verosimilmente «ringraziato» pochi mesi dopo. Non solo. A novembre 2020, Politico riferì che Biden aveva assunto vari ex dirigenti di Facebook nel suo team per la transizione presidenziale. Adesso, la Harris si trova davanti a un duplice problema. In primis, i suoi controversi legami con la Silicon Valley stanno tornando sotto i riflettori. Già a luglio, due suoi finanziatori, il presidente di Expedia, Barry Diller, e il cofondatore di Linkedin, Reid Hoffman, hanno effettuato pressioni su di lei, affinché, da eventuale presidente, siluri la direttrice della Federal trade commission, Lina Khan, nominata dallo stesso Biden nel 2021. In secondo luogo, la lettera di Zuckerberg, non certo tenera con i dem, mostra come il sostegno di Facebook alla vicepresidente si sia raffreddato: del resto, la Sandberg ha lasciato il board di Meta a maggio. Un mese fa, Trump ha inoltre rivelato di aver ricevuto una telefonata dallo stesso Zuckerberg, che si scusava per il fatto che la sua piattaforma avesse erroneamente bollato come disinformazione la foto dell’attentato subito dal candidato repubblicano. Verrebbe da credere che a Menlo Park non siano poi così sicuri di una vittoria della Harris a novembre.
La sede della Corta penale internazionale dell’Aia (Ansa)
Volodymyr Zelensky (Getty Images)