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2020-06-04
Nessuno lo vuole: per il Mes è l’ora dei saldi
Klaus Regling (Ansa)
È questo il momento di mostrarsi solidali a stringersi al fianco di Klaus Regling, direttore generale del Mes. Infatti ormai dal 15 maggio scorso, quest'uomo vaga ramingo per televisioni e giornali nel disperato tentativo di vendere la sua merce che, purtroppo, nessuno compra. Dal giorno in cui il Consiglio dei governatori del Mes ha deliberato l'adozione della Pandemic Crisis Support è stato un coro di «no, grazie». Portogallo, Spagna, Francia, perfino la derelitta Grecia, ne hanno preso le distanze, giudicandolo per quello che è: uno strumento per Paesi in difficoltà finanziaria, non in grado di indebitarsi regolarmente emettendo titoli sui mercati. Persino Giuseppe Conte, ieri, ha così risposto a una domanda sul Mes: «Quando avremo tutti i regolamenti li studierò e li porterò alla valutazione del Parlamento. Io sono testardo, non ho cambiato idea».
Il 22 maggio, di fronte a tale insuccesso, il buon Regling ha perfino mandato a Sky Tg24 il suo segretario generale Nicola Giammarioli, sbandierando la richiesta di Cipro (Stato con gli stessi abitanti della provincia di Bari e già indebitato col Mes, giusto per dare l'idea della disperazione della mossa) come segnale della positiva reazione dei mercati alla richiesta di accesso al Mes. Ieri è stata la volta del direttore finanziario del Mes, il danese Kalin Janse, che si è esibito sul sito istituzionale in una perorazione degna di miglior causa. Janse si è concentrato sull'aspetto della convenienza del prestito erogato dal Mes rispetto al costo sostenuto da uno Stato indebitandosi emettendo titoli sul mercato.
Ma, come spesso accade, la toppa è peggio del buco. Per i seguenti motivi:
1 Si specifica che il tasso del prestito per una scadenza di 7 o 10 anni sarà pari rispettivamente a -0,07% e 0,08%. Nettamente meno rispetto al 1% di una linea di credito secondo le regole ordinarie del Mes. Questo perché il tasso base viene determinato attingendo a un nuovo «serbatoio» di raccolta specificamente impostato e i margini e le commissioni sono più che dimezzati. In questo modo, il tasso base non deve essere più il risultato della media con i tassi relativi a precedenti emissioni del Mes, ma viene fuori solo dalle nuove emissioni specificamente dedicate al Psc. Ma Jansen deve avvisare il suo capo e fargli correggere il dispositivo di assistenza finanziaria che tuttora è presente sul sito del Mes, pronto ad essere firmato. Là si legge ancora che il tasso base è la media ponderata di tutte le emissioni. C'è scritto chiaramente che «all'inizio si attingeranno i finanziamenti da un serbatoio comune». Insomma, visto che con i prezzi iniziali la merce restava invenduta, hanno pensato bene di mettere il cartello «saldi».
2 Jansen è così preciso nell'esporre le differenze tra un prestito a 7 ed uno a 10 anni, ma non lo è altrettanto nell'evidenziare altre differenze. Infatti il tasso applicato dal Mes dipenderà sempre dal suo tasso base e quindi dalle specifiche politiche di raccolta dal Mes sui mercati. Quindi i maggiori costi di raccolta verranno ribaltati sempre sui Paesi beneficiari. Non dimentichiamo che ci vorranno 7 mesi al Mes per erogare quei fondi. E per quale motivo un Paese come l'Italia deve attendere tanto tempo per avere fondi che raccoglierebbe in qualche giorno sui mercati, senza sostenere il rischio di futura oscillazione dei tassi? Sfortunatamente per Jansen, proprio ieri il Tesoro ha raccolto 14 miliardi con il nuovo Btp decennale al tasso del 1,71%, a fronte di un'offerta di oltre 100 miliardi. Quindi Jansen sta confrontando un tasso certo (Btp a 10 anni) con uno incerto (dipendente dalle politiche di raccolta del Mes). Errore imperdonabili anche al corso base di finanza aziendale.
3 Non ci stancheremo mai di ripetere che il prestito del Mes ha un livello di privilegio nel soddisfacimento rispetto agli altri creditori, superiore a quello del Btp. Jansen dovrebbe confrontare il suo mirabolante tasso con quello applicabile per un prestito sindacato di pari importo e scadenza e ci sono fondate evidenze che la differenza scomparirebbe. Cose banali per un cittadino che chiede un mutuo ed è abituato a pagare un tasso più alto per un mutuo chirografario rispetto ad uno ipotecario. Jansen, pur di vendere, si lascia scappare qualche imprecisione.
4 Quando Mario Draghi qualche settimana fa disse che era il momento di fare debito pubblico per finanziare il settore privato, non aggiunse, perché non ce n'era bisogno, che quel debito avrebbe avuto la Bce come unico grande compratore. I dati resi noti l'altro ieri sono impressionanti: gli acquisti di titoli italiani da gennaio a maggio sono stati pari a 59 miliardi, di cui 51 solo nel bimestre aprile-maggio. Da inizio anno, i programmi Pepp ed Pspp hanno visto acquisti di titoli italiani rispettivamente per il 21,6% ed il 29,6% del totale acquisti di titoli nazionali. Ben al di sopra della base di ripartizione fissata al 17% per l'Italia. Nello scorso bimestre, la Bce ha comprato, al netto dei rimborsi, ancora più titoli di quanti ne ha emessi il Tesoro. Giova ripetere che il costo marginale di quei 59 miliardi è quasi pari a zero e che quegli interessi torneranno nelle casse del Tesoro sotto forma di dividendi di Bankitalia nel bilancio 2020. Ma questo Jansen sembra dimenticarlo.
Il livello del dibattito in casa nostra è ancora più basso. Ieri sul Sole 24 Ore fioccavano ipotesi mirabolanti sugli impieghi di queste somme. Aldilà del fatto aberrante di finanziare spese correnti con entrate una tantum peraltro da rimborsare, come il Mes, la immaginate la faccia del funzionario che dovrà attestare che trattasi di costi indirettamente connessi alla crisi da Covid 19?
Asta da record, i Btp raccolgono in poche ore metà Recovery fund
Più di 100 miliardi di euro. Ordini record - per la precisione 108 miliardi - quelli fatti registrare ieri dal nuovo Btp a 10 anni. Nel giro di poche ore, dunque, il Tesoro ha potuto contare su una disponibilità pari a tre volte l'offerta da parte dal Meccanismo europeo di stabilità e a più della metà di quanto messo sul piatto dalla Commissione europea con il Recovery fund.
Particolare non trascurabile, a differenza dei soldi messi a disposizione da Bruxelles emettere titoli non prevede condizionalità, né tantomeno il rischio che ci venga imposto alcun piano di riforme. E cosa ancora più importante, il tutto a costi accettabilissimi, dal momento che il rendimento del Btp decennale viaggia tra l'1,5 e l'1,7%. Se mettiamo nel calderone le commissioni e i costi fissi, all'incirca il doppio di quanto ci costerebbe il Fondo salvastati, ma evitare il pericolo di incorrere in clausole capestro non ha prezzo. Sempre meno di quanto paventato dal capo del Mes, Klaus Regling, che appena il mese scorso profetizzava l'emissione di 36 miliardi di Btp a tassi «molto più elevati» del 2%.
Da quando circa un mese fa il Mef ha deciso di levare il freno a mano delle emissioni, il nostro debito pubblico ha dimostrato di fare ancora gola agli investitori, istituzionali e non. Non ci stanchiamo di ripetere che l'Italia può tranquillamente fare a meno degli «aiutini» offerti a vario titolo dall'Unione europea e le aste dell'ultimo mese lo dimostrano. Nonostante il volume del nostro debito pubblico sia innegabilmente alto, nessuno sembra volerne mettere in dubbio la sostenibilità. Certo, lo stigma legato ai conti in disordine e alla ripresa cronicamente debole fa sì che tutto questo abbia un costo in termini di rendimenti, ma le dinamiche dei tassi a cui stiamo assistendo in queste settimane sono ben lontane da quelle alle quali abbiamo assistito nel 2011. Quando cioè, con la scusa della crisi, gli speculatori approfittarono per fare cassa grazie all'Italia.
Se oggi le cose stanno diversamente non dobbiamo ringraziare l'interessata mano tesa dei mandarini di Bruxelles, o il servilismo del governo amico nei suoi confronti, bensì la Banca centrale europea. Per via del Quantitive easing varato da Mario Draghi a gennaio del 2015, non solo i rendimenti dei debiti sovrani sono rimasti schiacciati verso il basso, ma gli investitori hanno potuto, e possono tuttora, godere di una relativa tranquillità. Una tendenza confermata, nonostante la ritrosia iniziale («Non siamo qui a chiudere gli spread», ebbe infelicemente a dire a marzo il governatore Christine Lagarde), anche con il nuovo programma di acquisto titoli per l'emergenza pandemia (Pepp). Segno che quando la Banca centrale fa il proprio lavoro, tutto va inevitabilmente per il meglio.
Dal lancio del Pepp, avvenuto due mesi fa, la Bce ha acquistato titoli italiani per 37,4 miliardi di euro, meno di quelli tedeschi (46,74 miliardi) anche se la deviazione dalla quota assegnata con il «capital key» è risultata maggiore rispetto a quella tedesca (4,65% contro 0,71%). Tradotto, la Bce non lavora solo per il nostro Paese, ma per l'intera eurozona. Un messaggio forte e chiaro nei confronti dei giudici di Karlsruhe, la cui sentenza del 5 maggio scorso minaccia di limitare fortemente l'azione di Francoforte, è atteso dal consiglio direttivo in programma oggi. Stando alle indiscrezioni, Christine Lagarde dovrebbe infatti annunciare il prolungamento e il potenziamento del Pepp. Un guanto di sfida che difficilmente Berlino vorrà non raccogliere.
La nuova vita (dorata) di Moscovici
L'ex commissario europeo Pierre Moscovici è stato nominato ieri dal governo francese come nuovo presidente della Corte dei conti d'Oltralpe. Poco dopo l'annuncio della nomina, il nuovo capo dei magistrati contabili ha scritto su Twitter: «Assumo questa funzione con emozione, umiltà e determinazione». A questi tre sentimenti, l'ex commissario Ue non poteva aggiungere la sorpresa. In effetti, la sua nomina era nell'aria già due anni fa, quando era ancora responsabile delle finanze dell'Unione europea.
L'incoronazione dell'ex commissario europeo sembra una sorta di ricompensa per aver fatto, più o meno apertamente, gli interessi di Parigi a Bruxelles, invece di quelli dei 27 Paesi membri. Tra questi, l'Italia è stata spesso uno dei bersagli preferiti degli attacchi e delle minacce di sanzioni di Moscò, come lo chiamano simpaticamente gli amici. Questo almeno fino a quando a Roma governava anche Matteo Salvini.
Per capirlo bisogna fare un passo indietro e tornare all'inizio della protesta dei gilet gialli, scoppiata il 17 novembre del 2018. Sorpreso dalla sommossa popolare e preoccupato per i suoi sviluppi, Emmanuel Macron aveva invitato a cena alcuni ex primi ministri francesi e Pierre Moscovici. I gilet gialli chiedevano più giustizia fiscale e meno precarietà. Per questo il presidente francese aveva bisogno di capire se la Commissione Ue, affidata alla guida di Jean-Claude Junker, avesse o meno intenzione di chiudere un occhio sulle finanze francesi e permettere a Parigi di elargire un po' di elemosina al popolino. Chi meglio del predecessore di Paolo Gentiloni a Bruxelles poteva fugare i dubbi dell'inquilino dell'Eliseo?
La cena si svolse prima dell'annuncio della possibile apertura della procedura d'infrazione contro Roma. Ma le invettive contro l'Italia dell'ex commissario sono andate anche al di là delle sue competenze dell'epoca. Ad esempio, il 4 ottobre 2018, Moscovici dichiarava a Le Monde che «gli Orbán, i Salvini, i Kaczyinski, i Le Pen disegneranno un'Europa dove la giustizia e la stampa saranno sotto controllo, gli stranieri stigmatizzati, le minoranze minacciate». Invece il primo ad approvare leggi bavaglio è stato proprio il parlamento a maggioranza macronista, che ha partorito le norme contro le fake news e quelle contro gli haters su internet. Due provvedimenti ispirati da nobili intenzioni ma che, nei fatti, provocano distorsioni importanti alla libertà espressione e di stampa.
Tornando ad oggi, bisogna dire che l'ufficializzazione della nomina alla presidenza della Corte dei conti è un vero colpaccio messo a segno da Moscò, del quale non si ricordano risultati economici folgoranti. In effetti, prima di andare a Bruxelles, il neo presidente dei giudici contabili è stato ministro delle finanze di Parigi, tra il 2012 e il 2014. In quel periodo la Francia non è riuscita a mantenere il rapporto deficit-Pil sotto la soglia del 3% imposta da Bruxelles. In un'intervista accordata, nell'ottobre 2014, alla trasmissione C dans l'air, Moscovici dichiarava: «Spero di essere migliore come commissario europeo di come sono stato come ministro». La storia non gli ha dato ragione.
Nonostante quindi, gli scarsi risultati ottenuti in patria e in Europa, per il nuovo capo della magistratura contabile transalpina, si è aperto un bel paracadute dorato. Come scritto dalla Verità, la legge finanziaria del 2018 prevedeva che lo stipendio annuo del presidente della Corte dei conti fosse di circa 174.000 euro.
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Riduci
Portogallo, Spagna, Francia, perfino la Grecia hanno preso le distanze dal Salvastati. E Giuseppe Conte assicura: «Non ho cambiato idea» Regling corre ai ripari annunciando che il tasso del prestito a 10 anni sarà pari allo 0,08% e non all'1%. Ma la spiegazione fa acqua.Per i titoli di Stato ordini per 108 miliardi. Un chiaro messaggio ai giudici di Karlsruhe.L'ex commissario Ue e falco anti italiano Pierre Moscovici nominato capo della Corte dei conti francese Il nemico giurato dei sovranisti premiato con uno stipendio annuo di circa 174.000 euroLo speciale contiene tre articoliÈ questo il momento di mostrarsi solidali a stringersi al fianco di Klaus Regling, direttore generale del Mes. Infatti ormai dal 15 maggio scorso, quest'uomo vaga ramingo per televisioni e giornali nel disperato tentativo di vendere la sua merce che, purtroppo, nessuno compra. Dal giorno in cui il Consiglio dei governatori del Mes ha deliberato l'adozione della Pandemic Crisis Support è stato un coro di «no, grazie». Portogallo, Spagna, Francia, perfino la derelitta Grecia, ne hanno preso le distanze, giudicandolo per quello che è: uno strumento per Paesi in difficoltà finanziaria, non in grado di indebitarsi regolarmente emettendo titoli sui mercati. Persino Giuseppe Conte, ieri, ha così risposto a una domanda sul Mes: «Quando avremo tutti i regolamenti li studierò e li porterò alla valutazione del Parlamento. Io sono testardo, non ho cambiato idea». Il 22 maggio, di fronte a tale insuccesso, il buon Regling ha perfino mandato a Sky Tg24 il suo segretario generale Nicola Giammarioli, sbandierando la richiesta di Cipro (Stato con gli stessi abitanti della provincia di Bari e già indebitato col Mes, giusto per dare l'idea della disperazione della mossa) come segnale della positiva reazione dei mercati alla richiesta di accesso al Mes. Ieri è stata la volta del direttore finanziario del Mes, il danese Kalin Janse, che si è esibito sul sito istituzionale in una perorazione degna di miglior causa. Janse si è concentrato sull'aspetto della convenienza del prestito erogato dal Mes rispetto al costo sostenuto da uno Stato indebitandosi emettendo titoli sul mercato.Ma, come spesso accade, la toppa è peggio del buco. Per i seguenti motivi:1 Si specifica che il tasso del prestito per una scadenza di 7 o 10 anni sarà pari rispettivamente a -0,07% e 0,08%. Nettamente meno rispetto al 1% di una linea di credito secondo le regole ordinarie del Mes. Questo perché il tasso base viene determinato attingendo a un nuovo «serbatoio» di raccolta specificamente impostato e i margini e le commissioni sono più che dimezzati. In questo modo, il tasso base non deve essere più il risultato della media con i tassi relativi a precedenti emissioni del Mes, ma viene fuori solo dalle nuove emissioni specificamente dedicate al Psc. Ma Jansen deve avvisare il suo capo e fargli correggere il dispositivo di assistenza finanziaria che tuttora è presente sul sito del Mes, pronto ad essere firmato. Là si legge ancora che il tasso base è la media ponderata di tutte le emissioni. C'è scritto chiaramente che «all'inizio si attingeranno i finanziamenti da un serbatoio comune». Insomma, visto che con i prezzi iniziali la merce restava invenduta, hanno pensato bene di mettere il cartello «saldi».2 Jansen è così preciso nell'esporre le differenze tra un prestito a 7 ed uno a 10 anni, ma non lo è altrettanto nell'evidenziare altre differenze. Infatti il tasso applicato dal Mes dipenderà sempre dal suo tasso base e quindi dalle specifiche politiche di raccolta dal Mes sui mercati. Quindi i maggiori costi di raccolta verranno ribaltati sempre sui Paesi beneficiari. Non dimentichiamo che ci vorranno 7 mesi al Mes per erogare quei fondi. E per quale motivo un Paese come l'Italia deve attendere tanto tempo per avere fondi che raccoglierebbe in qualche giorno sui mercati, senza sostenere il rischio di futura oscillazione dei tassi? Sfortunatamente per Jansen, proprio ieri il Tesoro ha raccolto 14 miliardi con il nuovo Btp decennale al tasso del 1,71%, a fronte di un'offerta di oltre 100 miliardi. Quindi Jansen sta confrontando un tasso certo (Btp a 10 anni) con uno incerto (dipendente dalle politiche di raccolta del Mes). Errore imperdonabili anche al corso base di finanza aziendale.3 Non ci stancheremo mai di ripetere che il prestito del Mes ha un livello di privilegio nel soddisfacimento rispetto agli altri creditori, superiore a quello del Btp. Jansen dovrebbe confrontare il suo mirabolante tasso con quello applicabile per un prestito sindacato di pari importo e scadenza e ci sono fondate evidenze che la differenza scomparirebbe. Cose banali per un cittadino che chiede un mutuo ed è abituato a pagare un tasso più alto per un mutuo chirografario rispetto ad uno ipotecario. Jansen, pur di vendere, si lascia scappare qualche imprecisione.4 Quando Mario Draghi qualche settimana fa disse che era il momento di fare debito pubblico per finanziare il settore privato, non aggiunse, perché non ce n'era bisogno, che quel debito avrebbe avuto la Bce come unico grande compratore. I dati resi noti l'altro ieri sono impressionanti: gli acquisti di titoli italiani da gennaio a maggio sono stati pari a 59 miliardi, di cui 51 solo nel bimestre aprile-maggio. Da inizio anno, i programmi Pepp ed Pspp hanno visto acquisti di titoli italiani rispettivamente per il 21,6% ed il 29,6% del totale acquisti di titoli nazionali. Ben al di sopra della base di ripartizione fissata al 17% per l'Italia. Nello scorso bimestre, la Bce ha comprato, al netto dei rimborsi, ancora più titoli di quanti ne ha emessi il Tesoro. Giova ripetere che il costo marginale di quei 59 miliardi è quasi pari a zero e che quegli interessi torneranno nelle casse del Tesoro sotto forma di dividendi di Bankitalia nel bilancio 2020. Ma questo Jansen sembra dimenticarlo.Il livello del dibattito in casa nostra è ancora più basso. Ieri sul Sole 24 Ore fioccavano ipotesi mirabolanti sugli impieghi di queste somme. Aldilà del fatto aberrante di finanziare spese correnti con entrate una tantum peraltro da rimborsare, come il Mes, la immaginate la faccia del funzionario che dovrà attestare che trattasi di costi indirettamente connessi alla crisi da Covid 19?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nessuno-lo-vuole-per-il-mes-e-lora-dei-saldi-2646151398.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="asta-da-record-i-btp-raccolgono-in-poche-ore-meta-recovery-fund" data-post-id="2646151398" data-published-at="1591211504" data-use-pagination="False"> Asta da record, i Btp raccolgono in poche ore metà Recovery fund Più di 100 miliardi di euro. Ordini record - per la precisione 108 miliardi - quelli fatti registrare ieri dal nuovo Btp a 10 anni. Nel giro di poche ore, dunque, il Tesoro ha potuto contare su una disponibilità pari a tre volte l'offerta da parte dal Meccanismo europeo di stabilità e a più della metà di quanto messo sul piatto dalla Commissione europea con il Recovery fund. Particolare non trascurabile, a differenza dei soldi messi a disposizione da Bruxelles emettere titoli non prevede condizionalità, né tantomeno il rischio che ci venga imposto alcun piano di riforme. E cosa ancora più importante, il tutto a costi accettabilissimi, dal momento che il rendimento del Btp decennale viaggia tra l'1,5 e l'1,7%. Se mettiamo nel calderone le commissioni e i costi fissi, all'incirca il doppio di quanto ci costerebbe il Fondo salvastati, ma evitare il pericolo di incorrere in clausole capestro non ha prezzo. Sempre meno di quanto paventato dal capo del Mes, Klaus Regling, che appena il mese scorso profetizzava l'emissione di 36 miliardi di Btp a tassi «molto più elevati» del 2%. Da quando circa un mese fa il Mef ha deciso di levare il freno a mano delle emissioni, il nostro debito pubblico ha dimostrato di fare ancora gola agli investitori, istituzionali e non. Non ci stanchiamo di ripetere che l'Italia può tranquillamente fare a meno degli «aiutini» offerti a vario titolo dall'Unione europea e le aste dell'ultimo mese lo dimostrano. Nonostante il volume del nostro debito pubblico sia innegabilmente alto, nessuno sembra volerne mettere in dubbio la sostenibilità. Certo, lo stigma legato ai conti in disordine e alla ripresa cronicamente debole fa sì che tutto questo abbia un costo in termini di rendimenti, ma le dinamiche dei tassi a cui stiamo assistendo in queste settimane sono ben lontane da quelle alle quali abbiamo assistito nel 2011. Quando cioè, con la scusa della crisi, gli speculatori approfittarono per fare cassa grazie all'Italia. Se oggi le cose stanno diversamente non dobbiamo ringraziare l'interessata mano tesa dei mandarini di Bruxelles, o il servilismo del governo amico nei suoi confronti, bensì la Banca centrale europea. Per via del Quantitive easing varato da Mario Draghi a gennaio del 2015, non solo i rendimenti dei debiti sovrani sono rimasti schiacciati verso il basso, ma gli investitori hanno potuto, e possono tuttora, godere di una relativa tranquillità. Una tendenza confermata, nonostante la ritrosia iniziale («Non siamo qui a chiudere gli spread», ebbe infelicemente a dire a marzo il governatore Christine Lagarde), anche con il nuovo programma di acquisto titoli per l'emergenza pandemia (Pepp). Segno che quando la Banca centrale fa il proprio lavoro, tutto va inevitabilmente per il meglio. Dal lancio del Pepp, avvenuto due mesi fa, la Bce ha acquistato titoli italiani per 37,4 miliardi di euro, meno di quelli tedeschi (46,74 miliardi) anche se la deviazione dalla quota assegnata con il «capital key» è risultata maggiore rispetto a quella tedesca (4,65% contro 0,71%). Tradotto, la Bce non lavora solo per il nostro Paese, ma per l'intera eurozona. Un messaggio forte e chiaro nei confronti dei giudici di Karlsruhe, la cui sentenza del 5 maggio scorso minaccia di limitare fortemente l'azione di Francoforte, è atteso dal consiglio direttivo in programma oggi. Stando alle indiscrezioni, Christine Lagarde dovrebbe infatti annunciare il prolungamento e il potenziamento del Pepp. Un guanto di sfida che difficilmente Berlino vorrà non raccogliere. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nessuno-lo-vuole-per-il-mes-e-lora-dei-saldi-2646151398.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-nuova-vita-dorata-di-moscovici" data-post-id="2646151398" data-published-at="1591211504" data-use-pagination="False"> La nuova vita (dorata) di Moscovici L'ex commissario europeo Pierre Moscovici è stato nominato ieri dal governo francese come nuovo presidente della Corte dei conti d'Oltralpe. Poco dopo l'annuncio della nomina, il nuovo capo dei magistrati contabili ha scritto su Twitter: «Assumo questa funzione con emozione, umiltà e determinazione». A questi tre sentimenti, l'ex commissario Ue non poteva aggiungere la sorpresa. In effetti, la sua nomina era nell'aria già due anni fa, quando era ancora responsabile delle finanze dell'Unione europea. L'incoronazione dell'ex commissario europeo sembra una sorta di ricompensa per aver fatto, più o meno apertamente, gli interessi di Parigi a Bruxelles, invece di quelli dei 27 Paesi membri. Tra questi, l'Italia è stata spesso uno dei bersagli preferiti degli attacchi e delle minacce di sanzioni di Moscò, come lo chiamano simpaticamente gli amici. Questo almeno fino a quando a Roma governava anche Matteo Salvini. Per capirlo bisogna fare un passo indietro e tornare all'inizio della protesta dei gilet gialli, scoppiata il 17 novembre del 2018. Sorpreso dalla sommossa popolare e preoccupato per i suoi sviluppi, Emmanuel Macron aveva invitato a cena alcuni ex primi ministri francesi e Pierre Moscovici. I gilet gialli chiedevano più giustizia fiscale e meno precarietà. Per questo il presidente francese aveva bisogno di capire se la Commissione Ue, affidata alla guida di Jean-Claude Junker, avesse o meno intenzione di chiudere un occhio sulle finanze francesi e permettere a Parigi di elargire un po' di elemosina al popolino. Chi meglio del predecessore di Paolo Gentiloni a Bruxelles poteva fugare i dubbi dell'inquilino dell'Eliseo? La cena si svolse prima dell'annuncio della possibile apertura della procedura d'infrazione contro Roma. Ma le invettive contro l'Italia dell'ex commissario sono andate anche al di là delle sue competenze dell'epoca. Ad esempio, il 4 ottobre 2018, Moscovici dichiarava a Le Monde che «gli Orbán, i Salvini, i Kaczyinski, i Le Pen disegneranno un'Europa dove la giustizia e la stampa saranno sotto controllo, gli stranieri stigmatizzati, le minoranze minacciate». Invece il primo ad approvare leggi bavaglio è stato proprio il parlamento a maggioranza macronista, che ha partorito le norme contro le fake news e quelle contro gli haters su internet. Due provvedimenti ispirati da nobili intenzioni ma che, nei fatti, provocano distorsioni importanti alla libertà espressione e di stampa. Tornando ad oggi, bisogna dire che l'ufficializzazione della nomina alla presidenza della Corte dei conti è un vero colpaccio messo a segno da Moscò, del quale non si ricordano risultati economici folgoranti. In effetti, prima di andare a Bruxelles, il neo presidente dei giudici contabili è stato ministro delle finanze di Parigi, tra il 2012 e il 2014. In quel periodo la Francia non è riuscita a mantenere il rapporto deficit-Pil sotto la soglia del 3% imposta da Bruxelles. In un'intervista accordata, nell'ottobre 2014, alla trasmissione C dans l'air, Moscovici dichiarava: «Spero di essere migliore come commissario europeo di come sono stato come ministro». La storia non gli ha dato ragione. Nonostante quindi, gli scarsi risultati ottenuti in patria e in Europa, per il nuovo capo della magistratura contabile transalpina, si è aperto un bel paracadute dorato. Come scritto dalla Verità, la legge finanziaria del 2018 prevedeva che lo stipendio annuo del presidente della Corte dei conti fosse di circa 174.000 euro.
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Riduci
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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