
Sarà una giornata campale all'Europarlamento: a Strasburgo - infatti - ieri si è discusso, e oggi si voterà su due questioni diverse, entrambe esplosive. La prima è il rapporto dell'eurodeputata verde Judith Sargentini, che pretenderebbe di applicare contro l'Ungheria di Viktor Orban il famigerato articolo 7 del Trattato Ue, e cioè una sospensione dei diritti dello Stato incriminato, fino alla negazione del voto negli organi comunitari. La seconda questione è la contestata direttiva Ue sul copyright, già stoppata a luglio, e che, pur con obiettivi astrattamente desiderabili (una migliore protezione del diritto d'autore, artistico e giornalistico), rischia però di innescare un effetto di censura, arrivando perfino a bloccare i «meme», le infografiche satiriche a cui gli utenti dei social network si sono ormai abituati.
Nel primo caso, è in gioco la rottura definitiva tra Orban e il Ppe, a cui il partito del leader ungherese ancora appartiene: e si tratterebbe di un fatto nuovo clamoroso nel rapporto tra sovranisti e partiti tradizionali, in vista delle europee del 2019. Nel secondo caso, oltre a scatenare una vasta reazione popolare, si rischia anche di aprire una campagna dalle conseguenze incerte contro giganti Usa come Twitter, Facebook, Youtube, Google. Ma procediamo con ordine.
Chiedere l'applicazione dell'articolo 7 contro uno Stato membro significa - senza tanti giri di parole - processarlo, dichiararlo colpevole della violazione dei principi fondamentali dell'Ue.
Chi si attendeva un Orban remissivo, ieri, aveva fatto male i propri conti. Con una scelta teatrale dei tempi, da consumato attore, Orban è arrivato in aula per ultimo, mentre la relatrice stava iniziando la sua requisitoria. Poco dopo, il leader ungherese ha preso la parola: ma per contrattaccare, non per difendersi. Discorso ambiguo e dai due volti - invece - quello di Manfred Weber, uomo forte del Ppe. Non ha chiuso del tutto a Orban (preannunciando che il Ppe deciderà solo in extremis come votare), ma ha rivolto critiche non lievi all'Ungheria: «La libertà d'espressione e dei media è sopra di tutto. Non possiamo accettare un rifiuto ungherese di cercare un compromesso: l'intransigenza del governo di Budapest non aiuta». La procedura dell'articolo 7 si renderà necessaria - questo il senso dell'intervento di Weber - se Orban non compirà un gesto per trovare un'intesa. Per stemperare l'attacco all'Ungheria, Weber ha concluso chiedendo che lo «stato di diritto sia rispettato ovunque, non solo a Budapest».
Si tratta di una partita enorme. Pensare di usare il «cartellino rosso» contro il governo scelto democraticamente dagli ungheresi sarebbe un autogol pazzesco per i burocrati di Bruxelles, che già avevano usato questa minaccia contro la Polonia. Per quante critiche si possano fare a Budapest e Varsavia, l'Ue si avventurerebbe su una strada veramente pericolosa: quella di esprimere giudizi negativi (tutti politici, quindi assolutamente discrezionali e arbitrari) su governi liberamente votati dai cittadini. Con tanti saluti alla democrazia e alla volontà popolare.
Per il Ppe, poi, l'effetto sarebbe deflagrante. Sarebbe surreale colpire oggi Orban e chiedergli domani di rimanere nel gruppo. Gli eurodeputati di Forza Italia, fiutata l'aria, sosterranno Budapest. La Lega è ovviamente con Orban. I 5 stelle hanno invece deciso di votare contro l'Ungheria: e si tratta di una divaricazione non piccola rispetto agli alleati leghisti.
Ma la figura chiave è proprio quella di Weber, che un giorno sembra aprire ai sovranisti, e il giorno dopo (l'ha fatto 36 ore fa in un'intervista a Le Monde) conferma l'appoggio al corpaccione del Pse e dell'Alde, tutti alleati del presidente francese Emmanuel Macron contro i «cattivi populisti». Oggi sarà il giorno della verità: se Weber ha davvero l'ambizione di guidare la futura commissione Ue, dovrà cercare un'intesa con i sovranisti. Se invece il Ppe voterà contro Orban, è evidente che sarà guerra totale.
L'altra questione, apparentemente più tecnica, è quella della direttiva Ue sul diritto d'autore. I suoi obiettivi sarebbero teoricamente desiderabili: monetizzare l'uso online di contenuti artistici o giornalistici altrui, e quindi tutelare meglio il copyright.
Ma la questione più rovente è quella dell'articolo 13 della direttiva, che scarica sulle piattaforme (Youtube, Facebook, Twitter, eccetera) ogni responsabilità per eventuali violazioni del diritto d'autore. Morale: appare scontato che, a quel punto, i giganti del Web rimuoveranno automaticamente molti contenuti degli utenti, tra cui perfino i popolarissimi «meme», le combinazioni di immagini e didascalie che un po' tutti condividiamo in modo «virale». Le piattaforme finiranno cioè per applicare un sistema di filtri che stravolgerebbe la Rete per come la conosciamo oggi.
Intendiamoci: il tema della protezione del diritto d'autore esiste (chi lo nega, nega un'evidenza), ma forse occorrerebbe un compromesso capace di interpretare meglio la modernità: pensare di trasferire pari pari in Internet regole antiche pensate per strumenti di comunicazione assai diversi è forse un errore di impostazione.
Ma il dibattito è rovente. Gli editori tradizionali accusano i giganti del Web di fare lobbying presso gli eurodeputati (vero), ma è pur vero che anche gli editori tradizionali (com'è logico) esercitano le loro pressioni, in un braccio di ferro per molti versi naturale.
Restano sullo sfondo due domande. Primo: è una buona idea colpire le mega aziende americane? Non rischia di essere una mossa percepita come un ennesimo atto di ostilità antitrumpiana? Secondo: perché prendere una decisione tanto importante con un Parlamento e una commissione Ue ormai in articulo mortis, dando un potere così grande a Jean-Claude Juncker e compagni?





