
L'imperatore Vespasiano ne deportò 20.000 in Valnerina e li costrinse a lavorare il maiale che loro non potevano mangiare perché impuro. E in Umbria nasce la storia degli insaccati italiani, le cui radici leggendarie risalgono a Volterra 2.500 anni fa.È la Juventus dei salumi, la Vecchia Signora degli insaccati. Signora di nome e di fatto. Di nome perché si chiama proprio così: signora di Conca Casale. Di fatto, perché questo salame del molisano merita il rispetto che si deve a una lady per la bontà e la storia. Conca Casale è un minuscolo paese di 200 d'anime in provincia di Isernia, nel Molise. Da qui riprendiamo il giro d'Italia dei salumi dimenticati e insoliti, iniziato nelle regioni del sud. La Signora di Conca Casale è un salame femmina di grosse dimensioni (arriva anche a cinque chili) fatto con tagli suini di pregio: lombo e spalla per il magro, lardo di schiena e di pancetta per il grasso. Un tempo la lavorazione era affidata alle massaie. È grazie a un gruppetto di anziane del paese se la Juventus dei salumi non sparirà dall'atlante italiano degli insaccati: l'hanno afferrata per lo spago prima che finisse nel baratro dell'estinzione tramandando l'antica arte norcina alle nuove generazioni.Poche signore si producevano un tempo e pochissime se ne confezionano oggi. E quelle poche sono destinate all'uso famigliare. C'è un solo norcino artigiano, Bruno Bucci, che produce un numero limitato di Signore da mettere sul mercato. «Quando si macellavano i maiali in casa e s'appendevano alle travi», spiega Bucci, «questo salume si distingueva dagli altri. Era la “signora" del baldacchino». Sarà per questo che la first lady dei salumi veniva donata a notai, medici e avvocati in cambio di pareri e favori. Un po' come i capponi che Renzo portava ad Azzeccagarbugli. Il salame a grana grossa, tagliato a punta di coltello, è insaporito con finocchietto selvatico e altre spezie. L'impasto viene insaccato in budello cieco di maiale. La stagionatura dura sei mesi. La signora di Conca Casale è nell'elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) del ministero delle Politiche agricole e alimentari e tutelata da Slow Food che l'ha elevata a presidio, l'unico del Molise.Dal Molise all'Abruzzo la gastronomia tipica, soprattutto tra gli insaccati, è simile: robusta, contadina e pastorale, di sapori forti. Campotosto, nel Parco del Gran Sasso, coniuga bellezza e bontà. Le mortadelline di Campotosto sono una prelibatezza. Il microclima, l'altezza, la tramontana le coccolano, ma la tradizione impone anche un po' di mistero: le mortadelline vanno lavorate quando la luna volge a ponente. Graziella Picchi, sociologa rurale, ha definito la mortadellina di Campotosto «un salame dal cuore candido» per via del bianco lardello posto al centro del rosso impasto. Tanta poesia crolla in bocca al popolo che, per la forma ovoidale e per la stagionatura fatta in coppia chiama le mortadelline coglioni di mulo. Nome contestato dai norcini di Norcia che ne rivendicano la primogenitura: «Gli autentici coglioni di mulo sono i nostri». Chiamarla «antica» è riduttivo. Se nella leggenda che la circonda ha un fondo di verità, la susianella di Viterbo risale agli Etruschi. È la Matusalemme dei salumi italiani. È storia che nel basso medioevo, dal Mille in poi, la susianella di Viterbo era molto apprezzata. Insaccato povero, preparato con le frattaglie del maiale, piaceva anche ad aristocratici e porporati. Si può ragionevolmente pensare che abbia fatto la sua parte nell'elezione di papa Gregorio X (1272). Molto conosciuta nel '200 è facile che questa tipicità viterbese sia stata servita ai cardinali riuniti per eleggere il successore di Clemente IV, morto nel capoluogo della Tuscia nel 1268. È altrettanto ragionevole ritenere che sia stata tolta dal menu quando i viterbesi, esasperati da un conclave che durava da tre anni tagliarono i cibi più ghiotti, susianella compresa, ai cardinali per accelerare la nomina del pontefice. La susianella di Viterbo è preparata con le frattaglie del maiale, cuore, fegato, pancreas, milza, reni, ritagli di parti magre, pancetta, guanciale e condita con sale, pepe, peperoncino e finocchio selvatico. L'impasto viene insaccato in un budellino naturale legato alle estremità a ciambella e messo a stagionare. Ha rischiato l'estinzione dopo il boom economico. A salvare il salame degli Etruschi è stata la passione dei norcini laziali e Slow Food che ne ha fatto un presidio da salvaguardare.Dall'Etruria laziale a quella toscana, da un salume etrusco a un altro. Pure la finocchiona di Volterra allunga radici leggendarie fino a 2500 anni fa. Anch'essa è uno dei salumi-patriarchi d'Italia. Giovanni Ballarini, storico dell'alimentazione, sostiene che gli Etruschi conoscevano l'arte della salagione della carne di suino. «Erano innamorati del maiale», ribadisce il volterrano Genuino Del Duca, appassionato di storia e ristoratore dell'Enoteca Del Duca. «Volterra ha tradizioni antichissime di salumeria. La carne di suino della finocchiona è macinata fine e ha i semi di finocchio al posto del pepe nero. Tipicissima di Volterra, ha un bel gusto e piace. Con i suoi scarti, si fa la salsiccia e dagli scarti di questa nascono il buristo, salume povero, ma gustoso, e il mallegato. Entrambi prevedono l'uso del sangue di maiale del quale non si butta niente. Nell'impasto del mallegato, oltre al sangue vanno uvetta, pinoli e mollica di pane». È un presidio Slow Food.Leggende a parte la storia dei salumi italiani nasce a Norcia, nel cuore d'Italia, l'Umbria. La sintetizza Carlo Bianconi, storico ristoratore norcino, proprietario del Granaro del Monte, locale del Buon ricordo che proprio quest'anno compie 170 anni di attività. «Fu l'imperatore Vespasiano, nato da queste parti, a “inventare" Norcia deportando in Valnerina 20.000 ebrei. Portarono con loro la cultura della conservazione delle carni, l'aromatizzazione e la salagione. Vespasiano li costrinse a lavorare il maiale che loro non potevano mangiare perché impuro».Norcia è il luna park degli insaccati, la Disneyland dei salami. Alcuni hanno nomi serafici, come il salame di San Benedetto che era di Norcia; altri nomi nomi volgari: bastardo, bastardone, cojoni del mulo, palle del nonno. Gioiello dell'oreficeria suina è la corallina di Norcia, testimoniata già nel '600. «È il miglior salame dell'arte norcina», dice Emiliano Ansuini (nomen omen) della norcineria Fratelli Ansuini di Mastro Peppe. «Dentro al suo budello si concentra una sapienza antica e unica. La corallina di Norcia è il tipico salame della tradizione, in passato consumato nel pranzo pasquale. Prende il nome dal budello gentile in cui si insacca la carne: noce di spalla di maiale ripulita da tutti i nervetti, carne magra, macinata finemente, arricchita di lardelli, sale, pepe, aglio e vino bianco. Insaccata nel budello corallino, stagiona per 70/90 giorni in grotte naturali. Peppe, mio padre, che è ancora molto attivo, andava a venderla a Roma dove affittava una botteguccia nel periodo pasquale». A Norcia fanno anche il ciaùscolo, ma qui bisogna dare a Cesare quel che di Cesare è: il ciaùscolo è un salame delle Marche che Graziella Picchi, nell'Atlante dei prodotti tipici, i salumi, edito dall'Istituto di sociologia rurale, definisce felicemente «inconsapevole nutella suina». Il ciaùscolo, nome che deriva dal latino cibusculum, piccolo cibo, merendina che sta tra il pranzo e la cena, è un salume morbido, da spalmare sul pane casereccio caldo. La sociologa avanza timidamente l'ipotesi che la storia del ciaùscolo possa risalire, secolo dopo secolo, ai Senoni, popolazione gallica che si era stabilita sulla dorsale apenninica tra Fabriano, San Severino e Camerino e che producevano patés di maiale. Proprio come i loro discendenti francesi. Insaccato a impasto finissimo, il ciaùscolo delle Marche è Igp, Identificazione geografica protetta.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Su un testo riservato appare il nome del partito creato da Grillo. Dietro a questi finanziamenti una vera internazionale di sinistra.
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Nel 1937 l’archeologo francese Fernand Benoit fece una scoperta clamorosa. Durante gli scavi archeologici nei pressi dell’acquedotto romano di Arles, la sua città, riportò alla luce un sito straordinario. Lungo un crinale ripido e roccioso, scoprì quello che probabilmente è stato il primo impianto industriale della storia, un complesso che anticipò di oltre un millennio la prima rivoluzione industriale, quella della forza idraulica.
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Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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